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Libano, il voto ha solo rafforzato le spinte confessionali in politica

di Sami Halabi* - 29/07/2009



Le elezioni libanesi del mese scorso hanno confermato ancora una volta che a dominare in questo piccolo Paese mediterraneo è la politica confessionale. Da tempo sono state rimosse dalla coscienza collettiva le lezioni di 15 anni di Guerra civile, che è iniziata come un conflitto politico e di classe ed è degenerata in ostilità confessionale. Dimenticati sono pure gli anni post-conflitto che hanno portato alle recenti elezioni e sono stati caratterizzati dal flusso e riflusso di una guerra civile.

Molti potrebbero sostenere che a scavare nel passato si corre il rischio di riviverlo. Ma nel caso del Libano, consentire ai problemi che hanno spinto il Paese in un conflitto civile di infettarsi nemmeno si è rivelato utile.

Gli accordi di Taif, che di fatto hanno posto fine alla guerra civile Libano, stabiliscono che siano sciolte tutte le milizie del conflitto libanese. Sebbene molte delle milizie confessionali nazionali siano ancora in possesso di alcune delle loro armi, solo Hezbollah mantiene un arsenale militare considerevole. Il proseguimento dell’occupazione del Libano da parte di Israele resta la giustificazione principale per la presenza armata di Hezbollah al di fuori dell’apparato statale. Le armi di Hezbollah rappresentano un nodo particolarmente critico, che è arrivato al pettine nel maggio 2008 quando Hezbollah e i suoi alleati si sono fronteggiati con le forze filogovernative nelle strade di Beirut.

Non è nemmeno una sorpresa il fatto che oggi molti di coloro che mettono in discussione le armi dell’organizzazione siano membri di confessioni che sono contrarie al crescente potere politico, economico e militare degli sciiti in Libano. Molta di questa ostilità verso Hezbollah proviene dai componenti di quell’area che ha sofferto decisamente di meno per la recente aggressione israeliana al Paese. Questa (area) comprende gli ex sostenitori del Partito falangista, che era sostenuta da Israele durante la guerra civile, e appoggiò apertamente l’invasione israeliana nel 1982 e l’occupazione del sud del Libano terminata nel 2000.

Un’altra dimensione del guazzabuglio confessionale è la sensazione tra gli ampi strati della comunità cristiana del Libano di star diventando demograficamente marginalizzati da una crescente popolazione musulmana, in particolare gli sciiti e i sostenitori di Hezbollah. A partire dalle ultime elezioni, tenute nel 2005 sulla scia dell’assassinio del primo ministro Rafiq Hariri, diverse fazioni all’interno dell’elite politica cristiana hanno scelto di affrontare il problema o alleandosi con la realtà demografica in crescita degli sciiti libanesi, o oppenendosi a loro.

Michel Aoun – un ex comandante militare e presidente di fatto – è sostenuto da molti cristiani libanesi. Di recente ha ringraziato in maniera sarcastica il presidente Usa Barack Obama per avere "paragonato la tutela dei maroniti [cristiani] in Libano a quella dei panda" con riferimento al discorso del presidente Usa al Cairo. Il partito di Aoun, il Movimento patriottico libero, fa parte dell’opposizione parlamentare guidata da Hezbollah. D’altro canto, qualcuno ha posto l’attenzione sullo scisma all’interno della comunità cristiana come prova che le dinamiche politiche del Libano stanno iniziando ad andare oltre le loro lacune confessionali. La realtà della questione, tuttavia, è molto meno incoraggiante.

L’alleanza di Aoun con Hezbollah si basa unicamente su principi confessionali. Per nulla al mondo, quando formò l’alleanza, (Aoun) dimenticò di ricordare a tutti gli uditori che egli rappresentava la "maggioranza" della popolazione cristiana, rafforzando così la natura dell’alleanza come (accordo) tra gruppi confessionali e non tra gruppi politici. Quando ho chiesto a un deputato della sua coalizione perché si fosse alleato con Hezbollah visto che i loro programmi sono in contrasto su molti punti riguardanti le riforme, egli si è messo a ridere e ha detto che "non ci sono questioni politiche in Libano". Anche se il partito di Aoun ha ottenuto più seggi che nelle passate elezioni, soprattutto a causa della arcaica legge elettorale libanese, quella "maggioranza" è venuta fuori per essere nulla di più che un pio desiderio e un’analisi selettiva facilitata dalla riluttanza libanese a condurre dei sondaggi o un censimento della popolazione, per timore di stravolgere "l’equilibrio" confessionale del Paese.

In più, molti dei sostenitori cristiani di Aoun che inizialmente erano diffidenti nei confronti dell’alleanza del partito con Hezbollah hanno scelto di sostenere la coalizione 14 marzo, un’alleanza scomposta di ex signori della guerra e magnati della finanza che hanno vinto le recenti elezioni con una valanga di preferenze attraverso un monolitico voto per clan. Le azioni di Hezbollah non hanno sostenuto Aoun. Poco prima del giorno delle elezioni, Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah, ha tenuto un discorso infuocato sui fatti del 7 maggio dello scorso anno, definendoli "un giorno di gloria".

