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La Siria, ago della bilancia nel vicino oriente, tra dialogo e conflitto

di Dagoberto Husayn Bellucci - 27/08/2009



La Repubblica Araba Siriana rappresenta nel panorama geopolitico e strategico
del Vicino Oriente il principale fattore di stabilità nella continuità che da
sempre caratterizzano Damasco quale autentica cerniera e ponte di dialogo tra
Occidente e mondo arabo-islamico. La Siria di Bashar el Assad si muove di fatto
sulla scena politica regionale da una posizione di forza sia rispetto
all'immediato passato che guardando al futuro: ne sono chiari segnali le
continue "avanche's" provenienti dall'amministrazione statunitense obamita -
tesa, fin dal gennaio scorso all'atto del suo insediamento ai vertici della
politica americana, a spezzare il fil rouge che unisce il caposaldo del fronte
antisionista arabo - Damasco appunto -  alla Repubblica Islamica dell'Iran - e
le reiterate minacce che a queste "aperture" di facciata si accompagnano
unitamente ai chiari segnali di "nervosismo" provenienti dalla vicina entità
criminale sionista alias "stato d'Israele".

Pochi giorni or sono l'ennesimo 'monito' statunitense è risuonato nei
confronti dei dirigenti siriani. Un alto funzionario di Washington ha
consegnato al quotidiano libanese "An Nahar" - notoriamente grancassa del
fronte filo-occidentale dei partiti del cosiddetto "14 Marzo" (strumenti
funzionali in terra dei cedri alle logiche del divide et impera in salsa
yankee) - un chiaro messaggio rivolto a Damasco nel quale veniva sottolineata
l'urgenza per gli Stati Uniti di pervenire alla riapertura e alla
normalizzazione delle relazioni, congelate da qualche anno (esattamente dopo il
'varo' della risoluzione 1559 dell'autunno 2004 che aprirà la stagione della
strategia della tensione nel Libano costringendo infine il governo siriano al
ritiro unilaterale del proprio contingente militare presente da quasi
trent'anni a difesa dei trattati di amicizia e cooperazione sanciti fra i due
Stati confinanti a salvaguardia dell'integrità nazionale e della sovranità
libanese costantemente minacciata dai sionisti), che rappresenterebbero per la
Casa Bianca il primo passo verso un possibile rilancio di quel "processo di
pace" regionale che Barak Obama dovrebbe annunciare come imminente.

E' sintomatico che mentre l'amministrazione americana spera di condurre in
porto nuove trattative tra palestinesi ed israeliani (per le quali sarebbero
già stati consultati tanto il presidente dell'ANP , Abu Mazen, quanto il suo
"omologo" sionista, Benjamin Nethanyahu) le voci su possibili eventi bellici
nella regione si intensifichino. E non potrebbe essere altrimenti se si
considera che la pregiudiziale anti-sciita, particolarmente anti-iraniana,
rappresenterebbe una delle "voci in agenda" per la riapertura del dialogo tra
le due parti parzialmente congelato dopo la vile aggressione sionista alla
striscia di Gaza dello scorso gennaio.

L'obiettivo di Washington e la strategia di destabilizzazione americana è
evidente: isolare Teheran, rinsaldare il fronte cosiddetto "moderato" del mondo
arabo, coinvolgere nuovamente Arabia Saudita ed Egitto quali supervisori del
dialogo e riportare al tavolo delle trattative l'Autorità Nazionale Palestinese
che controlla la Cisgiordania e i rappresentanti del governo di occupazione
sionista di modo da tagliare definitivamente fuori Hamas e gli altri movimenti
della Resistenza nazionale palestinese. In questa strategia di contenimento e
isolamento della politica iraniana - la quale ha fatto sentire tutto il suo
peso diplomatico anche in occasione delle recenti elezioni libanesi di due mesi
e mezzo or sono - risulta assolutamente rilevante per Obama e il suo
establishment l'avallo e possibilmente un accordo preliminare con Damasco.

