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Nobel a chi?

di Giuseppe De Bellis - 11/10/2009

Senza troppi commenti, vi invitiamo leggere gli articoli che seguono. Ormai i Nobel si assegnano a capocchia, basta essere abbastanza politically correct e saper sciorinare buone intenzioni su temi come la pace, il femminismo, le minoranze, l'ambientalismo, il razzismo ecc. ecc.

A parte la solita rozzezza reazionaria per cui si tira in mezzo un condottiero serio, tra luci e ombre (comunque cento spanne al di sopra di un Obama o di un Gore) come Arafat (definito terrorista), per il resto questi due pezzi sono da incorniciare.

Il Nobel a Obama? Un premio al nulla (fonte Il Giornale)

di Giuseppe De BellisE' stato premiato per aver promesso molto e non aver ancora fatto nulla. Una decisione imbarazzante, che finirà per danneggiarloIl Nobel a priori. Obama vince senza un motivo che non sia l’infatuazione collettiva e globale. Premi Barack e ti senti giusto, perché con lui non si sbaglia. I ruffiani di Oslo. È il sorriso per la stampa che oggi celebrerà l’incelebrabile. Lo sa persino il presidente Usa che questo riconoscimento è arrivato a prescindere. Lo premiano mentre sta per sganciare un’altra bomba al confine tra Afghanistan e Pakistan. Moriranno dei civili, perché sta combattendo una guerra. La pace che gli attribuiscono è lontana ed effimera, mentre le armi che usa sono vere. Cadono, distruggono, uccidono. Non lo fa per gusto, lo fa perché non può fare diversamente, perché potrà avere pace solo se continuerà a fare la guerra. Però il paradosso spiega l’ipocrisia di chi ha regalato un Nobel che sa di adulazione. Dicono che la candidatura sia stata presentata l’11 febbraio, cioè venti giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. È imbarazzante, grottesco, mendace. È la dimostrazione evidente e sfacciata che c’è stato un tavolino con attorno un gruppo di persone convinte di rappresentare il comune sentire. Chi premiamo? E hanno scelto il più scontato, banale, ovvio e al tempo stesso improbabile candidato. Perché questo è un premio al niente. È una scelta poggiata sul vuoto e su un grado di piaggeria sconfinato. Se l’è chiesto anche il suo staff: che cosa ha fatto Obama per guadagnarlo?

È vero, abbiamo visto il premio Nobel per la pace dato a un terrorista come Arafat, uno dato all’ambientalista inquinatore come Al Gore, però non avevamo mai visto il premio all’intenzione. Anzi: il premio alla speranza. Perché quella di Obama è una speranza di pace. Allora non c’è altra spiegazione che il circo mediatico-intellettuale che fa da contorno a ogni mossa del presidente americano. Il giro dei giri, un collettivo della lusinga, la compagnia di chi elogia servilmente. Concedergli la medaglia di pacificatore significava accarezzare i desideri e le convinzioni del mondo che lo circonda, spesso senza voler vedere quello che fa, quello che dice, quello che sceglie. C’è un non detto gigante attorno a Obama, c’è l’illusione che sia arrivato il leader globale che usa le parole al posto delle armi. È la banalità di chi non crede davvero che possa farlo, è la paura di chi è convinto che non sia all’altezza. Gli amici che diventeranno i suoi nemici: gli faranno del male, più di quanto facciano già ora. Barack ha una capacità unica di catturare le folle, ma poi fa politica con lo stesso cinismo degli altri: è la sua forza. Non si dica, però: non sta bene. Gli hanno tagliato un abito su misura che porta con stile, ma con un po’ di falsità: quello del presidente che tirerà fuori l’America e quindi il mondo dalla guerra.

Obama può vincere molte sfide, può sfatare molti pregiudizi, può tenere gli Stati Uniti al comando del mondo, però avrà sempre la zavorra di una claque globale che lo ridicolizza di fronte agli occhi dell’umanità. Il Nobel sguazza in questo intruglio di falsità e di innamoramenti adolescenziali che da un anno e mezzo fanno da contenitore delle uscite, dei viaggi, dei discorsi del presidente. Si proiettano su Obama scelte che non fa, ma che secondo il mondo dei fighetti con puzza sotto al naso dovrebbe fare. Così quando il presidente dice che non tralascia alcuna opzione nella trattativa diplomatica con l’Iran, viene sempre fuori la verità di comodo: «Obama tende il braccio verso Teheran». Il resto è omesso, dimenticato, scartato, taciuto perché non è quello che un presidente democratico dovrebbe dire. E cioè che nessuna opzione significa che c’è la possibilità della guerra, di un’azione preventiva, unilaterale, diretta. Ricorda Bush? Appunto. Perché Barack non ha cambiato di una virgola la politica estera dell’amministrazione precedente. Però a George W. nessuno si sarebbe sognato di dare un premio.

