Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Una pagina al giorno: Perché Cristo muore in croce?, di Vittorio G. Rossi

Una pagina al giorno: Perché Cristo muore in croce?, di Vittorio G. Rossi

di Francesco Lamendola - 24/08/2009


La cultura italiana ha la memoria corta; lo sappiamo.
Hanno la memoria corta, sovente per invidia e meschina gelosia, la critica e il mondo degli intellettuali «affermati» (e progressisti, si capisce: i veri intellettuali sono tutti progressisti; o no?); e ha la memoria corta, per superficialità e conformismo, il pubblico, sempre smanioso di novità e sempre pronto ad applaudire qualche nuovo idolo, nell'ambito letterario così come in quello sportivo, musicale e dello spettacolo.
Tuttavia, vi è qualche cosa di più, e di peggio, nell'oblio in cui è stata relegata l'opera di Vittorio Giovanni Rossi; qualche cosa che oltrepassa l'ambito della semplice ingratitudine, e che sembra evocare altre ragioni e altri scenari; quasi una calcolata vendetta postuma.
Sarà perché Vittorio G. Rossi, i suoi libri, li vendeva a tiratura altissime, anche se non aveva frequentato i canonici studi letterari e non aveva mai avuto a che fare con l'ambiente accademico, tanto meno si era trovato nella necessità (si fa per dire) di leccare le scarpe ai soliti baroni del palazzo.
Sarà perché i signori critici non lo avevano mai veramente apprezzato, avevano sempre mantenuto, nei suoi confronti un atteggiamento sussiegoso e supercilioso: tanto è vero che, in tutta la sua lunga carriera di scrittore, una sola volta si erano scomodati a concedergli un importante ricinoscimento letterario: ed era stato il Premio Viareggio, per il romanzo «Oceano»; e questo quasi all'inizio di essa, nel lontano 1938.
Già, nel 1938: vale a dire, ai tempi del Fascio. E allora - tanto vale dirlo subito - una terza possibile ragione di questo oblio, che somiglia maledettamente a un complotto, potrebbe avere a che fare con quella firma di Vittorio G. Rossi, messa lì nero su bianco e più che mai politicamente scorretta (almeno dopo il ribaltone del 1943…) in calce al Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto nel 1925 da Giovanni Gentile.
Vuoi vedere che abbiamo messo il dito sulla piaga giusta? Lorsignori sono gente notoriamente rancorosa e vendicativa, gente che non dimenticata; hanno una memoria da elefante e, come disse qualcuno a proposito dei Borboni, non dimenticano nulla e non imparano mai nulla.
O forse sono state tutte queste cose insieme; difficile dirlo con certezza.
Sta di fatto che si è trattato di una presenza decisamente atipica, nel panorama delle patrie lettere: uno scrittore che non viene fuori dal mondo dei libri e dell'università, ma dal mare: un capitano di lungo corso, uscito dall'Accademia Navale di Livorno, che ha passato tutta la sua vita sul mare e in lontani continenti; un uomo che, quando non navigava (ed è sua la frase che si può amare una nave esattamente come si ama una donna, e sia pure con momenti di stanchezza e di rifiuto), faceva il manovale o qualche altro strano mestiere «en plen air».
Uno che - figuriamoci il dispetto dei nostri intellettuali, tutti topi da biblioteca: spalle strette e puzzetta sotto il naso - aveva la sfrontatezza di affermare che «bisogna scrivere con la propria pelle: cioè prima vivere, e poi scrivere». Certo che aveva tutte le carte in regola per attirarsi l'eterna inimicizia di quella consorteria di eunuchi autoreferenziali che non perdonano a un «outsider», a un cane sciolto, tutto quel successo scandaloso, tutti quei libri venduti, tutto quel pubblico che andava pazzo per lui.