Nel frattempo però l'amministrazione Obama ha, non più tardi di un mese fa,
deciso il prolungamento di un anno delle sanzioni economico-diplomatiche contro
Damasco confermato che la decisione presa dal suo predecessore, George W. Bush,
il 1.o agosto 2007 fosse idonea.
Bush, si ricorderà, accusò la Siria di "contribuire all'instabilità politica
ed economica in Libano" e di costituire "una minaccia eccezionale alla
sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti". Vaneggiamenti di
un'amministrazione, quella repubblicana a guida neocons, che dopo il fallimento
delle guerre asimmetriche e la politica di esportazione manu militari della
democrazia (2001 aggressione e occupazione dell'Afghanistan, 2003 aggressione e
occupazione dell'Irak, 2006 aggressione israeliana al Libano) ricorse all'arma
del ricatto sanzionatorio e delle pressioni per mantenere alto il livello di
conflittualità e le proprie strategie destabilizzanti l'intera regione.

Obama, nel discorso con cui ha deciso il prolungamento delle sanzioni alla
Siria, ha parlato di "alcuni sviluppi positivi avvenuti nell'anno trascorso" ma
ha sostenuto e motivato la decisione presa sottolineando il persistere di
"azioni di certe personalità" che ostacolerebbero il normale svolgimento della
vita politica democratica libanese.
 
La richiesta di rimozione delle sanzioni, discussa qualche giorno prima del
loro prolungamento tra il Presidente Bashar el Assad e George Mitchell inviato
dell'amministrazione nel Vicino Oriente, da parte siriana cadde così
inutilmente nel vuoto.

Il problema per Washington è che in Libano e dintorni "non si muove foglia
che Damasco non voglia".

Nel Vicino Oriente tutti sanno che non è possibile giungere ad alcuna
soluzione delle differenti crisi politiche e belliche regionali senza il
coinvolgimento diretto della Siria che, più che mai, rappresenta il principale
referente di qualsivoglia processo di pacificazione e normalizzazione
nell'intera area.

Il ruolo siriano è rilevante per ciò che concerne la situazione palestinese,
per i destini del vicino Libano, per l'annosa questione dei curdi al confine
con la Turchia (ricordiamo come minoranze curde vivono nelle zone frontaliere
settentrionali della Repubblica Araba di Siria) e dulcis in fondo per mediare
sia nel contenzioso pesantissimo del vicino e confinante Irak e eventualmente
per avviare o meno una nuova fase nei rapporti che l'Occidente vorrà tessere
con Teheran.

Questa realtà fattuale è nota e conosciuta particolarmente bene negli
ambienti diplomatici e politici statunitensi: fin dagli anni Settanta l'allora
Segretario di Stato USA, Henry Kissinger, sottolineò con un enfatico
riconoscimento il ruolo e la funzione centrale del Presidente Hafez el Assad
definendolo "il Bismark del Medio Oriente".

Il figlio Bashar, arrivato al potere dopo la scomparsa del "Leone di Damasco"
nove anni or sono, si continua a muovere più che efficaciemente nella stessa
linea del padre: coerentemente Damasco mantiene basi delle organizzazioni di
resistenza palestinesi sul proprio territorio e sostiene le lotte di
liberazione nazionali sia di Hizb'Allah in Libano che di Hamas in Palestina
mentre ripetutamente i dirigenti siriani hanno invitato tutte le parti in causa
a riprendere la via negoziale ponendo, sine qua non, l'obbligo per il regime
d'occupazione sionista di restituire le alture del Golan occupate da oramai
quarant'anni e annesse da quasi un trentennio.

In questa situazione non destano alcuna meraviglia le parole con le quali
Washington ha 'avvisato' Damasco. Nel messaggio consegnato al quotidiano di
Beirut "An Nahar" e consultabile sul sito in lingua inglese "Naharnet" un
funzionario del Dipartimento di Stato ha dichiarato: "Spero che i siriani siano
consapevoli che esistono limiti al miglioramento delle relazioni con gli Stati
Uniti. Se esistono segnali di un intervento politico siriano in Libano e del
ritorno a precedenti pratiche militari precedenti al ritiro militare (siriano),
lo scambio di ambasciatori (tra Siria e Stati Uniti) non avverrà."

