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È Cicerone l'anti-Machiavelli? Elogio di una politica dei valori e non dell'utile

di Francesco Lamendola - 31/08/2009


Nipotini spirituali del Segretario fiorentino, i politici moderni guardano con un sorrisetto di commiserazione all'idea di una «politica dei valori», abituati come sono a considerare l'utile come il metro di giudizio per eccellenza; ovvero, per dirla con Deng Xiao Ping, che di opportunismo se ne intendeva, fin da molto prima di arrivare al supremo potere in Cina: «Non ha importanza se il gatto è rosso oppure nero, basta che acchiappi i topi».
È noto che Machiavelli aveva eretto a valore paradigmatico la strage perpetrata a tradimento da Cesare Borgia in Senigallia, tanto da dedicarle una apposita operetta; e da essere tornato, in due luoghi de «Il principe», a tesserne l'elogio.

«Onde che il duca deliberò non dependere più dalle arme e fortuna d'altri [in particolar modo, dalla Francia]. E, la prima cosa, indebolì le parti Orsine e Colonnese in Roma; perché tutti li aderenti loro, che fussino gentili uomini, se li guadagnò facendoli sua gentili uomini e dando loro grandi provisioni; et onorolli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi; in modo che in pochi mesi nelli animi loro la affezione delle parti si spense, e tutta si volse nel duca. Dopo questa, aspettò la occasione di spegnere li Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna; la quale li venne bene, e lui l'usò meglio; perché, avvedutisi li Orsini, tardi, che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina, feciono una Dieta alla Magione, nel Perugino. Da quella nacque la rebellione di Urbino e li tumulti di Romagna et infiniti periculi del duca, li quali tutti superò con l'aiuto de' Franzesi. E, ritornatoli la reputazione, né si fidando di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare, si volse alli inganni; e seppe tanto dissimulare l'animo suo che li Orsini, mediante el signor Paulo, si riconciliarono seco; con il quale el duca non mancò d'ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandoli danari, veste e cavalli; tanto che la simplicità loro li condusse a Sinigallia nelle sue mani. Spenti adunque questi capi, e ridotti li partigiani loro amici sua, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna con il ducato di Urbino, parendoli, massime, aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi tutti quelli popoli, per avere cominciato a guastare el bene esser loro.» [dal cap. VII].

Dunque, per Machiavelli, essersi fidati delle profferte di amicizia e riconciliazione da parte di Cesare Borgia, è stata, da parte degli Orsini e degli altri signorotti che finiranno strangolati durante il banchetto di Senigallia, una manifestazione di «simplicità», ovvero di estrema ingenuità, per non dire di vera e propria dabbenaggine.
Quanto al Valentino, il fine giustifica i mezzi: l'aver ridato ordine e pace alla Romagna, ponendola saldamente sotto il proprio controllo, valeva bene la violazione dei sacri patti dell'ospitalità; un Principe non deve lasciarsi influenzare dalle considerazioni della morale comune, quando è in gioco l'utilità sua e dello Stato. Non che il male diventi bene; il male resta male: tuttavia, il Principe è talvolta «necessitato ad intrarvi», quando lo richiede la ragion di Stato.
Ma ecco che cosa aveva scritto Cicerone, nel «De Officiis», a proposito del rapporto fra l'utile e l'onesto circa le decisioni politiche dei governi (libro III; 49; traduzione di Anna Resta Barrile, Rizzoli, 1993, p. 353-55):

«Belli sono quei casi nei quali si pospone all'onesto un'apparente utilità pubblica. […]
Temistocle dopo la vittoria nella guerra contro i Persiani disse nell'assemblea che aveva da proporre un consiglio utile ala città , ma che non era opportuno palesare. Chiese che gli fosse concesso di confidarlo a qualcuno. Il popolo scelse Aristide. Temistocle gli disse che si poteva incendiare segretamente la flotta spartana, ancorata al Giteo, e che con questo atto la potenza di Sparta sarebbe stata distrutta.  Ciò udito, Aristide tornò nell'assemblea e in mezzo alla più grande aspettativa disse che la proposta di Temistocle era molto utile, ma non era onesta. E gli Ateniesi, ritenendo che ciò che non era onesto non fosse neppure utile, respinsero su proposta di Aristide ciò che non avevano neanche udito. Si comportarono essi molto meglio di noi, che diamo l'immunità ai pirati  e imponiamo tributi agli alleati.»

