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Per un ambientalismo umanistico: dal rifiuto alla prospettiva e ritorno

di Marco Palla - 28/09/2009

Fonte: appelloalpopolo

 

Parte II

L’avventura della prospettiva

 

 

 

Nel precedente articolo è stato affrontato il tema del rifiuto come oggetto non integrato nel paesaggio. E’ ora opportuno ricordare – a volo d’uccello – qual è lo strumento principale con cui l’uomo ha saputo adeguare i suoi insediamenti stabili al paesaggio, cioè la prospettiva. E in qual modo questo complesso di nozioni e studi teorici è stato progressivamente abbandonato in epoca moderna.

 

La tecnica che ha prodotto i muri di cemento, inconciliabili con l’ambiente che occupano, non è originariamente maligna, né lo potrebbe essere. Diversamente da altre attività umane, una tecnica non è programmaticamente volta al male e all’ingiustizia, essendo un mezzo diretto verso un fine, e in vista di esso piegabile. La complessa "discussione" sulla natura della tecnica (la teknè) che si svolge tra i filosofi classici (Platone nella Repubblica, Aristotele nell’Etica Nicomachea e nella Metafisica) introduce un finalismo che riguarda la praxis, cioè l’azione dell’uomo: produrre significa provocare cambiamenti nella natura che non si verificherebbero se non intervenisse un’attività specificamente umana.

Quindi il problema è di ordine comportamentale, cioè morale, e non etico. Va a incrociarsi con la principale delle scienze poietiche, la scienza architettonica, e con essa invade il campo proprio della costruzione – anche materiale – della polis.

 

Con la ripresa postuma delle forme e delle strutture del mondo antico, avvenuta lentamente dopo la sua dissoluzione, l’Europa umanistica e poi rinascimentale imbocca un cammino di speranza e di tentativi, un cammino che prevede un arretramento della tecnica a vantaggio di un innalzamento dell’arte sul piedistallo più alto, illuminato dalla luce divina (arte sacra).

La città – intesa come centro di comando dove si raduna e si scambia l’eccedenza prodotta nei territori vicini – organizza il territorio e domina i rapporti istituzionali. Letteratura e immaginazione identificano la civiltà con la città – la civitas con la urbs – e anche la caduta dello Stato imperiale è riassunta nella rovina della città eponima, Roma, nelle parole di Sant’Ambrogio ("semidirutam urbium cadavera")  e Sant’Agostino, che ne mette in salvo l’idea nel mondo soprannaturale.

La città è un recinto d’idee in cui matura l’arte di maneggiare le medie e le piccole distanze – l’architettura – e in cui per un certo periodo si cerca di conservare anche l’arte di occupare e modificare il paesaggio, cioè di maneggiare le grandi distanze. Questo tentativo di adeguare il mondo all’uomo e viceversa produce un colossale sforzo di pensiero e di abilità, che si realizza nell’invenzione rinascimentale della prospettiva e nelle sue applicazioni progettuali, appunto in architettura.

 

Scienza e arte insieme, visione sintetica del mondo e del posto dell’uomo nel mondo, la prospettiva è una dottrina razionale e si può insegnare (in accademia), è "in sé" e non cerca contenuti di cui appropriarsi, è un ritorno del reale nel soggetto che la guarda e quel reale è il vero.

Il vero è ciò che viene osservato, la visione polarizzante e gerarchizzata che si fa "colpo d’occhio", e al cui interno giace un punto centrale ed evidente attorno al quale il quadro via via si sfoca. Il vero è un insieme di oggetti che viene organizzato nella visione del soggetto. Si ha arte quando quell’organizzazione viene replicata nel quadro, per mezzo di un magistero di scienze che riguardano il colore, la luce e soprattutto la forma, cioè appunto la visione prospettica.

La prospettiva viene a essere il reale all’intorno così come lo vede il soggetto in un dato momento: è lineare perché infilza il punto di vista, il fuoco centrale e l’orizzonte nelle sue molteplici fughe, ed è rappresentazione dell’oggetto perché dà anche la posizione relativa a esso del soggetto che osserva.

 

Paradossalmente il momento di maggior trionfo di questa dottrina – il passaggio dal Rinascimento al Barocco – porta in seno i primi durissimi colpi inferti a essa dall’eredità storica e artistica europea, e il germe che la condurrà alla rovina.

Dai tempi del basso Medioevo le condizioni materiali e culturali europee sono cambiate: cresciuti i mezzi finanziari, evolutasi la tecnica costruttiva, la ricerca della perfezione progettuale cede il passo a un approccio retrospettivo, rassicurante, che si avvale di modelli acquisiti.

