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Marco Anneo Lucano, il poeta della guerra di Farsalo

di Fabrizio Legger - 10/09/2009

 



Tra i poemi epico-storici che la civiltà letteraria di Roma antica ci ha lasciato in eredità, il Bellum Civile, più comunemente noto come Pharsalia, ovvero in italiano Farsaglia, di Marco Anneo Lucano, è sicuramente il migliore, anche se incompiuto, e la sua fama imperitura, nel corso dei secoli, lo sta a dimostrare.
Non ci credete? Leggetelo, anche in traduzione italiana, e vedrete che vi troverete di fronte ad una vera, autentica ed altissima poesia. Altro che la poesiucola da dilettante delle Puniche di Silio Italico! Altro che la poesia monotona e retorica degli Annali di Ennio! Altro che i versi ridicoli e ridondanti degli Annali della Guerra Gallica di Furio Bibaculo!
Quella di Marco Anneo Lucano sì che è vera poesia, epica e storica, ma soprattutto drammatica, cupa, tenebrosa, sanguigna, inquietante come si conviene ad una poesia che tratta di eventi infausti e devastanti come una guerra civile fratricida.
La Pharsalia è un lungo poema in dieci libri, non finito, che tratta della terribile guerra civile tra Cesare e Pompeo, incentrandosi in particolare sul periodo più sanguinoso, cioè quello che va dal passaggio del Rubicone, da parte delle legioni di Cesare, alla guerra alessandrina, dove Pompeo troverà la morte per mano dei sicari del re egiziano Tolomeo.
Peccato che il poema sia incompiuto: si interrompe infatti bruscamente a metà del X libro, mentre gli abitanti di Alessandria ordiscono una sollevazione contro Cesare e le sue truppe. Il modello di Lucano, almeno per il numero di libri di cui doveva essere composto il poema, è l’Eneide di Virgilio, ed è presumibile che egli sarebbe arrivato a comporre anche il XIImo libro, forse terminante con l’assassinio di Giulio Cesare, su non fosse sopraggiunta la morte per ordine di Nerone (che, nel 65 dopo Cristo, lo costrinse al suicidio in quanto il poeta aveva aderito alla congiura antineroniana di Pisone).
Il poema è affascinante perché Lucano descrive con angoscia e partecipazione quasi commossa i luttuosi e tragici eventi della guerra civile tra Cesare e Pompeo, che provocò migliaia di morti e che condusse all’estinzione della Repubblica romana.
È però evidente, nel poema, che la fedeltà scrupolosa alla fonte storica di un avvenimento, tra l’altro non troppo lontano nel tempo rispetto all’epoca in cui visse Lucano (39-65 dopo Cristo) viene volontariamente e ripetutamente sacrificata alle deformazioni della verità per fini ideologici, in particolare per quanto riguarda le opposte concezioni politiche di Cesare e Pompeo e dei loro sostenitori.
Una deformazione che si spinge fino al punto di inserire episodi assolutamente estranei alla realtà storica, per dare spazio al fantastico, all’orrorifico, al soprannaturale, al sensazionale, come, per esempio, la vicenda della maga Erittone, la morte dei soldati di Catone avvelenati dai serpenti mostruosi nel deserto libico, il sogno di Pompeo in cui l’apparizione di Giulia gli preannuncia fosche e sanguinose sciagure, l’intervento di Cicerone presso i pompeiani nella piana di Farsalo.
Filosoficamente, egli era uno stoico che ebbe la sorte di vivere sotto il regno di Nerone, e, come gran parte degli stoici, anch’egli vedeva nell’assolutismo monarchico una forma di bieco dispotismo, proprio quel dispotismo iniziato da Giulio Cesare, con la sua scellerata ambizione di diventare signore di Roma.
Perciò, la Pharsalia è anche intrisa di elementi ideologici che esaltano la dura lotta dei difensori delle libertà e dell’aristocrazia repubblicana (Pompeo, Catone d’Utica) e che denigrano i sostenitori dell’assolutismo (Cesare, Marco Antonio, Cleopatra).
Ma ciò che, a parer mio, maggiormente avvince di questo grande poema epico-storico, sono le sue atmosfere inquietanti, le scene macabre, il senso di morte e di devastazione che lo pervade, le spaventose presenze soprannaturali che fanno spesso capolino tra le sanguinose devastazioni della guerra.