Ecco uno di quei superbi esempi di virtù della storia antica che ti sollevano di un metro da terra e ti fanno rimpiangere di non vivere ai tempi di quei magnanimi giganti, ma in quelli di questi nani che intendono la politica non solo come piccolo cabotaggio e come pura amministrazione dell'esistente, ma anche come occasione per ogni sorta di maneggi e di basse astuzie per avanzare nell'ambito dei propri interessi privati, e non certo in quello del bene comune.
Non si vuol certo dire, con questo, che gli antichi fossero tutti virtuosi e intemerati come Aristide, mentre i moderni sono tutti perfidi e spietati come Cesare Borgia; quello che fa la differenza, tra i due episodi che abbiamo riportati (fra i mille che avremmo potuto scegliere per attingervi qualche pillola di saggezza), non è il cinismo amorale del secondo o la specchiata onestà del primo, ma il ruolo svolto dal popolo ateniese, che possiede la nobiltà d'animo sufficiente a respingere un disegno utile per lo Stato, ma disonesto, SENZA NEMMENO AVERLO VOLUTO ASCOLTARE. Ciò la dice lunga sulla diffusione di una concezione della politica impregnata di valori etici, laddove il supposto merito del Segretario fiorentino è stato, appunto, quello di operare una drastica e definitiva separazione tra etica e politica.
Non si vuol dire, con questo - lo ripetiamo - che la politica degli antichi fosse abitualmente più morale di quella dei moderni; ma, semplicemente, che la loro idea della politica era fondata su una base etica; la quale, all'atto pratico, beninteso, poteva anche venire ignorata; così come il tipo ideale dell'uomo medievale era il santo (e, in seconda istanza, il guerriero), senza ovviamente che gli uomini medievali fossero tutti dei santi o degli aspiranti alla santità.
Spiccano, nella storia antica, innumerevoli episodi atroci e politicamente ingiusti.
La terza guerra punica fu voluta e condotta da Roma con una determinazione e con una spregiudicatezza che ricordano moltissimo quelle mostrate dal governo statunitense all'epoca della seconda guerra contro l'Iraq.
Lo sterminio degli Eburoni, pianificato ed eseguito da Cesare nel corso della conquista della Gallia, ricorda assai da vicino il genocidio degli Armeni, pianificato e condotto dai Giovani Turchi durante la prima guerra mondiale.
Per non parlare delle devastazioni sistematiche e delle deportazioni di interi popoli, pratiche nelle quali gli Assiri rimasero a lungo dei maestri insuperati, al cui confronto i Greci e gli stessi Romani non erano che dei semplici dilettanti.
Tuttavia, una cosa è la pratica e una cosa è la dottrina politica. Nessun filosofo dell'epoca classica, a parte i sofisti, arrivò mai a teorizzare la necessità di perseguire l'utile, calpestando il giusto e l'onesto: nessuno ne fece mai una dottrina; o, se lo fece, tale dottrina non entrò a far parte del senso comune, né nella Grecia delle poleis, né nella Roma repubblicana.
È vero che gli Ateniesi passarono a fil di spada tutti gli abitanti dell'isola di Melo, all'epoca della guerra del Peloponneso; ma, ripetiamo, non bisogna confondere il piano della politica pratica da quello della teoria. Non è una distinzione gesuitica, ma un riconoscimento della diversa natura dei due ambiti di realtà.
Un discorso analogo, anzi, ancora più significativo, si deve fare per quanto riguarda l'influsso del cristianesimo nell'ambito della cultura politica. Il cristianesimo ha portato al riconoscimento di alcuni valori minimi che devono essere preservati ad ogni costo, anche nelle circostanze più estreme: le cosiddette tregue di Dio; la sospensione delle operazioni di guerra nei giorni festivi e nelle altre ricorrenze religiose; il dovere di rispettare gli inermi, le donne, i bambini; gli stessi valori cavallereschi, fondati sulla difesa dei deboli, delle vedove, degli orfani: tutto questo ha ridefinito l'idea collettiva della politica ed è valso ad umanizzare, o almeno a mitigare, gli aspetti più cinici e brutali della politica, specialmente in tempo di guerra.
Per convincersi di quanto andiamo dicendo, basta confrontare qualche brano dell'«Iliade» e dell'«Orlando innamorato»: lì, Achille non esita a uccidere l'avversario inerme, come nel caso di Asteropeo, e ad insultarne il cadavere; e poi, a rivolgere parole crudelissime ad Ettore morente, che gli aveva chiesto di rendere il proprio corpo ai genitori; qui, Orlando e Agricane si battono in un duello accanito, ma cavalleresco, e alternano le varie fasi della lotta mortale con elevati discorsi nel corso della pausa, durante i quali entrambi mostrano generosità e altezza di sentire. Anche nell'«Orlando furioso», del resto, colui che è a cavallo non vuole battersi con un avversario appiedato per non godere di un vantaggio disonorevole: e smonta di sella per cimentarsi con lui ad armi pari.