E allora, andiamoci a rileggerci una pagina di questo scrittore ingiustamente dimenticato, con la fretta un po' indecente e con la cattiva coscienza con le quali si fa sparire dall'armadio il vestiti del morto che ci ha lasciato una grossa eredità, senza che noi abbiamo fatto proprio niente per meritarcela.
Abbiamo scelto a bella posta un brano che sfata la leggenda di uno scrittore puramente di avventure esotiche, un Conrad in sedicesimo o, peggio, un Pierrre Loti nostrano; e dal quale, invece, emerge la statura grande di una mente lucida e pensosa, di uno spirito libero, di una autentica dimensione religiosa, nel senso più ampio - e, se si vuole, più «laico» (visto che oggi l'espressione va di moda) - della parola.
Dal libro di Vittorio Giovanni Rossi  «Maestrale» (Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1976, pp. 22-25; 37-39):

«Perché Cristo muore in croce?
Questa è una cosa che io non mi sono mai domandato; cioè me la sono domandata, ma non ho aspettato la risposta.
Nella vita si possono fare molte domande; nella vita si vive facendo domande; ma le risposte credibili che si possono avere sono molto poche.
Forse non c'è nessuna domanda a cui non si possa rispondere con un'altra domanda; e allora è inutile continuare.
Le risposte della politica sono risposte di questo genere; per questo la gente cerca sempre qualcosa che non siano risposte di questo genere; ma finora non è ancora successo di avere quello che si cerca.
Tutte le rivoluzioni fate finora, sono risposte che non hanno risposto.
Forse è che l'uomo è fato così; ma l'uomo prova sempre, perché l'uomo crede; e crede che l'uomo non è fatto così.
La Grande Pignatta o testa dell'uomo ha sempre trovato risposte bellissime a tutte le domande che le hanno fate; ma le risposte  della Grande Pignatta sono tutte risposte che sono credibili se uno ci crede; e se non ci crede, allora no, non sono credibili.
E non basta neanche dare una risposta come quella che dà la scienza; cioè dopo avere fatto le osservazioni, gli esperimenti, prese le misure, fati i calcoli; la scienza non crede mai ai suoi risultati, cioè alle sue risposte; le stesse domande deve ripetersele continuamente, e ogni volta farle più stringenti, più rigorose.
Il politico che apre la bocca e canta, non ha niente da fare con niente, è un politico, cioè appartiene a un'altra luna della terra.
Ma ci sono risposte che non sono né vere né false, perché non si possono verificare nei modi della scienza, cioè con la sola cosa seria che sia a disposizione dell'uomo, per sapere le poche cose che si possono sapere; se no, se piace crederle, è meglio crederle come favole; e quelli che credono alle favole, non sono degli imbecilli, sono dei poeti.
Le risposte della poesia nessuno le può buttare giù; le può buttare giù solo se non è poesia ma trucco con la faccia dipinta di poesia; ma allora si chiamano le pagliacciate.
E la poesia, lei sola, fa gli eroi e i martiri; cioè uomini che sono come quelle musiche che fanno piangere, e nessuno può spiegare perché non si può spiegare niente.
E Cristo è uno d quelli che meno si spiega, e meglio è; perché non c'è niente da spiegare come si spiega il principio di Archimede, cioè mettersi in una vasca da bagno, e poi uscire nudo e correre gridando: "éureka, éureka, ho trovato", come fece lui quando scoprì il principio di Archimede; e tutti lo possono scoprire da sé, e tutti i giorni.
Cristo si spiega solo credendoci.
Nessuna religione è argomenti o esperimenti; è poesia, e se non è poesia, non è una religione, è propaganda, cioè il gallo che canta prima che faccia l'alba, ed è un gallo meccanico.
E quelli che vogliono togliere a una religione la poesia, perché dicono che la poesia è vecchiaia, e loro sono giovani, e amano le cose giovani; quelli non tolgono ala religione la vecchiaia, le tolgono tutto.
Una religione è una religione perché essa è fuori degli anni e fuori delle prove; invece ancora adesso si continua a verificare le equazioni di Newton e quelle di Maxwell, perché non si sa mai; una scienza non smette mai di verificare se stessa, se no, non è scienza.
Ma una religione è senza verifiche; quando uno entra in una chiesa, e crede che quella è una chiesa e non un osservatorio astronomico, non pensa agli insegnamenti dell'astronomia; in una chiesa non troverebbe nessuna risposta; pensa che lui è un uomo, un piccolo uomo, e lui non sa niente, e spera che ci sia tutto quello che lui spera che ci sia; e nessuno coi calcoli e gli strumenti di un osservatorio può sapere se c'è.
Gli argomenti della Grande Pignatta umana applicati alla religione, possono provocare una scossa come quella di vedere scalare una grande montagna; ma la montagna resta dove è, e quello che è.
I grandi cervelli cattolici continuano anche adesso a domandarsi perché Gesù è morto in croce. Si vede che non sono soddisfatti delle risposte finora date dai grandi cervelli.
Ma la risposta c'è, è nelle preghiere della Chiesa, quando dicono: "Agnus Dei qui tollis peccata mundi", Agnello di Dio perché prendi su di te i peccati del mondo; e non solo i peccati già fati, ma anche quelli ancora da fare; e fin che ci sarà l'uomo sulla terra, c saranno i peccati dell'uomo sulla terra.
L'uomo non lo ha lavato l'acqua; lo ha lavato il sangue; ma poi il giorno dopo l'uomo non se ne ricorda più.
Non si può domandare a Cristo perché si è preso lui i peccati degli uomini; quella sarebbe la sola risposta credibile; ma per parlare con Cristo, bisogna essere San Francesco, Santa Teresa d'Avila o il gran ladrone che era sulla croce acanto alla sua quel Venerdì.
