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Andrew Kollek, funzionario canadese

di Emilio Michele Fairendelli - 15/10/2009

Andrew Kollek

(Ottawa, 1980- )

funzionario Ministero dell’Ambiente

canadese, Dipartimento oceanografico

a Pierre Teilhard de Chardin

* * *

9m022narvaliLa vita di un uomo cambia, ruota il proprio asse accordandosi a segrete triangolazioni del cielo dopo ogni evento importante: una malattia, un incidente, l’incontro con la morte o con l’amore, con l’essenziale.

Così tanto che si dovrebbe,  l’indomani, ricevere un nuovo nome.

Per me questo evento fu l’incontro con i narvali.

Era l’autunno del 2012 e avevo trentadue anni.

Le avvisaglie di un clima eccezionale avevano spinto il Governo canadese ad inviare al nord una spedizione di esperti ambientali, in cui fui incluso quasi per caso.

Quando arrivammo a Pond Inlet il mare lungo la costa settentrionale del Nunavut era già gelato e aveva trasformato l’arcipelago di Victoria e Baffin in un’unica landa ghiacciata.

A meno di cinquanta chilometri dall’oceano aperto, che cercavano di raggiungere nella loro migrazione stagionale, i narvali (stimammo poi il loro numero in più di seimila) soffocavano sotto il pack.

Dove le placche collidevano, mosse da enormi pressioni che alzavano con rumori di cristallo lame verticali di ghiaccio alte anche quattro, cinque metri si aprivano stretti tagli di mare libero.

Là i narvali arrivavano alla disperata ricerca di ossigeno, a decine, sbucavano dall’acqua, i loro corpi si urtavano, i lunghi corni si agitavano come spade, in una visione irreale.

Con quelli parevano raccogliere l’aria dallo spazio  e calarla, in un altissimo fischio, nei molli labirinti del proprio corpo.

I cacciatori, quasi tutti Inuit, arpionavano dapprima gli animali, per essere certi di non perderli -  allora i fischi cambiavano frequenza, diventavano grida più dense, più vicine all’umano – poi li colpivano alla nuca con una fucilata, portavano i narvali sul ghiaccio e li caricavano sulle motoslitte.

La caccia ai narvali aveva un limite annuale di molte centinaia di unità e non potevamo fare nulla.

Nel pomeriggio, dall’elicottero militare, vedemmo i laghi di mare libero, completamente rossi di sangue, iniziare lentamente a richiudersi e gli Inuit andarsene.

Continuava e cresceva, già nel buio, il rombo delle navi rompighiaccio che provavano con enormi difficoltà a tagliare il pack.

Quel rombo, là sotto, nel mare, doveva squassare il corpo dei narvali ancora imprigionati e in agonia, riempire di qualcosa, che per noi sarebbe stato terrore,  quella loro minima coscienza.

Tornammo alla caserma di Pond Inlet che ci ospitava.

Dopo cena restai solo nella mia camera.

Venni sopraffatto da una profonda, impersonale pietà per i narvali.

Non era solo quel massacro  al largo delle coste del Nunavut,  il modo in cui si era svolto, ma molto di più.

Pensai al corpo degli animali come ad un’immensa, ignorata afflizione.

Immaginai i narvali muoversi nelle acque nere,  accoppiarsi ciecamente per continuare la specie, uguale da centinaia di migliaia di anni, vidi il loro cranio asimmetrico, l’asse deviato dal crescere del corno ritorto, gli occhi come piccoli tagli sulla pelle lucida, il corpo pesante condannato ad affiorare ogni ora.

Non meno bizzarro forse ero io, con le mie mani dalle cinque dita, i miei occhi umidi, tuttavia la stazione eretta, la coscienza dell’uomo e i suoi giochi, l’algebra, la letteratura, un viso che si alza verso le stelle per benedirle o maledirle, mi apparvero aldisopra di quella nera e disperata notte del Nunavut come un miracolo altissimo, una luce che illuminava ogni altro luogo dell’essere così come il futuro.

Ecco lo yoga del mondo, nel quale è  anche la vita dei narvali, ecco tutto quanto precede e annuncia l’uomo lungo una eterna spirale dorata dove il primo istante della dualità, e poi galassie, pianeti, materia bruta ed esseri viventi scorrono nelle ere  attratti da un centro che li richiama a sé.

E cosa ancora chiede ed attende la terra, dopo l’uomo?

La mattina successiva sulla piccola piazza di Pond Inlet un gruppo di Inuit aveva appeso ad un gancio un narvalo enorme, con due corni, come raramente accadeva, e lo mostrava ridendo.

Mi avvicinai e toccai il corpo morto dell’animale, la sua pelle ancora umida e tesa.

La mia mano scorse lungo il dorso del narvalo in una carezza che dichiarava e aboliva a un tempo ogni distanza, ogni differenza.