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La vita ribelle e trasgressiva di Niccolò Franco

di Fabrizio Legger - 05/10/2009

 


Niccolò Franco nacque a Benevento nel 1515 e morì a Roma nel 1570, impiccato come bestemmiatore impenitente, sacrilego ed ostile agli insegnamenti di Santa Romana Chiesa.
Nato da modesta famiglia, rivelò presto un ingegno precoce unitamente ad un carattere ribelle, sprezzante dell’autorità, irriverente e ostinato.
Non appena gli fu insegnato a leggere e a scrivere, si gettò a capofitto nello studio in maniera assolutamente da autodidatta. Imparò il latino ma si rifiutò di leggere gli scrittori edificanti, preferendo i poeti erotici e gli scrittori proibiti, come Marziale, Petronio, Catullo. Disprezzò la cultura e la poesia accademica, prediligendo invece quella anticlassicistica e popolaresca di autori come il Pulci, il Berni, il Ruzante.
Sin da adolescente condusse una vita scapestrata e ribelle, rivelando un temperamento sensuale e bizzoso: fuggì più volte di casa, vivendo di espedienti, frequentando taverne e postriboli, condividendo i suoi giorni con bari, meretrici e furfanti, e campando di truffe, borseggi e ribalderie.
Trasferitosi a Napoli verso il 1532 in cerca di fortuna, ma non sapendo come sbarcare il lunario, tentò di ingraziarsi l’alta società partenopea, scrivendo un libro di galanti e raffinati epigrammi in lingua latina, esaltanti i pregi e la bellezza di Isabella di Capua, moglie del Viceré spagnolo. Il libro, intitolato Hisabella, fu stampato a spese dello stesso Franco, ma vendette poche decine di copie. Una di queste, con dedica dello stesso Autore, fu inviata al Viceré e alla di lui consorte: il Franco venne elogiato e ottenne un paio di inviti a corte, dove poté sedere al banchetto reale e declamare i propri versi di elogio, ma senza ottenere quell’impiego stabile che invece sperava.
Deluso, nel 1535 lasciò Napoli e si salì al Nord, raggiungendo Venezia, la Regina dell’Adriatico. Ivi, scrisse e fece stampare il Tempio d’Amore, un poemetto galante, in ottave, in cui esaltò i pregi di tutte le più belle patrizie della Serenissima.
L’opera fu apprezzata, oltre che dalle dame a cui era dedicata, anche da alcuni nobili, i quali aprirono al Franco le porte degli ambienti letterari veneziani: accademie, cenacoli, ville patrizie in cui la poesia e il teatro erano di casa.
Fu in quegli ambienti che Franco conobbe Pietro Aretino, il mordace scrittore toscano denominato “Flagello dei Principi”, che all’epoca era all’apice della sua fama.
L’Aretino, uomo amante della buona tavola e delle belle donne, maldicente e puttaniere ma estremamente generoso con gli scrittori che cercavano di farsi conoscere, prese presto a ben volere il giovane beneventano, sia per la sua arguzia e i suoi motti di spirito, sia perché gli si offriva sempre come compagno di bisbocce tanto in taverna, quanto nelle bische e nei postriboli.
Perciò, lo assunse come suo segretario, lo ospitò nella sua casa sul Canal Grande e lo volle come compagno inseparabile di bagordi, orge e avventure goliardiche.
Ma i temperamenti dei due scrittori erano troppo simili perché potessero andare d’accordo a lungo: erano entrambi vanitosi, maldicenti, desiderosi di primeggiare e di essere al centro dell’attenzione, ragion per cui, dopo un paio d’anni di “fraterno sodalizio”, incominciarono a litigare e a lanciarsi feroci ingiurie reciproche.
Il successo delle Lettere dell’Aretino, pubblicate nel 1537, indusse il Franco  (che nel frattempo aveva già scritto, oltre al Petrarchista, i Dialoghi Piacevoli sperando di eguagliare i Ragionamenti aretineschi) a scrivere  e a far stampare le Epistole Vulgari, nel vano tentativo di emulare il suo rivale-protettore.
Ma l’Aretino, che mal sopportava concorrenti e rivali, e per giunta nella sua stessa casa , reagì cacciando il Franco dalla propria dimora, accusandolo di essere un ingrato, uno sfacciato e un irriverente…
Risentito, il Franco riversò contro l’Aretino, la sua casa e i suoi servi, fiumi di ingiurie e di insulti tanto ripugnanti e squallidi da causargli un’aggressione: infatti, si racconta che uno dei servi dell’Aretino lo attese di notte in una calle, e mentre il Franco rientrava solo e semi-ubriaco nella locanda dove aveva preso alloggio, l’energumeno lo aggredì a coltellate e lo sfregiò, e soltanto l’intervento di alcuni avventori della locanda, allarmati dalle grida del poeta beneventano, poté impedire che il servo del “Flagello dei Principi” vendicasse nel sangue gli insulti diretti contro il suo padrone.