Soprattutto la nascita della scienza moderna ridimensiona l’ambito della cultura visiva rinascimentale: l’arte prospettica non è più assicurata da una corrispondenza diretta col mondo reale, perché a questa si accede con altri mezzi, più evidenti. Conoscere non vuol più dire ritrarre o progettare, ma scoprire le leggi meccaniche che informano le apparenze, conoscere la matematica e non più la geometria, che fuoriesce di fatto dal quadrivio; sperimentare in maniera irrefutabile e non più apprezzare soggettivamente.

In città entrano in crisi le scelte del repertorio classico (per esempio di Brunelleschi) che guardavano a raccordare lo spazio esterno alle misure umane, perché dopo Copernico e Galileo lo spazio è un unico infinito, e non più un carattere di ciascun corpo che lo occupa.

Le ultime scelte classicheggianti di adeguamento delle città rinascimentali, come a Roma e a Palermo, spingono l’uso della prospettiva al rettificare le strade, interconnettendole con il territorio e creando assi lunghi anche alcuni chilometri. Altrove, come ad Amsterdam, una società in rapida evoluzione conforma a scelte mercantili la pianificazione cittadina, rinunciando ad opere pubbliche eccessivamente costose e frammentando i 25 chilometri di banchine urbane in una miriade di proprietà private, che edificano singolarmente. Ma sono soprattutto i grandi giardini francesi di Vaux e Versailles (il secondo costruito arruolando forzosamente a corte le maestranze private che avevano realizzato il primo) che operano uno sfondamento di piano, forzando la prospettiva fino al limite paesaggistico, e sfidando la legge rinascimentale che subordinava l’architettura alla natura.

 

L’esagerato classicismo francese fa scuola nel resto d’Europa, a Vienna, a Kassel e Karlsruhe, a San Pietroburgo, a Torino, a Caserta. Le straordinarie realizzazioni che produce in meno di un secolo concludono l’avventura della progettazione prospettica, già spinta a limiti quasi utopici: le generazioni successive ereditano un repertorio semplificato e impoverito dallo sforzo.

La grande espansione di Londra tra ‘600 e ‘700 (fino a superare il milione di abitanti) produce un groviglio di forme svettanti, colte nei panorami del Canaletto, nei versi smarriti di Wordsworth. Le prime critiche ai giardini prospettici italiani e poi francesi nascono all’interno dei movimenti letterari con Addison e Pope, che si fa costruire a Twickenham il primo esempio britannico di giardino liberamente organizzato, lontano dai canoni classici. Goethe è testimone della nuova moda nel parco di Dessau, realizzato per conto del principe Carlo Augusto: "La vista di un colle non spinge a dirigersi verso una meta precisa; si continua a passeggiare senza chiedersi dove si è giunti né dove si è diretti".

La svalutazione del classicismo coincide con la ripresa del gotico: Chateaubriand restaura in stile gotico la sua residenza di Vallée-aux-Loups. Non è un caso che nasca in questi anni anche l’alpinismo moderno, la fuga nella natura si spinge così nel campo dell’avventura.

La pittura di paesaggio, le incisioni olandesi, lo sbocciare delle guide di viaggio ricordano quasi con nostalgia lo scenario del territorio europeo, costruendo una cornice che la letteratura del tempo smaschera come ormai vetusta : per Tolstoj il cielo che sovrasta la battaglia di Austerlitz ha il colore rassicurante della terra, appena 10 anni dopo per Stendhal la battaglia di Waterloo si riassume nel fango e nel sangue che macchia le natiche dei cavalli morenti.

 

La progettazione dello spazio esterno che fa a meno della prospettiva e la confusione nella scala urbana coincidono in architettura e in arte con quanto avviene nelle arti "povere": l’abbandono della simmetria nel disegno ornato, un repertorio musicale rinnovato nelle tecniche e negli strumenti che riassume nella nascente musica da camera romantica la ricerca dello spiritualismo del tempo, fondando in controtendenza  rispetto al resto delle arti liberali un nuovo classicismo (appunto la cosiddetta "musica classica").

 

In un terzo articolo – di prossima pubblicazione – cercherò di recuperare il filo del discorso per quanto riguarda l’architettura e l’arte moderna e contemporanea: quale eredità sia stata lasciata dai movimenti artistici classicisti, quali siano le possibilità di recupero e se tale recupero possa generare risultati nel tentativo di risistemazione dell’uomo nell’ambiente, pur con i compromessi moderni.