Tutto il poema, inoltre, è intriso di elementi magici, caratterizzati da prodigi, incantesimi, sogni terrificanti, fosche predizioni, apparizioni di demoni, evocazioni di spettri, metamorfosi raccapriccianti. Spicca tra questo armamentario magico abbondantemente utilizzato da Lucano, l’inquietante figura della strega tessala Erittone, vera e propria negromante diabolica, capace di compiere i più terrificanti prodigi di magia nera, nonché di evocare dal tenebroso mondo degl’inferi le spaventose ombre dei morti. L’episodio di Erittone è descritto nel VI libro del poema: Sesto, uno dei figli di Pompeo, accampato in Tessaglia con il suo esercito, si reca a consultare la terribile maga e assiste ad un agghiacciante spettacolo di negromanzia. La maga, con i suoi poteri infernali, richiama in vita un soldato morto, che appare sotto forma di orrido spettro, il quale rivela a Sesto Pompeo l’imminente rovina che incombe su suo padre, sulla sua famiglia, su lui medesimo, nonché sull’intero ordinamento politico della Roma repubblicana.
L’atmosfera in cui si svolge questo tenebroso episodio è davvero degna di un film dell’orrore. Qui, l’arte macabra di Lucano raggiunge veramente i suoi vertici, avvalendosi anche del fatto che la Tessaglia era celebre, già nell’antichità, per essere terra oscura infestata da maghi e da streghe.
Ma il poema è anche costellato di tante scene di tremende battaglie in cui si compiono stragi immani e spietati massacri, ed ivi il poeta di Cordova si compiace di narrare con minuzia di particolari la “macelleria” della guerra, descrivendo minuziosamente le ferite mortali e le piaghe purulente, i colpi di lancia e di spada che aprono nelle carni ampie ferite da cui sgorgano fiumi di sangue.
Però la sua fantasia sfrenata non si ferma certo qui. Attratto dall’esotico, solleticato dal sensazionale, incline all’orrido e pregno di gusto macabro, l’estro poetico di Lucano trova di che sbizzarrirsi nell’episodio della lunga e logorante marcia dell’esercito repubblicano, guidato da Catone di Utica, attraverso l’inferno del torrido deserto libico. Il fatto avviene nel libro IX, dopo l’assassinio di Pompeo: Catone si mette alla testa dei pompeiani e li guida in una terribile traversata tra le distese sabbiose della Cirenaica, dove le sue truppe devono lottare contro un caldo infernale, un sole che abbacina e provoca mortali miraggi, le insidie terribili di mostruosi serpenti che fanno strage dei legionari.
Con un senso dell’orrido davvero prodigioso, il poeta descrive le morti orribili di soldati morsicati da serpenti a due teste e serpenti crestati, morti che giungono attraverso ributtanti metamorfosi che illividiscono e imputridiscono le loro carni, gonfiandoli a dismisura e facendoli poi esplodere in mille brandelli sanguinolenti.
Sostenuto da una ispirazione davvero lugubre, il poeta indugia con estremo compiacimento su tali particolari agghiaccianti, rivelando un gusto dell’orrorifico che risulta davvero raro nella letteratura latina e che attrasse a tal punto il grande Dante Alighieri da indurlo a riprendere, nella sua Divina Commedia, sia l’episodio delle metamorfosi dei serpenti, sia la citazione delle gesta negromantiche della terribile strega Erittone.
Per quanto riguarda i personaggi principali del poema, Lucano assegna a Cesare il ruolo del tiranno, del nemico dell’aristocrazia senatoria e delle libertà repubblicane, pronto a favorire la plebe per ottenere il consenso popolare, incarnazione di quelle forze irrazionali che si scatenano contro l’antica potenza di Roma e che, invece, nell’Eneide di Virgilio, venivano domate dalla virtù degli eroi.
Pompeo viene invece ritratto come una figura tragica, in lotta contro le forze oscure ed avverse della ria Fortuna, impegnato a lottare contro un’emergente tirannide ma non sufficientemente spietato per contrastarla adeguatamente. Il Pompeo di Lucano è un personaggio molto attaccato alla famiglia, ai figli e alla moglie, un uomo pronto al sacrificio di sé e consapevole che solo la morte in nome di una causa giusta può rivelarsi l’unica vera via di un pieno riscatto morale.
Catone di Utica incarna invece la figura dello stoico, uno stoico che però è in crisi, in quanto la sua razionalità e il suo rigore morale non gli consentono di modificare il corso nefasto degli eventi storici. Nonostante questo, egli si impegna a fondo nella terribile guerra, ben certo della ineluttabile sconfitta che attende i pompeiani e convinto che soltanto dandosi la morte potrà affermare il suo insopprimibile desiderio di giustizia e di libertà dinanzi alla sprezzante prepotenza dei vincitori.