Timoroso per la sua stessa sopravvivenza, il Franco si decise a lasciare Venezia, qualche settimana dopo l’aggressione, nel giugno del 1539, rifugiandosi dapprima a Casale Monferrato (dove aveva alcune conoscenze aristocratiche), e poi a Mantova, presso i Gonzaga.
A Casale, il Franco scrisse La Priapea, che fece stampare nel 1541, una sorta di poema costituito da duecento sonetti pornografici in cui, esaltando Priapo, il dio latino della fertilità dal fallo gigantesco, ne approfittò per lanciare attacchi violentissimi contro l’Aretino, che venne denigrato come sodomita, ateo, borioso, scialacquatore,  ricattatore di nobili e di principi, stupratore di pulzelle e pedofilo.
A Mantova invece, potendo contare sull’appoggio dei Gonzaga, provò a riconciliarsi con la cultura accademica e umanistica, ma non tralasciò di scrivere nuove velenose poesie contro l’Aretino, raccolte poi nel volume dal titolo Rime contro Pietro Aretino, che prolungarono oltre ogni limite l’astiosa polemica, ormai tutta personale, tra i due poeti un tempo amici.
Ma il Franco era uno spirito irrequieto:  non trovandosi bene neppure a Mantova, riprese a peregrinare, trasferendosi dapprima in Calabria, dove soggiornò per qualche tempo, poi nuovamente a Napoli, dove tentò invano di farsi assumere a servizio di qualche nobile in qualità di segretario. Infine, esasperato, nel 1568 si recò a Roma, la città dalla quale avrebbe dovuto tenersi più alla larga.
Infatti, nel corso degli anni, il Franco era divenuto sempre più ostile alla Chiesa cattolica e al clero. Pare che a Casale avesse incontrato alcuni riformati aderenti al luteranesimo e che i lunghi colloqui con costoro avessero esasperato la sua avversione per il Papato e la Chiesa di Roma. Già a Mantova, e poi, successivamente, in Calabria e a Napoli, il Poeta aveva attaccato pubblicamente la Chiesa e il Papa, giungendo addirittura a dire che i lanzichenecchi, durante il terribile Sacco di Roma, del 1527, non avevano ammazzato abbastanza preti e cardinali.
A Roma, sentendosi oppresso dall’atmosfera di esasperante bigottismo che gravava sulla città (si era ormai in piena Controriforma) e vedendo come la repressione pontificia seminava vittime non solo tra eretici e bestemmiatori, ma anche tra ubriaconi e meretrici, il Franco commise il grave errore di pensare che, in qualità di poeta e di letterato, poteva dire tutto ciò che gli passava per la testa, senza doverne rendere conto alla autorità ecclesiastiche.
Si lanciò così in una serie di furiosi e veementi attacchi verbali e scritti (fu riconosciuto autore di mordaci pasquinate) contro il Tribunale della Santa Inquisizione, contro l’alto clero romano e contro i pontefici Paolo III e Paolo IV, ragion per cui, nel corso di quello stesso anno, venne fatto arrestare proprio dall’Inquisizione.
Incarcerato per due lunghi anni, fu sottoposto a duri interrogatori e a torture, e alla fine, non avendo ritrattato nessuna delle accuse che gli vennero mosse, né avendo manifestato volontà di pentirsi, venne condannato come eretico e impenitente bestemmiatore e impiccato, nel 1570, su uno dei ponti che conducono a Castel Sant’Angelo.
Quella di Niccolò Franco fu una esistenza temeraria e trasgressiva, violenta e ribelle, simile, sotto alcuni aspetti, a quella di altri geni dell’arte di quel turbolento periodo, come Giordano Bruno e Michelangiolo Merisi detto il Caravaggio.
Le sue opere letterarie sono importanti perché avversano la poesia classicista cinquecentesca e il petrarchismo di stampo bembesco e perché esaltano una poesia vitalistica e irrazionale, fatta di sesso e di irriverenza, di ribellione al potere ecclesiastico e all’egemonia culturale delle accademie.
L’insofferenza del Franco per la cultura accademica e classicistica fu spietata: il Bembo, l’Ariosto, il Castiglione, il Della Casa furono per lui simboli di una cultura dominante da combattere e da annientare, così come il Petrarca (che per tutto il Cinquecento fu il supremo idolo di poesia) divenne l’oggetto dei suoi strali più velenosi e delle sue prose più dissacranti.
Ma come molti ribelli, pagò con la vita l’audacia della sua ribellione e della sua brama di trasgressione. E sebbene, come temperamento e come indole, non fosse certo una persona simpatica o capace di ottenere grande fiducia, fu comunque un martire del libero pensiero, anzi, della libera poesia, sacrificato sul patibolo da un potere clericale oscurantista e repressivo, che negli anni a seguire, con le persecuzioni di Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Galileo Galilei, si sarebbe macchiato di altri insopportabili crimini contro la filosofia, la scienza e la cultura italiana!