Tutte le risposte dei grandi cervelli sono prodotti dell'orto, ognuno presenta la cesta con le sue verdure; e dice, mangiate, questa è quella buona, e si vede. E s vede lui coi suoi amici, che prendono dalla cesta, e avidamente mangiano.
Così c'è chi dice, che Cristo è morto in croce per risarcire Dio; cioè si è fatto uomo per riparare lui tutte le offese che gli uomini gli hanno fatto e gli fanno e gli faranno; e c'è chi dice che no, Dio non può essere un creditore come quello della tragedia di Shakespeare; Cristo si è fatto uomo per offrire a Dio, cioè a se sesso, il pentimento di tutti i peccatori, e così salvare l'uomo dalle conseguenze dei suoi peccati.
Non so se queste cose io le dico come vanno dette; sono cose difficili da maneggiare anche per chi le sa maneggiare; e io non sono neanche un dilettante; ma quando nella messa cantata si sentiva cantare: "Agnus Dei qui tollis…", allora si capiva benissimo che cosa vuol dire, anche se non si capiva affatto. […]
L'uomo è annegato per cause varie in mari e oceano; è bruciato in tutti i modi di bruciare; è caduto come un sasso con le sue fragili ossa da tutte le altezze;  è stato avvelenato dai gas degli accumulatori elettrici nei sommergibili naufragati; però l'uomo ha sempre avuto  e ha ancora adesso due cose che lo distinguono da tutte le altre creature della terra e del mare e dell'aria.
Quelle due cose sono la religione e l'amore, e si può mettere prima l'una o l'altra, dipende dai propri gusti personali.
La quantità di animale che è nell'uomo, nessuno la può calcolare; essa è grandissima; e continuamente essa aumenta o diminuisce, anche da un'ora all'altra, da un minuto all'altro; è un vincere e perdere continuo, senza soste; e il combattimento l'uomo se lo sente dentro, serpeggiare come un liquido pesante e oscuro; e lui non può farci niente per interromperlo o fermarlo.
Solo pochi possono condurre al guinzaglio la loro bestia oscura; ma è sempre una bestia al guinzaglio. I santi sono uomini  come gli altri, ma con qualcosa di più, e quel di più gli deve costare sforzi immensi.
Essere animale è facile; essere uomo è difficile; e quando un soffio di animalità sorge dal mistero e si abbatte su un santo, lui deve soffrire sofferenze terribili, come essere nel fuoco dell'inferno o in un pasticcio del genere; e se noi in casi simili ci laviamo la faccia, lui si deve raschiare le ossa.
Adesso dicono che la religione è un prodotto dell'ignoranza; ma anche l'"Iliade" e l'"Odissea" sono un prodotto dell'ignoranza; in esse ci sono personaggi come Giove, Giunone, Venere, Minerva e gli altri; e adesso a sentirli nominare la gente illuminata sorride.
Ma i nostri bravi occhi d'uomo neanche adesso sono capaci di vedere quello che non si vede. E anche la dinamo è un prodotto dell'ignoranza; però se si abolisce la dinamo si torna al lume a olio e ala candela; e festeggeremo il cambiamento pensando che quei due modesti arnesi hanno illuminato i pensieri dei più grandi  cervelli della razza umana. Se la religione è stata una illusione, lo scopriremo da morti, se allora saremo in rado di scoprire qualcosa; ma se mai è stata un'illusione che ci ha portati un po' più lontani dalla bestia nostra  inquilina non sfrattabile. E questo è stato un vantaggio, anche se non è servito a portarci in paradiso, se il paradiso non c'è; ma è servito a sognare che c'è.
Per via della religione, uno può litigare con se stesso o con Dio, oppure col diavolo.
Tutti questi modi di litigare fanno bene ala salute; è una specie di sport spirituale che allontana l'uomo dall'animale, anche quello di litigare col diavolo.
Adesso il diavolo lo hanno messo in quarantena e anche i preti ci ridono sopra,  lo considerano una specie di spaventapasseri; i giovani lo disprezzano, è troppo vecchio, dicono, essi disprezzano tutto quello che  è vecchio.
Ma forse anche il diavolo si è stancato del mestiere. Non ci deve essere più sugo, a fare il diavolo., con gli ometti di adesso, che sembrano sputati da una gallina.
"Dove sono i grandi peccatori di una volta, pieni di forza, pieni di coraggio, pieni di fuoco incendiario  per incendiare i cieli?", deve dirsi il diavolo. Adesso per lui deve essere come mangiare semi di zucca.»
La perdita del diavolo è stata una grande perdita per l'uomo; lui aveva dato all'uomo il giusto di perdersi, ma c'era sempre il pentimento dell'ultima ora; e l'uomo aveva preso anche lui il gusto di contrastarlo, di battersi con la bestia oscura dentro di lui; e per l'uomo è più vantaggioso battersi che vincere, perché dopo la vittoria c'è sempre la sconfitta.
Ma che cosa c'è da mettere nel posto della religione e dell'amore, e serva a fare separazione dell'uomo dalla sua bestia oscura?
I giovani di adesso dicono che il surrogato c'è, ed è la politica. Per essi quello è un modo nuovo per crescere più presto, per mettersi un cuscino sotto il sedere, poi dire: "guardate come sono cresciuto".
La politica è una cosa molto vecchia; vecchia come l'uomo, più vecchia della religione.
L'ha adoperata il serpente con Eva, prima che lei e quello gnocco di suo marito avessero quel rapporto diretto con Dio. È l'arte di convincere con l'inganno.
Forse la ripugnanza per la politica che hanno quelli con le mani pulite  o aspiranti alla pulizia viene da quella smisurata lontananza  del primo contatto dell'uomo con la pelle e l'arte  del serpente, quando l'uomo per via della parola  perse il paradiso e cominciò a piangere.
La politica mette la parola nel posto dell'utensile; cioè sentire fischiare un merlo, e dire che è il treno.»