Invece è un po’ come se il Nobel l’avesse vinto anche lui ieri. Blasfemia, per i nemici dell’America, ma amici a prescindere di Obama. Che poi sono la fregatura del presidente Usa, la sua dannazione, il suo peso perenne. Il premio che Barack accetta con classe nasconde insidie, difficoltà, ostacoli. Perché l’amministrazione sta per chiedere al Congresso di mandare 40mila soldati in più a combattere in Afghanistan. Combattere. Quindi uccidere. Quindi morire. Guerra, non pace. Quanto costerà politicamente a Barack? Quanti pacifisti rinvigoriti dalla consegna del Nobel, lo considereranno un traditore? Obama sa che non c’è alternativa alla guerra, non ora. Sa anche che questo è quasi un dispetto di chi non conosce gli americani. Perché oggi noi europei leggeremo i commenti entusiasti dei giornali e dei leader politici, ascolteremo dichiarazioni epocali, sentiremo giudizi definitivi sulla grandezza di Obama. L’America no. L’America criticherà, l’America penserà ad alta voce quello che noi abbiamo solo il coraggio di bisbigliare: perché? Si darà una risposta che qui sarà scartata perché è politicamente scorretta: vince per una lobby mondiale che s’è innamorata di lui, vince perché è nero e ci sentiamo ancora un po’ in colpa, vince perché il Nobel non serve se non a riempirsi la bocca di vuoto. Hanno premiato le parole, la speranza, gli ideali. Hanno glorificato il nulla, hanno tradito anche le aspettative che Obama incarnava: se era questo Barack, se ci basta questo per osannarlo, ci basta poco. E con poco non si fa la storia.

È come prevedere i numeri del Lotto (Fonte Il Giornale)

di RedazioneNegli Usa sono andati nel panico, l'autrice de Il paese delle prugne verdi nessuno l'aveva sentita nominare, al contrario del Nobel per la pace Barack Obama, che ha lasciato sorpresi per altre ragioni e inaugura un nuovo trend: il Nobel sulla fiducia, per le buone intenzioni. Si potrebbe pensare che sotto i Nobel ci siano giochi di scommesse clandestine, così uno non indovina mai. L'altro ieri per il premio per la Letteratura, tra i rumors, qualcuno azzardava Vidal, qualcun altro Delillo, Oates, Munro, ogni anno l'eterno ritorno di Philip Roth. All'improvviso salta fuori il nome, e ognuno rimugina tra sé e sé: chi? Dal giorno dopo lo conoscono tutti, o almeno fingono, anche perché Google è a portata di mano. Come no, la Müller. Subito scatta un tripudio di cut and paste: «romeno-tedesca, appartenente alla minoranza degli Svevi nel Banato e nella Transilvania, quel ramo minoritario della più vasta famiglia degli Svevi del Danubio... ». Qualcuno sente male «Henry Miller? Non è morto?». Qualcun altro, sentendo Transilvania: «Certo che la conosco, è l'autrice di Dracula». «Non è la ragazzetta della Ballata delle prugne secche?». «Ma cosa dici, quella è Pulsatilla, la Müller è una grande... le prugne verdi... ».
L'indomani l'importante è che ci siano ragioni edificanti, morali, civili, cose belle e buone da dire. L'Unità, il quotidiano femmina formato pochette fondato da Antonia Gramsci, per esempio, è felicissimo, e può titolare «Anche nella letteratura il Nobel è donna». Come l'utero, la letteratura è mia e me la gestisco io. Hanno elencato le altre nobelesse, la Greider, la Blackburn, la Yonath, con la dicitura «più belle, più intelligenti» (potevano non mettere le foto, almeno). E come se la Müller, lì all'Unità, se la fossero sempre spalmata sul pane a colazione, quasi fosse la Luxemburg. Con dei passaggi comici, imperdibili, dove si commenta come a Stoccolma «si certifica una rivoluzione avvenuta», quella delle donne, mentre da noi, a causa di Berlusconi «l'icona femminile sono la escort o altre declinazioni di un primitivo e perverso rapporto sesso-potere, nel mondo le donne vincono i Nobel». Comunque oggi il Nobel l'avrebbero dato a Anna Frank, non certo a James Joyce, a Marcel Proust, a Robert Musil, maschi stronzi e disimpegnati. Non più a William Faulkner o Samuel Beckett o a quel fascista di Pirandello, per non parlare di quel nazista antisemita di Céline, o a quel frivolo di Oscar Wilde. Anche il Manifesto gongola come meglio può, sebbene insomma lei, la Müller, si sia opposta alla dittatura di Ceausescu e sia scattata «la mordacchia del regime», un regime dall'altra parte del muro di Berlino, non certo della Nato, e però vàglielo a spiegare, al quotidiano comunista, ora sono diventati antitotalitari anche loro (anzi antitotalitarie, pardon). Emil Cioran se ne andò a scrivere in Francia, e niente Nobel. Gombrowicz in Sudamerica, e niente Nobel. Grandi opere, ma maschi e menefreghisti e non abbastanza minoritari.
Oltretutto dei nostri hanno già scelto Dario Fo, Carmelo Bene aveva troppe opere e se ne usciva con pensieri tipo «chi se ne fotte del Ruanda», quanto agli scrittori veri Arbasino era troppo snob, e Aldo Busi, troppo televisivo e egocentrico, si sarebbe presentato in tailleur e tacchi a spillo e avrebbe annunciato «après moi le déluge».
L'Italia letteraria comunque ormai è andata, prima ci sono le minoranze sudanesi e nigeriane da accontentare, e chissà quanti scrittori minori, minoritari, oppressi e femmine nel Caucaso, in Armenia, in Arzerbaigian. Franz Kafka l'avrebbe salvato solo il duo Deleuze e Guattari, in quanto «letteratura minore» scritta da uno scrittore di una lingua minore, il ceco, in una lingua maggiore, il tedesco. Pensa te cosa sono andati a inventarsi, i marxisti, per nobilitare Kafka. Sono i precursori ideologici del Nobel, basta non parlare di opera d'arte e scrittura, concetti banditi perché troppo élitari. Che fare? Niente, per ora state all'Herta.