Una dichiarazione che peraltro non trova alcun riscontro fattuale
considerando che da qualche tempo Siria e Libano hanno cominciato a
normalizzare le loro relazioni con la storica apertura di reciproche missioni
diplomatiche, un evento storico per i due paesi e senza precedenti.
In realtà l'amministrazione americana lancia oscuri moniti verso Damasco per
quanto sta accadendo all'interno del paese dei cedri: a Washington appare
evidente che non siano affatto soddisfatti di come l'attuale maggioranza,
guidata dal partito "Corrente Futura" del premier incaricato Sa'ad Hariri, stia
gestendo il dopo-elezioni dello scorso 7 giugno.

Dopo la vittoria elettorale che ha sancito la sconfitta di Hizb'Allah e dei
suoi alleati filo-siriani il premier in pectore non è stato capace, a distanza
di sessanta giorni dall'incarico ricevuto, di formare un esecutivo che includa
anche l'opposizione nazionalpatriottica e i partiti legati a Damasco
(Hizb'Allah in testa e Corrente Patriottica Libera-Tayyar del Gen. Michel Aoun
al fianco).

In questa situazione d'impasse che da due mesi ha praticamente caratterizzato
la politica libanese - nella quale si sono anche levati i 'sussulti' del druso
Waleed Jumblatt che ha minacciato di fuoriuscire dal fronte filo-occidentale
dei partiti del 14 Marzo - Washington deve cercare di recuperare terreno e
credibilità e, per farlo, non può fare a meno di accusare la Siria. "I siriani
si sbagliamo - ha proseguito l'alto funzionario americano intervistato da "An
Nahar" - se credono che le loro relazioni con noi non saranno influenzate da
ciò che stanno facendo in Libano. Il presidente Obama vuole migliorare le
relazioni con Damasco ma sarà impossibile se la Siria ed i suoi alleati
libanesi continueranno a danneggiare le istituzioni democratiche.".

"Il che non significa - ha concluso il 'messaggero' obamita - che gli USA
siano essi stessi interessati al processo di formazione di un esecutivo
nazionale in quanto problema interno libanese" ovvero, fuor di metafora, è
arrivato da Washington (la voce del padrone) il disco verde alla maggioranza
filo-occidentale per abbandonare l'idea di un esecutivo di coalizione e
governare con i soli voti a disposizione in parlamento.

Invito in tal senso è arrivato nella giornata di martedi dal capo della
Chiesa maronita, cardinale Nasrallah Sfeir. Il patriarca maronita ha inviato un
chiaro segnale al leader filo-occidentale Sa'ad Hariri invitandolo ad
abbandonare il progetto di formazione di un governo di unità nazionale per
scegliere la soluzione più "conforme" di presiedere un esecutivo sostenuto dai
soli voti parlamentari del 14 Marzo.

Infine ad aggravare e rendere ancor più tesa la situazione generale nell'area
giunge la notizia della nuova crisi diplomatica tra Siria ed Irak che hanno
ritirato i rispettivi ambasciatori nella giornata di ieri dopo che, dalla
capitale irakena, è arrivata la pesante accusa a Damasco di dare ospitalità ai
terroristi implicati negli attentati dello scorso 19 agosto ai ministeri degli
Esteri e a quello delle Finanze a Baghdad. Gli attentati, a pochi ore dal voto
afghano, furono tra i più violenti degli ultimi due anni e causarono in tutto
95 vittime e oltre cinquecento feriti.

Dietro a questa nuova serie di attentati si intravide - o così riportarono i
principali quotidiani arabi e internazionali e le agenzie di stampa mondiali - 
la mano di Al Qaeda che avrebbe inviato un chiaro monito all'Occidente e
particolarmente al popolo afghano per invitarlo al boicottaggio elettorale.  In
realtà qualche giorno più tardi l'inchiesta condotta dalle autorità di polizia
irachene avrebbe confermato che dietro all'attentato terroristico si
nasconderebbero miliziani collegati al vecchio partito Ba'ath e alla passata
amministrazione saddamista.