Leggendo questo brano, questa prosa così asciutta e nervosa, così essenziale e scattante, tanto che è stata paragonata ad un muro a secco, forse al lettore che ci abbia sin qui seguito saranno venute in mente le nostre considerazioni su quella corrente della teologia moderna che, con la scusa di espungere il mito dalla tradizione cristiana, vorrebbe eliminare da essa, di fatto, il soprannaturale (cfr. F. Lamendola, «Rudolf Bultmann, la religione e l'immagine mitica del mondo», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
O forse gli sarà venuta in mente una quarta ragione che potrebbe spiegare l'oblio in cui è caduta l'opera di Vittorio G. Rossi (oblio confermato dal fatto che quasi nessuno dei suoi libri è stato di recente ristampato): il suo scetticismo nei confronti di ogni razionalismo e di ogni positivismo; la sua cautela nei confronti della scienza; non, si badi, la sua avversione alla scienza, ché, anzi, egli è stato uno dei primi scrittori italiani contemporanei a portare il pensiero scientifico nella letteratura: ma la sua diffidenza verso l'arroganza dello scientismo, la sua lucidità nel coglierne tutta l'insufficienza intellettuale ed umana.
Oggi la divulgazione scientifica è in mano a persona come Piero e Alberto Angela e come Enrico Bellone; persone per le quali ogni forma di conoscenza non scientifica è ignoranza - anche se non hanno il fegato di dirlo chiaro e tondo.
Non c'è più posto, forse, nelle patrie lettere, per uno scrittore come Vittorio G. Rossi.
O meglio, sarebbe più esatto dire che, uno come lui, non ce lo meritiamo più.

