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Petrolio low cost: una via alternativa

di Cynthia Tucker - 22/03/2006

Fonte: Nuovi Mondi Media


"Se agli americani non piace lo scenario del loro paese illustrato dal film ‘Syriana’, ne possono uscire semplicemente: cambiandolo. È ora di invertire la tendenza: stop all’esercizio di un potere grezzo per garantirsi petrolio a buon mercato"

I conservatori Usa hanno criticato il thriller ‘Syriana’, un film sulle politiche machiavelliche adottate per il petrolio in Medio Oriente.

Il “sapientone” Charles Krauthammer, ad esempio, ha affermato che in ‘Syriana’ si trovano “le più viziose e pericolose menzogne sull’America rivolte a un mondo oggi particolarmente sensibile e ricettivo”.

Il film, per il quale George Clooney ha vinto un Oscar come miglior attore non protagonista, è una versione hollywoodiana dello scenario politico internazionale. E costituisce un puntuale riepilogo della recente storia statunitense: le amministrazioni Usa che si sono recentemente succedute – sia democratiche che repubblicane – hanno fatto tutto quello che era necessario per garantirsi una fornitura continua di petrolio a basso costo. Si tratta dell'arrogante ragione per cui George Bush ha invaso l’Iraq.

Sebbene molti presidenti statunitensi si siano mostrati abbastanza accorti da evitare di ricorrere a guerre illegali, secondo Andrew J. Bacevich – professore dell’Università di Boston e autore di ‘The New American Militarism: How Americans Are Seduced by War’ – la politica Usa di usare la forza per assicurarsi forniture energetiche a costi accessibili dura da decenni.

“La preferenza era quella che corrispondeva a un basso profilo, alle tattiche celate… Washington sceglieva azioni velate piuttosto che l’uso della forza diretto”, ha scritto Bacevich – diplomato all’accademia militare Usa di West Point – in un capitolo intitolato ‘Blood for Oil’.

Nel marzo del 2003, il Presidente Bush ha radicalmente invertito questa tendenza, spedendo la forza militare più imponente del pianeta a spodestare Saddam Hussein.

Dopo che il Presidente Usa ha sbandato, in merito alla guerra, contro la sua serie di giustificazioni, nessuna delle quali – i rapporti con al-Qaeda, le armi di distruzione di massa, i relativi programmi di armi di distruzioni di massa, la democrazia, ecc. – sorretta da valide prove, come noto, è tempo di chiedersi che cosa realmente l’amministrazione Bush sperava di ottenere dall’avventura irachena.

Gli stessi sostenitori della dottrina Bush tempestivamente hanno suggerito come il motivo di una tale folle invasione fosse la conquista dei siti petroliferi iracheni. Hanno ragione. Di più, la Casa Bianca ha voluto garantire la presenza di una piattaforma militare nell’area con l’obiettivo di rimpiazzare le basi Usa nell’Arabia Saudita; la Casa Reale saudita, infatti, teme sempre più la minaccia islamista, insofferente per la presenza americana sul proprio territorio.

Ma allora perché non facciamo dell’Iraq un vero e proprio negozio, che ci consenta di avere accesso all’intera regione del Golfo Persico?

Mentre il generale John P. Abizad, comandante delle forze Usa in Medioriente, dichiara che gli Stati Uniti non hanno piani per basi permanenti in Iraq, il Pentagono spende un miliardo di dollari in attività di ricostruzione delle stesse sia in Iraq che in Afghanistan, e vuole impiegare presto per questi fini altrettanti fondi.

I funzionari dell’amministrazione Bush non hanno escluso la possibilità di erigere basi militari Usa permanenti sul territorio iracheno, sebbene ciò non farebbe altro che fomentare ulteriormente l’odio dei ribelli – almeno però chiarirebbe le nostre [degli americani, NdT] intenzioni. In realtà, gli Usa hanno sempre avuto in mente di rimanere in Iraq.

Naturalmente, il petrolio non è l’unico aspetto. Diverse sono le motivazioni in agenda che che hanno condotto il vagone di guerra in Iraq: Donald H. Rumsfeld voleva mettere alla prova le sue teorie in merito ad attività militari più snelle e veloci; i neoconservatori come Paul Wolfowitz credevano ingenuamente che avrebbero potuto impiantare democrazie “jeffersoniane” sul duro suolo mesopotamico; Dick Cheney intendeva esercitare potere allo stato puro. Ma, fondamentalmente, l’Iraq è diventato il centro di gravità di tutti questi progetti perché, più di ogni altra cosa, ognuno dei personaggi di cui sopra aveva in mente lo stesso scopo: l’accesso alle risorse energetiche.

Non è ancora troppo tardi per placare la sete di petrolio degli Stati Uniti prima di precipitarsi in una guerra contro la Cina nei prossimi dieci o vent’anni, quando le riserve Usa saranno agli sgoccioli. La fase politica in cui si sarebbe potuto intervenire modificando le nostre abitudini di consumo è alle spalle: Bush avrebbe potuto ottenere un incremento delle imposte federali del gas – ad esempio di un dollaro a gallone [3,785 litri, NdT] – appena dopo l’11 settembre. Gli americani sarebbero stati pronti, allora, a fare sacrifici.

Ora sarebbe molto più difficile, ma magari non impossibile. I sondaggi mostrano che più della metà degli americani accetterebbero un incremento delle tariffe del gas se ciò significasse allentare la morsa della dipendenza energetica straniera del loro paese. Mentre i rialzi petroliferi si diffonderebbero nell’economia, noi [gli americani, NdT] ci potremmo adeguare – più trasporti pubblici, più condivisioni delle stesse auto, meno gite in auto a caso.

Se agli americani non piace lo scenario del loro paese illustrato dal film ‘Syriana’, ne possono uscire semplicemente: cambiandolo.

È ora di invertire la tendenza: stop all’esercizio di un potere grezzo per garantirsi petrolio a buon mercato.

 

 

*The Baltimore Sun)

Fonte: http://www.baltimoresun.com/news/opinion/oped/bal-op.tucker20mar20,0,985598.story
Tradotto da Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media