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Ma noi "irregolari" rivendichiamo il "nostro" Jack Kerouac

di Roberto Alfatti Appetiti - 21/10/2009

 
Giù le mani da Jack Kerouac, il Secolo non può occuparsene. Così parlò, ieri, la Repubblica per voce di una esterrefatta Alessandra Longo. Quell’incontro sul grande scrittore americano – venerdì 23 alle ore 21 nella sede romana di Casapound – non s’ha da fare. Chi scrive, peraltro, a parere della notista sarebbe da ritenersi indegno di parteciparvi in quanto (sic!) estimatore di quel nazi di Knut Hamsun (e gli altri scrittori presenti sul mio blog?). Me ne farò una ragione, per quanto mi risulti sconcertante l’associazione. Vabbé. Il reato, neanche a dirlo, è sempre lo stesso: «Sconfinamento» culturale. Kerouac sarebbe roba loro. Suo malgrado, perché se c’è uno scrittore che – per citare le parole dell’amico William Burroughs – «è sempre stato violentemente contrario a qualsiasi genere di ideologia di sinistra» è proprio Kerouac. Che di farne l’icona s’era già bello che stufato quand’era in vita.
E oggi, a quarant’anni dal suo ultimo viaggio, quello senza ritorno, pur senza il lasciapassare della Longo, ce ne occupiamo proprio noi. Senza prestarci al gioco tutto giornalistico delle figurine (questa è mia e questa è tua) e senza voler aggiungere una riga alle tante agiografie di comodo, di cui il mito di Kerouac può fare tranquillamente a meno, alimentato com’è dalla morte prematura – aveva solo quarantasette anni – e dalla potenza suggestiva di On the road, il longsellers che nell’immaginario collettivo rappresenta ancora oggi più uno stile di vita e una visione del mondo che un semplice romanzo. Una metafora del desiderio di libertà prima che un’opera letteraria dalla pur potente forza evocativa. Sono pochi, del resto, a non averne in casa una qualsiasi edizione, più o meno sgualcita. Per chi l’ha letto, è ormai parte integrante dell’album dei ricordi, a fare da sottofondo a chissà quale episodio della propria vita. Ma anche chi non l’ha mai letto e mai lo leggerà, sa di cosa parliamo.
Scritto di getto nel ’51 in una manciata di giorni su un rotolo di carta per telex e con un linguaggio parlato agile e nervoso – spontaneo, come lo definiva l’autore – venne pubblicato nel ’57 e arrivò nel nostro paese giusto cinquant’anni fa, vero e proprio apripista del movimento beat - Ginsberg, Ferlinghetti, Corso & Co. - e di quel fiume di novità letterarie e musicali che seguirono d’oltreoceano. Il successo fu immediato quanto contagioso. Il desiderio di fuoriuscire dagli schemi piccolo-borghesi, il valore dell’amicizia, la ricerca dell’autenticità e il senso profondo di una comune appartenenza che vivono tra le pieghe del libro non potevano non scaldare i cuori dei ragazzi di quegli anni in cui – per dirla con Alain de Benoist – «si ascoltavano tanto Bob Dylan e Leonard Cohen quanto le canzoni dei parà». Prima che le ideologie, nel tentativo di guidare quell’ansia di cambiamento, finissero con il travolgerla e trasformarla in qualcosa di radicalmente diverso. Prima che lo stesso movimento beat venisse dirottato e strumentalizzato, suscitando la reazione infastidita dello stesso Kerouac. Tanto da costringerlo a prendere le distanze dai compagni di strada e dai suoi esuberanti discepoli quando le loro posizioni divennero eccessivamente politicizzate a senso unico. «Ferlinghetti e un sacco di altra gente prima mi sono saltati sulle spalle – si era sfogato – e poi sono caduti in una trappola comunista».
È singolare – hanno scritto Barry Gifford e Lawrence Lee nella bellissima biografia “narrata” Jack’s Book (Fandango libri, pp. 347 € 18) – che Kerouac fosse «celebrato come l’incarnazione di un movimento che lui non aveva né il desiderio né la capacità di promuovere». Lui che, pur se di origini modeste, era il più aristocratico degli scrittori beat. Lui che tutto avrebbe voluto farsi meno che uomo-manifesto, quasi insofferente nel dover recitare un ruolo che non era il suo. «Sono così impegnato a intervistare me stesso nei miei romanzi, che non vedo perché ho dovuto soffrire ogni anno degli ultimi dieci anni a ripetere a chiunque mi ha intervistato quello che ho già spiegato nei libri stessi». Quel che c’era da raccontare, l’aveva fatto nei suoi libri. Per il resto, riteneva di non avere molto da aggiungere. Punto. Poco a che vedere con quegli scrittori, di talento infinitamente minore, che si amministrano e si autopromuovono con furbizia, presenziando qua e là, badando più a infiocchettare la confezione che a scrivere con sincerità.
Ed è un dato di fatto che le sue opere, in Italia, furono accolte con attenzione a destra e diffidenza a sinistra. Ai primi piacque per le suggestioni jüngeriane ed evoliane che offriva, tanto da farne un riferimento esistenziale e letterario per la loro rivolta contro il sistema. Non è certo un caso che uno degli “inni” della giovane destra primi anni Ottanta fu proprio una canzone della Compagnia dell’Anello dal titolo Sulla strada. Mario Bortoluzzi, storica voce della band (nella foto a sinistra), ci ha raccontato come si innamorò subito di Jack Kerouac: «Anche i miei amici più cari, come me “reduci” del FdG padovano, amavano Kerouac, soprattutto sul piano della ricerca spirituale e comunque della ribellione verso i non-valori della società materialista. Come Compagnia decidemmo di scrivere una canzone che potesse essere un invito a tutti i nostri coetanei a prendere uno zaino, un paio di buoni scarponi e a partire sulle strade del Vecchio Continente. Sì. Il viaggio come metafora della vita e ricerca interiore. Forti richiami a Kerouac sono presenti anche in una canzone successiva come Giornate di settembre dove la fonte ispiratrice delle esperienze alpinistiche da noi realmente vissute, è proprio la discesa di Ray, Yaphy e Morley dopo aver scalato il Matterhorn. I precursori della beat generation, Kerouac innanzitutto, hanno tracciato il sentiero verso l’uscita dal tunnel dell’autodistruzione della società utilitaristica e capitalista indicando alcune priorità, ancora oggi utili al nostro Viaggio».
