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E la finanza islamica regge meglio di quella occidentale….

di Marcello Foa - 15/09/2009

  
 
C’erano, una volta, negli anni Settanta, gli sceicchi arabi con le tasche rigonfie di petrodollari che giravano per l’Europa e gli Usa comprando di tutto: case, gioielli, ma anche aziende decotte pensando che fossero in salute. Quarant’anni dopo gli sceicchi sono ancora più ricchi, ma nessuno ride più di loro. E nemmeno degli indonesiani, nè dei malesi. Anzi, molti, in Occidente invidiano i musulmani, perchè chi avesse gestito i propri fondi come loro avrebbe superato indenne il tracollo dello scorso anno.

Fortuna? Bravura? Non proprio. Diciamo un’altra filosofia d’investimento che prende il nome di finanza islamica e che diventa sempre più importante nel mondo, con tassi di sviluppo esponenziali: valeva 500 milioni di dollari dieci anni fa, oggi movimenta una sessantina di miliardi. Certo, ancora poca cosa rispetto ai volumi d’affari di piazze come New York o Francoforte, ma l’Islam si espande, si modernizza, impara a gestire le sue immense risorse, con le banche e i fondi sovrani, nel Golfo, in estremo oriente, ma anche in Occidente, come è emerso durante un convegno svoltosi a Milano presso la Camera di Commercio e organizzato dallo Studio Morri e Associati, a cui ho assistito e che ha riservato non poche sorprese.

Già, perchè la finanza islamica non ammette la speculazione, nè l’ingiusto arricchimento ai danni del debitore o di terzi, vieta gli interessi sul capitale e i contratti aleatori o incerti. Si basa su due principi semplicissimi. Il primo: qualunque investimento deve trovare un corrispettivo in un’attività concreta commerciale, agricola, immobiliare o industriale e dunque sono vietate partecipazioni azionarie in banche, assicurazioni, strumenti di finanza creativa. E questo spiega perchè i fondi musulmani abbiano risentito molto meno del crash provocato da Lehman.

Il secondo concetto è di buon senso: chi finanzia deve condividere il rischio con il cliente. Per chiarire: il finanziatore non può proporti un prodotto e abbandonarti al tuo destino quando le cose vanno male, come invece avviene da noi, dove la banca guadagna sulle commissioni e presta solo a fronte di determinate garanzie. Nella finanza islamica se c’è da perdere perde con te, se c’è da guadagnare, guadagna con te.

Non mancano ovviamente gli aspetti negativi: il mondo finanziario islamico si basa sulla Shaaria e che delega a un comitato di Imam il compito di decidere quali siano i settori su cui si può investire rispettando il Corano; il che non è certo rassicurante per un occidentale, nè in linea con i fondamenti di uno Stato laico ed evoluto; senza dimenticare che fino a pochi anni fa certi canali sono stati usati per sostenere il terrorismo. Inoltre, manca un mercato secondario e la storia di questi investimenti è limitata a una quarantina d’anni, dunque troppo troppo poco per averne dimestichezza.

Ma in un mondo che cerca rimedi agli eccessi provocati proprio dall’avidità di una certa finanza  (tra l’altro Obama oggi si reca in visita a Wall Street per tentare di ravvivare le promesse di una nuova regolamentazione per le banche), l’esperienza islamica fa riflettere. Un banchiere cattolico del calibro di Ettore Gotti Tedeschi, rappresentante in Italia del Banco di Santander, segue questa esperienza con favore e vede analogie con l’insegnamento di San Tommaso. «La loro esperienza ci ricorda che il denaro deve essere un mezzo per raggiungere un obiettivo concreto, condiviso, non deve mai diventare un fine in sè», ha dichiarato, condividendo con gli islamici il desiderio di una finanza che incoraggia la moderazione, deplora l’avidità ed è ancorata alla realtà.

Auspici retorici o applicabili in qualche misura al nostro mondo?

Ma è giusto o accettabile che nel 2000 la religione abbia un’influenza sulle regole della finanza?