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Iran: quando il terrorismo non indigna l'Occidente

di Manuel Zanarini - 19/10/2009

 


Credo che ora sia definitivamente chiaro a tutti quali siano gli stati democratici e quali quelli “canaglia”, fiancheggiatori- per non dire suggeritori- dei terroristi.
Per chi non lo sapesse, ieri, a Sarbaz, nella provincia del Sistan-Baluchistan, nell’Iran sud-orientale, un kamikaze sunnita ha compiuto un attentato che è costato la vita a 49 persone, compresi due alti esponenti dei Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione- precisamente il generale Nurali Shushtari, comandante vicario delle forze di terra, e il generale Rajab-Ali Mohammadzadeh, comandante del corpo per il Sistan-Baluchistan. 
L’attentato è stato rivendicato dai “Jundallah” (i Soldati di Dio), una milizia sunnita, la cui componente etnica è molte forte in zona. Non si tratta del primo attentato compiuto nella regione; infatti, nel febbraio di due anni fa 11 Pasdaran furono uccisi, e 30 feriti, nell'attacco all'autobus su cui viaggiavano, e il 28 maggio scorso, 25 persone morirono quando una bomba fu fatta esplodere in una moschea sciita a Zahedan. I terroristi sunniti hanno i loro campi base in Pakistan, e vengono finanziati e sostenuti dagli Stati Uniti e da Israele.
Come è ovvio, i nemici della Repubblica Iraniana, tentano di sovvertire il governo di Ahmadinejad, che rappresenta un forte ostacolo all’espansionismo di Washington in Medio Oriente; ma, l’attacco di ieri è particolarmente indicativo, e va analizzato a fondo.
Aldilà della morte di alti ufficiali dei Pasdaran, cosa che rappresenta una provocazione molto forte nei confronti di Teheran, e che rischia di scatenare una catena di azioni-reazioni pericolosissima, due sono le considerazioni che vanno fatte.
In primo luogo, l’attacco terrorista si è verificato alla vigilia del meeting di Vienna dei “5+1” (USA, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, Germania) più l’Iran, che ha lo scopo di discutere della situazione riguardante il programma nucleare iraniano. E’ chiaro a tutti, che i “falchi” di Washington e di Israele hanno tutto l’interesse affinché Teheran appaia come il “lupo cattivo”, che attacca le “povere pecorelle” occidentali. Quale migliore occasione di una strage alla vigilia di un’importante evento distensivo internazionale, che potrebbe spingere l’Iran a reazioni scomposte?
Ma un altro, e forse ancor più importante, aspetto va segnalato nell’attentato di Sarbaz. Gli alti dirigenti dei Pasdaran si trovavano in quella località, proprio per un incontro con i capi tribù sunniti della zona, per avviare trattative di accordo tra le due etnie, allo scopo di pacificare definitivamente l’area al confine col Pakistan. La bomba è, infatti, esplosa all’interno del mercato cittadino, mentre i dirigenti miliziani e i notabili locali visitavano assieme le bancarelle manifatturiere. Questo indica chiaramente che si tratta dell’opera di destabilizzazione tipica del “soft power” attuato in questi mesi dal premio Nobel per la Pace Barack Obama e dal suo mentore Zbigniew Brzezinski. Il tratto caratteristico, che contraddistingue tale strategia da quella dei Neocon impersonata dall’ultima amministrazione Bush, è quello di fomentare guerre civili e scontri etnici all’interno dei paesi “ostili”, in modo da destituirne i legittimi governi, e sostituirli con nuovi “morbidi” verso Washington e i suoi alleati. Proprio come si cercò di fare all’indomani delle elezioni politiche, col tentativo fallito di attuare l’ennesima “rivoluzione colorata”, Obama ha orchestrato l’attentato di Sarbaz, proprio allo scopo di destabilizzare la società iraniana; infatti, è chiaro che agli USA, a Israele e ai loro alleati (il Pakistan in prima fila) fa molto comodo poter contare su minoranze armate all’interno dei confini iraniani, le quali forniscono loro “carne da cannone” per i giochi geopolitici a stelle e strisce, invece che trovarsi di fronte una società iraniana pacificata e unita. Prova ne sia proprio il fatto che la bomba sia stata fatta scoppiare durante i colloqui tra Pasdaran e capi tribù sunniti, col chiaro intento di farli saltare e di portare alla reazione del governo centrale, e, di conseguenza, all’inasprimento del contrasto.
Una volta smascherati i mandanti, e analizzato il movente, si deve cercare di capire quale sia lo scenario futuro più probabile e quale quello auspicabile. Partendo da quest’ultimo, il più facile, c’è da augurarsi che Teheran ignori le provocazioni statunitensi, non reagisca manu militari all’attentato, salvo chiaramente colpire i gruppi di terroristi, e continui nel lavoro di costruzione di una società iraniana coesa e pacificata, che prosegua sul cammino della rivoluzione lanciata da Khomeini, la quale rappresenta oggi una delle poche vie di uscita dal mondo capitalista ormai alla deriva. Temo però che Ahmadinejad sarà costretto a rispondere con la forza alla strage, rischiando però in tal caso di scatenare un corto circuito dagli effetti impensabili. L’unica cosa che ci resta da fare è sperare che anche stavolta l’Iran trovi la forza per non reagire all’ennesima provocazione imperialista di Stati Uniti e Israele.