A proposito della strategia AF-PAK
di F. D'Attanasio - 28/08/2009
La lotta tra potenze imperversa più che mai dunque, ma per accorgersene bisogna scavare molto, oltre le solite apparenze che gli addetti al mondo dell'informazione tendono, al contrario, a presentarci come la "vera" realtà. Il falso mondo ovattato e pieno di buone intenzioni che promanerebbero soprattutto da chi decide delle sorti dell'umanità nei più svariati angoli del mondo, non regge affatto alla prova di certi fatti che ogni giorno trovano concretezza ed ai quali non viene dato affatto il peso che meriterebbero. Prendiamo spunto dalla guerra che si sta dispiegando in Afghanistan, guerra che vede fortemente impegnati gli Stati Uniti con il solito codazzo degli alleati-sudditi tra i quali l'Italia, e che rientra nella cosiddetta strategia Af-Pak, tesa a normalizzare la situazione socio-politica di questa zona dell'Asia centro-meridionale secondo i voleri della potenza a stelle e strisce. Le operazioni di carattere militare si svolgono però in un quadro molto più complesso, fatto di un intricato intreccio di strategie di più svariata natura: diplomatiche, politiche, di intelligence, nonché energetiche. Il fine ultimo, di lungo "respiro", è quello di contrastare nella maniera più efficace possibile ogni velleità delle nuove potenze nascenti volte a ritagliarsi un ruolo sempre più influente nel contesto complessivo internazionale. In realtà, se si tiene conto soprattutto del ruolo della Russia negli ultimi tempi, si tratta molto di più di semplici velleità, essa, grazie ad una dirigenza politica ben decisa e radicata nella propria società, frutto evidentemente di una notevole lungimiranza e senso dello Stato, sta stando non poche preoccupazioni agli USA stessi. Le operazioni di voto che si starebbero per concludere proprio in Afghanistan, costituiscono un fattore importante nell'evolversi della situazione generale. Secondo Bhadrakumar, noto diplomatico indiano (vedasi i suoi articoli tradotti da Manuela Vittorelli e riportati dalla rete di traduttori per la diversità linguistica: www.tlaxcala.es/entree.asp?lg=it) il candidato prediletto dagli Stati Uniti non è Hamid Karzai bensì il suo rivale Abdullah Abdullah. Ed un certo ruolo l'avrebbe avuto anche l'Iran soprattutto nel favorire proprio quell'alleanza politica tra Karzai e vecchi capi mujaheddin che il governo di Washington vede come fumo negli occhi; difatti il Dipartimento di Stato americano avrebbe dichiarato: " "Abbiamo spiegato chiaramente al governo dell'Afghanistan le nostre gravi preoccupazioni riguardo al ritorno di Dostum [uno dei capi mujaheddin costretto dai Talebani a rifugiarsi in Turchia svariati anni fa] e a un suo possibile futuro ruolo in Afghanistan". Il Presidente Barack Obama ha già chiesto ai suoi esperti di sicurezza nazionale ulteriori informazioni sui "trascorsi" di Dostum, compreso il suo sospetto coinvolgimento nella morte di vari taliban fatti prigionieri nella guerra del 2001 durante l'invasione degli Stati Uniti ". Quindi si potrebbe profilare in caso di vittoria di Karzai e della sua coalizione la necessità di creare una "situazione iraniana", difatti non a caso Ahmed Rashid [noto autore pakistano, legato al Pentagono], che conosce l'Afghanistan come le sue tasche, avrebbe dichiarato: " "Penso che dopo queste elezioni, indipendentemente dai risultati, ci saranno pesanti accuse e contro-accuse di brogli". Prevede poi che se si renderà necessario un ballottaggio "sarà un momento molto pericoloso per l'Afghanistan... Creerà un vuoto di due mesi, ci saranno caos e confusione politica" ". In realtà tutto ciò manderebbe letteralmente all'aria il piano di Stati Uniti, Gran Bretagna, Arabia Saudita e Pakistan volto a cooptare i Talebani nella struttura di potere che si ritiene, secondo appunto la strategia Af-Pak, debba governare l'Afghanistan nei prossimi anni.