Basta rileggersi anche Fascisti immaginari – l’antologia di Luciano Lanna e Filippo Rossi che pure la Longo dovrebbe aver letto – per trovarvi, al riguardo, altre preziose testimonianze. Da quella del professor Luigi de Anna che ha raccontato come, all’epoca della sua militanza pre-sessantottina nella Giovane Europa di Firenze, «divorassero Kerouac», agli incontri a Roma, nella primavera del ’68, che la Giovane Italia organizzava sulla beat generation e con Adalberto Baldoni. Approcci a volte anche diversi (e opposti): se, da destra, un giovane Fausto Gianfranceschi difendeva i personaggi di Kerouac – «rispondono a una precisa logica che li conduce da una reazione di carattere sociale alla ricerca delle vie dello spirito» – da sinistra l’accusa era quasi sempre la stessa che veniva rivolta a Charles Bukowski, altro grande irregolare ante-beat. I loro personaggi rifiutavano l’inquadramento e l'irreggimentazione ideologica. Non avevano certezze dogmatiche ma, imperdonabili renitenti, coltivavano il dubbio. Stroncature senza appello, pertanto. Sull'italiano Agenda Rossa, per citare un esempio nostrano, liquidarono Kerouac come «pessimo scrittore, mediocre filosofo e politico qualunque».
Un clima testimoniato autorevolmente dalle parole della compianta Fernanda Pivano: «In quegli anni era molto chiara l’ostilità della sinistra italiana verso autori come Kerouac. Io sono stata anche licenziata come consulente della Mondadori perché facevo pubblicare quegli autori beat sgraditi all’élite intellettuale di sinistra». Del resto non potevano piacergli quei personaggi che la Pivano descrive così nella prefazione alla prima edizione italiana di On the road: «Costretti a vivere in una società anonima nella quale non riescono a credere, la sfuggono creandosi una società autonoma e vivono in piccole bande più o meno segrete secondo un codice primordiale basato sull’inviolabilità dell’amicizia». No, proprio non potevano piacere quei ragazzi che per maestri si erano scelti Céline, Fante e Pound, autore sempre caro alla beat generation. «Pound era un buon diavolo, anzi, il mio poeta preferito», fa dire Kerouac a Japhy, uno dei protagonisti dei Vagabondi del Dharma. E durante la campagna presidenziale del 1952 che vide la vittoria di Eisenhower, i beatnik arrivarono addirittura a scrivere «Ez for Pres» - ossia «Ezra Pound come presidente» - sulla cinta esterna del St. Elizabeth’s Hospital, il manicomio dove il grande poeta era recluso da sette anni per collaborazionismo. E lo stesso Kerouac aveva, da autentico libertario qual era, un rifiuto spontaneo per l'ideologia di sinistra. Lo confermerà anche Peter Orlovsky: «Entrammo in politica e Allen Ginsberg e io stavamo con la sinistra e lui con la destra». Fece suo il motto “Right or wrong, it’s my country”. Giusto o sbagliato, è il mio paese. Sino a difendere paradossalmente lo stesso intervento in Vietnam. Posizione che Kerouac confermerà anche nel ’66 a Roma in occasione della presentazione del suo romanzo Big Sur. Perché lui amava l’America anche se la chiamava “fellaheen”, prendendo a prestito la parola che uno storico tedesco da lui particolarmente amato, Spengler, aveva usato per definire il sottoproletariato del mondo. E malgrado fosse di origini franco-canadesi, a differenza degli altri esponenti della beat generation, si mostrerà riluttante a lasciare gli States per l’Europa e rifuggirà con ostinazione da una vita fatta di vagabondaggi e ristrettezze. La sua era la speranza in un’America nuova, libera dalla morsa del conformismo. E il suo viaggio assume il valore di una ricerca cavalleresca che sembra richiamarsi allo spirito dei primi pionieri americani che si spingevano coraggiosamente verso est, al mito della frontiera che sarà consacrato da una pellicola cult come Easy Rider.
Fino a quel 21 ottobre del 1969, quando se ne andò nel più banale dei modi, consumandosi davanti alla tv, imbottito di successo e di birra. Perché di viaggiare si era stancato. Non come l’amico Neal Cassady, che gli aveva ispirato il personaggio di Dean Moriarty, co-protagonista di On the road. Autentico vagabondo, Neal era già morto l’anno precedente. Da outsider. Il suo corpo ritrovato vicino ai binari di una ferrovia. Jeans e maglietta, alcool e barbiturici. Fine dei giochi. Fine delle illusioni. A distanza di tanti anni, a resistere all’oblio del tempo è soprattutto il mito di Sal Paradiso (alter ego di Kerouac in On the road) che, c’è da giurarsi, sarà alimentato ulteriormente dalla prossima uscita nelle sale del film tratto proprio dal libro e prodotto da Francis Ford Coppola, da anni titolare dei diritti, al quale, stando alle indiscrezioni, starebbe lavorando Walter Salles, già regista di Central do Brasil e I diari della motocicletta ispirato, guarda caso, al viaggio di un altro grande irregolare: Che Guevara.