Purtroppo, però, anche la Pharsalia risente di alcuni vistosi difetti, come le ampie concessioni a lunghi e patetici discorsi da parte dei protagonisti, le troppe digressioni geografiche estremamente dettagliate, il nervoso martellare di gruppi di versi che finiscono spesso col ridursi a filosofiche sentenze e moralistici aforismi, la presenza costante di una rigida ideologia politico-moralistica che sovente si trasforma in una ridondante retorica con cui Lucano tenta di rinvigorire e ridare credibilità alle forme espressive ormai troppo labili del consunto linguaggio epico. Non una rifondazione del linguaggio epico, sia ben chiaro, ma una sorta di compromesso di fronte alla crisi di un genere letterario come era appunto il poema epico e, al tempo stesso, un nobile tentativo per cercare di ritrovare quell’autenticità di espressione necessaria per portare avanti con efficacia l’ideologia etico-politica di cui il poeta di Cordova si era fatto portavoce.
Tale ideologia si accentua sempre più man mano che si procede con la lettura del poema: la si evince chiaramente già dai primi libri, ma negli ultimi diviene sempre più esplicita. Questo, perché il pensiero politico e filosofico di Lucano rispecchia, sostanzialmente, quello dei circoli intellettuali di ispirazione stoica che, politicamente, erano i più strenui difensori delle antiche libertà repubblicane, circoli in cui la figura di Pompeo era ancora sommamente venerata e dove il suicidio di Bruto, Cassio e Catone era considerato l’ultimo estremo atto di protesta degli uomini liberi contro la prepotenza bieca della tirannia.
In ciò, il poeta Lucano si differenzia moltissimo dal filosofo Seneca, anch’egli alla corte di Nerone e anch’egli vittima della sanguinosa repressione seguita alla fallita congiura di Pisone: infatti, mentre Seneca, preso atto dei mutamenti incorsi nel mondo romano ammetteva la necessità storica dell’impero purché retto da un sovrano illuminato e tollerante, Lucano continuava a restare prigioniero di una astratta nostalgia verso una forma di governo (la Repubblica) estremamente idealizzata, nostalgia che dava vita ad un pensiero politico basato sul tradizionalismo più acceso e permeato di uno spirito decisamente aristocratico e conservatore (che vedeva, in pratica, le libertà repubblicane coincidere con i privilegi dell’aristocrazia senatoria).
Ma Lucano stesso aveva coscienza che l’antica Repubblica non sarebbe mai più tornata e che il presente della grande Roma era quello di sottostare, volente o nolente, alla tirannide dei Cesari. Ragion per cui, nella sua Pharsalia, non vi è speranza per un futuro migliore: il Male ha il volto del dispotismo e della cieca violenza della guerra fratricida, e di fronte a questo scenario di orrore, di oppressione e di sangue, l’unica via possibile per sottrarsi all’esistenza squallida che attende i sudditi dell’assolutismo, è quella della morte, del suicidio, che nel poema viene esaltato stoicamente come un gesto virile con cui l’uomo libero afferma il suo disprezzo verso la tirannide e la sua superiorità morale e spirituale sull’oscuro potere violento che sembra assoggettare a sé ogni cosa (una concezione, questa, che si ritrova anche in molte tragedie di Vittorio Alfieri, che di Lucano fu un appassionato estimatore).
Nonostante questi limiti, questi difetti e queste riserve, il poema lucaneo, però, resta uno tra i più originali, avvincenti e famosi della letteratura latina. Occorre anche tenere conto che il poema è incompiuto, manca di una revisione totale da parte dell’autore e risente delle lunghe interruzioni che ne accompagnarono la composizione.
Inoltre, quando Lucano ricevette dall’imperatore Nerone l’ordine di uccidersi, aveva solo ventisei anni, quindi è presumibile supporre che la Pharsalia sia stata scritta tra i venti e i ventisei anni, è quindi opera di un giovane poeta e, come tutte le opere dei giovani poeti, è ricca di i pregi e di difetti. Ma ad un giovane poeta di genio, come era appunto Lucano, qualche difetto lo si può anche perdonare, no?
In ogni caso, con la Pharsalia, Marco Anneo Lucano si assicurò una gloria imperitura, a dispetto della sua giovane vita, stroncata troppo presto dal volere di un giovane tiranno che, qualche anno dopo, fu costretto, a causa delle sue scelleratezze e della sua prepotenza, a fare la stessa fine del grande poeta a cui aveva spietatamente ordinato di uccidersi!