Cosa vi è stato di così meraviglioso nel fatto che Beirut sia stata presa da miliziani legati a Hezbollah e ai suoi alleati? O che i loro rivali filo-governativi abbiano allestito dei checkpoint ad hoc, per assicurarsi che nessuna persona "indesiderata" con un nome o un cognome siriano entrasse nelle loro enclave confessionali? Una dichiarazione di questo tipo oltrepassa i confini del buon senso. A meno che non si faccia parte di coloro che ritengono che, fondamentalmente, Hezbollah non ha mai voluto vincere le elezioni. Seppure una cosa del genere possa sembrare illogica ai più, vi è una reale possibilità che Hezbollah abbia preferito non avere a che fare con una economia fondata sul debito, che attualmente ha una percentuale di indebitamento rispetto al Pil pari al 170 per cento.

Al contrario, quello che sta diventando sempre più evidente è che Hezbollah sarà soddisfatto, almeno per il momento, delle "rassicurazioni" che qualunque nuovo governo non tenterà di sbarazzarsi del suo arsenale o della sua infrastruttura militare. Che ciò sia intenzionale o meno, di certo Hezbollah ha scoraggiato il sostegno per Aoun tra i cristiani libanesi, anche se quel sostegno non aveva raggiunto il presunto "70 per cento".

Da parte sua, Hezbollah è felice come tutti di utilizzare la realtà confessionale del Libano per i suoi propri scopi. Il Partito di Dio ha sopraffatto i suoi rivali nelle roccaforti delle regioni meridionali e occidentali del Libano con il voto praticamente uniforme degli sciiti del Paese. Inoltre, Hezbollah continua a fornire servizi sociali esclusivamente ai suoi componenti, cementando ulteriormente la dipendenza e la lealtà della maggioranza della comunità sciita nei confronti del partito, per non parlare del contributo dato all’argomento dello "Stato all’interno dello Stato" sostenuto dai suoi detrattori.

Da qualche parte, in mezzo a tutto questo, ci sono i sunniti libanesi. Sebbene essi non abbiano mai avuto una potente milizia propria, i sunniti possiedono un’arma visibile che in Libano tutti conoscono molto bene: i soldi. Appoggiati dal petrodollari sauditi, i sunniti si sono dati da fare per "comprare" il loro accesso al potere. I sauditi – che hanno molti interessi in Libano, che vanno dai combattenti a loro legati nel nord fino agli investimenti immobiliari in tutto il Paese – hanno investito molto denaro (si stima tra i 400 milioni e il miliardo di dollari) nelle recenti elezioni libanesi per assicurarsi che il loro pezzo di torta confessionale libanese non venisse mangiata da qualcun altro. Questo si è rivelato un investimento proficuo per il Regno visto che i loro protetti locali, la famiglia Hariri e i suoi alleati, hanno ottenuto una vittoria decisiva nelle elezioni. Saad Hariri, il figlio dell’ex primo ministro assassinato e il capo del partito che ha la più grande porzione di seggi nel nuovo Parlamento, è appena divenuto il primo ministro libanese designato dopo soli quattro anni in politica e senza aver mai assunto un incarico ministeriale o avere partecipato ad alcuna delle riforme più importanti del Libano.

Continuando a girare, le ruote confessionali del Libano tirano fuori l’abilità della elite politica libanese a governare per mezzo di un sistema perpetuo di successione. L’ereditarietà del potere politico attraversa le linee di partito, specialmente nella nuova maggioranza parlamentare. La coalizione di governo del 14 marzo adesso include cinque figli di politici deceduti, una sorella, una moglie, un fratello e una figlia 26enne, Nayla Tueni. Tueni, che non ha mai avuto altra occupazione se non quella di lavorare nel giornale del padre, an-Nahar, è contraria a una quota minima per le donne in Parlamento. In più, quando le è stato chiesto cosa avrebbe fatto con il circa 28,5 della popolazione libanese che vive al di sotto della soglia di povertà, nella sua risposta – definibile nel migliore dei casi superficiale – ha detto che avrebbe concentrato i suoi “sforzi” sul suo distretto elettorale – uno dei distretti più ricchi dell’intero Paese.

Chi va incolpato per questa situazione? Essenzialmente è la gente che continua a rafforzare il sistema eleggendo gli stessi rappresentanti o la loro progenie anno dopo anno. Eppure, è il popolo del Libano che soffre maggiormente per la mancanza di servizi minimi o di uno stato funzionante, non i "leader" che loro continuano a eleggere. La riluttanza della maggioranza della popolazione libanese ad ammettere con loro stessi che la questione centrale che ostacola il progresso nelle loro vite non è quale signore tribale governi su di loro per i prossimi quattro anni, ma una mancanza di volontà di tenere Dio, e la verità assoluta che egli incarna, fuori dal governo. Questo è ciò che sta tenendo loro e il loro Paese sull’orlo della catastrofe, e sicuramente questo nuovo governo non sarà diverso dagli altri.

(Traduzione di Carlo M. Miele per Osservatorio Iraq)

Electronic Lebanon, 7 luglio 2009
* giornalista freelance e commentatore politico, vive a Beirut, si occupa di numerose questioni economiche e politiche relative al Medio Oriente e in particolare del conflitto israelo-palestinese