Crediamo di fare cose utile al lettore segnalando i libri di Vittorio G. Rossi, ormai non facilmente reperibili, pur essendo passati pochi ani da quando venivano stampati a decine di migliaia di copie, e tradotti in tutto il mondo.

«Le streghe di mare» Milano, Alpes, 1930.
«Tassoni», Milano, Alpes, 1931.
«Tropici», Milano, Bompiani, 1934.
«Via degli Spagnoli», Milano, Bompiani, 1936.
«Oceano», Milano, Bompiani, 1938.
«Sabbia», Milano, Bompiani, 1940.»
«La pelle dei marinai», Milano, Bompiani, 1941.
«Cobra», Milano, Bompiani, 1941.
«Pelle d'uomo», Milano, Bompiani, 1943.
«Alga», Milano, Bompiani, 1945.
«Preludio alla notte», Milano, Bompiani, 1948.
«Soviet», Milano, Garzanti, 1952.
«Fauna», Milano, Bompiani, 1953.
«Il granchio gioca col mare», Milano, Mondadori, 1957.
«Cristina e lo Spirito Santo», Milano, Mondadori, 1958.
«Festa delle lanterne», Milano, Mondadori, 1960.
«La Terra è un'arancia dolce», Milano, Mondadori, 1961.
«Nudi o vestiti», Milano, Mondadori, 1963.
«Miserere coi fichi», Milano, Mondadori, 1963.
«Il silenzio di Cassiopea», Milano, Mondadori, 1965.
«Però il mare è ancora quello», Milano, Mondadori, 1966.
«Teschio e tibia», Milano, Mondadori, 1968.
«L'orso sogna le pere», Milano, Mondadori, 1971.
«Calme di luglio», Milano, Mondadori, 1973.
«Il cane abbaia alla luna», Milano, Mondadori, 1975.
«Maestrale», Milano, Mondadori, 1976.
«Terra e acqua», Milano, Mursia, 1988.

Concludiamo riportando la breve «voce» a lui dedicata nella «Enciclopedia Biografica Universale» della Biblioteca Treccani (2007, vol. 16, p.p. 624-25):

«ROSSI, VITTORIO G. Scrittore (Santa Margherita Ligure 1898 - Roma 1978). A lungo inviato speciale all'estero per vari giornali [specialmente "La Domenica del Corriere" ed "Epoca", nota nostra], ne trasse spunto per numerosi racconti e romanzi ("Tropici", 1934; "Oceano", 1938; "Alga", 1945; "Il granchio gioca col mare", 1957; "Maestrale", 1976) in cui notazioni impressionistiche e particolari documentari si risolvono in una sorta di favolosa rapsodia del primordiale. Scrisse anche biografie di A. Tassoni (1931) e di Cristina di Svezia (1958).»