Ma le operazioni militari si integrano con ben altre mosse ed iniziative di varia natura, tutte queste sono ben sintetizzate nel cosiddetto progetto di nation-building; la squadra che ad esso si dedicherà sarà composta da diplomatici ed esperti di antiterrorismo del Pentagono, della CIA e dell'FBI e comprenderà anche rappresentanti dell'USAID, l'Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, e noti accademici e membri di think tank, sarà aumentato il personale civile impiegato nell'ambasciata a Kabul che ad esempio salirà a 976 unità dalle 562 dello scorso anno, il tutto senza considerare naturalmente il fiume di denaro che continuerà ad arrivare, destinato a vari progetti di "sviluppo", ma che in realtà servirà a finanziare e sostenere le più disparate operazioni comprese la corruzione e i crimini più efferati. Tutti questi "civili" chiaramente fanno affidamento sul successo dei militari nell'eliminare i Talebani riottosi e tutti i militanti sia in Afghanistan che Pakistan.
Quello a cui dunque si è assistito (sempre secondo Bhadrakumar) è stata un' "afghanizzazione" di Karzai; " fu alla fine del 2007 che Karzai cominciò a reclamare il diritto di dire la sua sulla presenza militare americana e sulla scala delle operazioni dei contingenti stranieri. Parlò della necessità di uno Status of Force Agreement (accordo sullo status delle forze armate) sul modello di quello iracheno. Essenzialmente voleva che le forze d'occupazione si conformassero alle leggi afghane. Sollevò poi la questione alle Nazioni Unite: dopo tutto è su mandato ONU che operano le forze NATO in Afghanistan. Poi Karzai cominciò a chiedere che la comunità internazionale si impegnasse insieme al suo governo nelle varie attività di ricostruzione dell'Afghanistan, mentre gli Stati Uniti sono contrari a passare per il governo afghano e preferiscono dispensare i finanziamenti direttamente. Era una situazione da Comma 22. Gli Stati Uniti continuavano a dire che il governo di Karzai non aveva i mezzi per dispensare gli aiuti stranieri. Ma da qualche parte bisognava pur cominciare. Il fatto è che nel frattempo si sono sviluppati forti interessi acquisiti ". Karzai in definitiva rivendicherebbe un ruolo primario e non certo di rincalzo rispetto agli americani nel processo di pacificazione dell'Afghanistan, compresa la riconciliazione con i Talebani; ma gli americani non possono assolutamente prendere rischi su questo fronte dato che sono in gioco questioni geo-politiche decisive nella lotta per la supremazia mondiale. Ma un fatto molto importante è accaduto in questi ultimi giorni: un accordo militare di ampia portata tra gli Stati Uniti e l'Uzbekistan che muterebbe completamente la posizione geo-politica della ex repubblica sovietica, la quale non vedrebbe affatto di buon occhio il rinnovato protagonismo russo che potrebbe seriamente stroncare ogni sua aspirazione al ruolo di potenza regionale e preferirebbe quindi, a tal fine, entrare a far parte dell'orbita statunitense; difatti la Russia, fra le altre cose, sarebbe intenzionata a costruire una seconda base militare in Kirghizistan, oltre che ad appoggiare decisamente il Tagikistan in varie contese aperte proprio con l'Uzbekistan. Al patto formale che Mosca firmò nell'Ottobre del 1999 con diversi Stati centroasiatici per uno spiegamento rapido di truppe, simile all'attuale iniziativa russa nell'ambito dell'Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Collective Security Treaty Organization, CSTO) per la creazione di una forza di reazione rapida, l'Uzbekistan non aderì; nel frattempo il governo di Taškent ha portato avanti una decisa politica filo talebana fino al riconoscimento di questo regime nel 1999. In definitiva ci sarebbe una netta convergenza tra la strategia Af-Pak tesa a cooptare i Talebani e le aspirazioni geo-politiche regionali uzbeke, anch'esse facenti perno sulle forze talebane in chiave anti-russa (da considerare che esiste anche un cosiddetto fattore "tagiko", vale a dire una forte minoranza di tagiki in Afghanistan addirittura numericamente superiore a