È evidente che la umanizzazione del nemico e l'idea che la politica debba rifiutare i mezzi sleali e disonorevoli è il retaggio di una visione dell'uomo,  e del suo posto nel mondo, profondamente diversa da quella di Machiavelli, dominata da una Fortuna cieca e imprevedibile, alla quale si contrappone non già una ultraterrena Provvidenza, ma una Virtù esclusivamente umana, disposta a servirsi, «se necessitata», anche del male, pur di raggiungere i propri fini.
Anche i grandi ideali di libertà, fraternità e uguaglianza proclamati dal 1789 vengono dritti dritti dalla concezione cristiana dell'uomo e della società, che piaccia o che non piaccia agli storici e agli intellettuali odierni, impeccabilmente «progressisti» e fortemente prevenuti contro tutto ciò che è espressione del sentimento religioso, ai quali piacerebbe dipingere l'influsso del cristianesimo sulla cultura europea soltanto in termini di ignoranza, superstizione e «instrumentum regni».
Tuttavia, così come non sarebbe corretto affermare che la ghigliottina e le ecatombi su campi di battaglia napoleonici sono, puramente e semplicemente, lo sbocco dell'ideologia politica dell'illuminismo, altrettanto non è corretto attribuire i roghi degli eretici e le guerre di religione alla concezione etico-politica del cristianesimo.
Ma torniamo a Cicerone.
La sua concezione generale della politica, così come la sua concezione generale dell'uomo, è strettamente legata alla sua visione profondamente religiosa del mondo: questo, se si vuole, è un punto di contatto fra la sua idea della politica, e quella che sarà propria del cristianesimo (e di cui v'è già traccia, ad esempio, in Seneca e nello stesso Virgilio). Il «trait-d'union» fra le due cose è, naturalmente, la filosofia di Platone: filosofia religiosa quant'altre mai, e ciò vale anche e soprattutto per il suo versante politico.
Ecco, dunque, che ci stiamo avvicinando al cuore del problema.
La modernità, sia nella teoria che nella pratica della politica, costituisce un innegabile regresso sia rispetto all'ideale greco della polis o a quello romano della res publica, sia rispetto all'ideale della cristiana Civitas Dei.
Altro che tregue di Dio: nella prima e nella seconda guerra mondiale non si sospendevano i massacri nemmeno nel giorno di Natale; mentre l'idea di chiudere intere popolazioni nei campi di concentramento, a morire di stenti e malattie (come fecero i Britannici durante la guerra contro i Boeri), o di affamare un intero continente per indurre alla resa il nemico (come fecero ancora i Britannici, e i loro alleati Statunitensi, durante entrambi i conflitti mondiali), hanno questo di nuovo e di diverso, rispetto a pratiche analoghe in uso nel mondo antico e, poi, in quello cristiano medievale: che sono state teorizzate e approvate sia da singoli governi, sia dalla classe dei sedicenti intellettuali e dall'opinione pubblica, che non ha visto in esse alcunché di riprovevole o, meno ancora, di demoniaco.
Per non palare dei bombardamenti sistematici sulle grandi città, fino a ridurle in cenere, della guerra sottomarina indiscriminata; dei campi di concentramento; delle atomiche sganciate sul Giappone…
Machiavelli, che separa nettamente la politica dall'etica, è l'espressione della sensibilità moderna: laica, materialista, pragmatista, utilitarista, efficientista.
Con Machiavelli, la nuova concezione politica entra nell'era della modernità, anticipando di oltre un secolo un analogo evento nell'ambito della scienza: e «Il Principe», del 1513, sta alla nuova idea della politica, così come «La Nuova Atlantide» di Francesco Bacone, del 1627, sta alla nuova idea della scienza.
Grazie a questi due cattivi maestri: l'uno che insegna a manipolare gli uomini senza alcun riguardo per il bene e il male, l'altro che insegna a manipolare cose, piante e animale senza alcuno scrupolo per la loro intrinseca dignità, l'Europa entra a vele spiegate nell'era della modernità, lasciandosi trionfalmente alle spalle il «buio» Medioevo e pensando di emulare, e anzi di superare nettamente, l'apogeo della stessa civiltà classica.
L'uno e l'altro hanno eretto a sistema la filosofia del dominio: sugli uomini il primo, sulla natura il secondo; e quindi, inevitabilmente, la filosofia della violenza e della guerra: guerra di tutti contro tutti, come ammoniva un altro padre fondatore della modernità, Thomas Hobbes.
Non c'è molto di cui andare fieri, in verità.
Forse sarebbe tempo di raccontare un'altra storia ai ragazzi, sui banchi di scuola; e di rivedere anche l'impostazione prevalente dell'insegnamento di storia della filosofia.
Forse tutti questi squilli di tromba e rulli di tamburi, quando si annunciano «le magnifiche sorti e progressive» della modernità, sono un tantino fuori di luogo.
Forse, dopotutto, nelle cose che realmente contano e non nella costruzione di macchine, gli ultimi secoli della nostra storia non hanno registrato un progresso, ma un regresso: un regresso nel quale siamo tuttora coinvolti, anche se non lo sappiano, anche se siamo fermamente convinti dell'esatto contrario…