Tra minacce al-qaediste, pressioni americane e accuse sioniste l'esecutivo
siriano deve adesso sbrogliare anche la matassa dell'affaire iracheno. Il
governo di Baghdad, guirdato dal premier Nuri al Maliki, ha formalmente
richiesto a Damasco di estradare due iracheni che si ritiene siano
"direttamente collegati" agli attentati: Mohammed Yunis al-Ahmed e Sattam
Farhan. I due, che vivrebbero in Siria, sarebbero esponenti di spicco dell'ex
partito Ba'ath. Il primo sarebbe stato riconosciuto come leader di una delle
fazioni nelle quali si è diviso il Ba'ath (attualmente fuorilegge in Irak)
mentre il secondo, anch'egli esponente ba'athista, sarebbe stato tirato in
ballo secondo la tv pubblica irakena, come il mandante delle bombe da un ex
poliziotto iracheno della provincia di Diyala che si dichiarava coinvolto
nell'attentato al Ministero delle Finanze eseguito - diceva - su ordini di
Farhan.
Ali al-Dabbagh, portavoce del governo iracheno, dando l’annuncio del rientro
in patria dell’ambasciatore di Baghdad ha chiesto alla Siria di consegnare pure
“tutte le persone ricercate per crimini di omicidio e distruzione commessi
contro il popolo iracheno” ed espellere “le organizzazioni terroristiche che
usano la Siria come quartier generale e rampa di lancio per pianificare
operazioni terroristiche contro il popolo iracheno”.
Le affermazioni di Baghdad e la decisione di richiamare l’ambasciatore hanno
suscitato la pronta reazione di Damasco che ha subito ritirato il suo inviato.
Tramite un comunicato il governo di Bashar el Assad respinge ogni accusa di
coinvolgimento nelle bombe del 19 e di protezione a terroristi implicati negli
attentati in Iraq.
"In reazione alla decisione di Baghdad di richiamare il proprio ambasciatore
a Damasco per consultazioni, la Siria ha deciso di ritirare il proprio
ambasciatore da Baghdad”. Con queste parole, affidate all’agenzia di stampa
ufficiale siriana – la "Sana" – si è consumata la rottura, per adesso
temporanea, fra Damasco e Baghdad.
La rottura tra i due Paesi arabi giunge a poco meno di tre anni dalla ripresa
dei rapporti diplomatici avvenuta nel 2006, dopo 20 anni di gelo determinato
anche dalla posizione siriana durante il conflitto che oppose negli anni
Ottanta Irak e Iran. Allora Damasco, fra le poche capitali arabe, si schierò al
fianco della Repubblica Islamica accusando Saddam Hussein ed il suo entourage
di aver lanciato l'aggressione contro Teheran per distogliere l'attenzione del
mondo arabo dal principale fronte di lotta che era e doveva rimanere quello
palestinese.
La replica siriana comunque contiene anche un invito al governo iracheno di
"esser pronta a ricevere una delegazione irachena con la quale discutere le
prove disponibili riguardo ai responsabili degli attentati" si legge in una
nota diffusa sempre dall'agenzia di Stato "Sana" che prosegue sostenendo che,
in caso contrario,  "considererà ciò che viene mandato in onda sui media
iracheni prove fabbricate per obiettivi politici interni".

Tra nuove minacce sioniste, pressioni statunitensi, accuse di intromissione
negli affari interni libanesi e di sostegno al terrorismo in Irak la Siria
resta al centro delle attenzioni degli apprendisti stregoni del Nuovo Ordine
Mondiale: le alchimie destabilizzanti dei signori del Mondialismo si rivolgono
una volta ancora contro l'asse Beirut-Damasco-Teheran nella convinzione che
esista ancora una opzione per costringere Hizb'Allah, Siria e Iran a
'patteggiare' o comunque scendere a compromessi di sorta.
La tensione sale nell'area geostrategicamente vitale del Vicino Oriente e
Damasco continua a rappresentare il centro d'intersezione di tutti gli
interessi regionali contrapposti tenendo in scacco finora qualsivoglia
tentativo di riaprire i giochi di guerra che, a Washington e a Tel Aviv e in
numerose capitali arabe alleate alla Plutocrazia Mondialista, si vorrebbero
scatenare per scaraventare l'intera zona in una nuova, devastante, forse
finanche apocalittica conglagrazione generale.

*DIRETTORE RESPONSABILE AGENZIA DI STAMPA "ISLAM ITALIA"
DA NABATHIYEH (LIBANO MERIDIONALE)