quelli propri del Tagikistan, in grado di alimentare un nazionalismo, sostenuto dalla Russia, fonte di forte preoccupazione per le autorità uzbeke). L'energica diplomazia regionale degli Stati Uniti in Asia Centrale è riuscita a strappare così il Turkmenistan e l'Uzbekistan all'influenza russa. "Washington ha negoziato con loro accordi per la creazione di corridoi di transito e ha cominciato a posizionare il proprio personale militare nella capitale turkmena, Ašgabat. (il vice capo di stato maggiore delle forze armate britanniche, Jeff Mason, si trova attualmente in visita ad Ašgabat.) Gli Stati Uniti stanno promuovendo rapporti cordiali tra turkmeni e uzbeki (Karimov [l'attuale presidente uzbeko] si sta preparando a visitare Ašgabat). Washington ha offerto opportunità economiche e imprenditoriali legate alla ricostruzione dell'Afghanistan. E infine, ma non meno importante, gli Stati Uniti stanno rafforzando i legami della NATO con questi paesi. È un successo notevole. Gli Stati Uniti possono ora lavorare a un corridoio di transito per l'Afghanistan dalla Georgia e dall'Azerbaigian via Turkmenistan e Uzbekistan aggirando il territorio russo. In un recente articolo per il New York Times, Andrew Kuchins del Centro Studi Strategici e Internazionali ha sottolineato che a Washington è alto il livello di scetticismo sulle intenzioni della Russia e su "quanto la Russia voglia realmente il successo degli Stati Uniti in Afghanistan" ". Ma un ruolo chiave, sempre secondo Bhadrakumar, potrebbe giocare l'Iran, un ruolo utile agli americani a riguardo della complessa questione afghana, tant'è che l'ambasciatore iraniano a Kabul, Maleki, avrebbe dichiarato che Teheran è pronta a dialogare con gli Stati Uniti sull'Afghanistan purché Washington si astenga dall'interferire negli affari interni iraniani; " l'Iran è in grado di rimescolare le carte. Ma per ballare bisogna essere in due. Oggi la grande questione sul tavolo afghano è se Obama riuscirà a eludere la lobby pro-israeliana nella sua amministrazione e nel Congresso americano e ad aprire la porta alle prospettive di dialogo con i superiori di Maleki a Teheran ".
Per concludere dunque sembrerebbe proprio che gli USA abbiano messo a segno un bel colpo in Asia centrale, ancor più se si considera un altro importante versante su cui si sta dispiegando la lotta geo-politica, cioè quello energetico con i due grossi progetti tra loro fortemente concorrenti, i gasdotti Nabucco e Southstream. Sappiamo che uno dei maggiori ostacoli che potrebbe addirittura impedire la realizzazione del primo (fortemente sponsorizzato dagli USA) risiede nella difficoltà di poterlo sufficientemente alimentare con la materia prima; quando e se sarà terminato, esso prevede il trasporto del gas del Caucaso e del Medio Oriente (partendo, da un lato, dal confine georgiano-turco, e, dall'altro, da quello iraniano-turco) attraverso la Turchia, la Bulgaria, la Romania e l'Ungheria, in Austria e, da lì, dovrebbe raggiungere tutti i mercati dell'Europa Centrale e Occidentale. Finora, l'unico fornitore individuato sarebbe l'Azerbaijan, il quale già rifornisce il gasdotto anglo-americano Baku-Tiblisi-Ceyhan, gestito dalla British Petroleum, che porta il gas dal Mar Caspio in Occidente eludendo del tutto la Russia. Ma la stessa Azerbaijan gioca anche sul tavolo del potente vicino, difatti ha recentemente siglato con esso un accordo per la fornitura di gas, e comunque anche se Washington dovesse riuscire ad assicurarsi tutto il gas delle riserve azere, ciò non sarebbe ancora sufficiente per le prospettive di serio competitore del Nabucco nei confronti del Southstream. L'Irak e l'Iran potrebbero rappresentare delle valide opportunità per la difficile realizzazione del progetto, ma le difficoltà politiche in questi casi si moltiplicano a dismisura, anche se questo fatto contribuisce ulteriormente a chiarire del perché gli USA abbiano ultimamente dedicato così tante "attenzioni" alla repubblica islamica. Quindi inevitabilmente nel grande gioco geo-strategico-energetico rientrano Uzbekistan e Turkmenistan.

