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Il posto fisso e i fessi

di Antonio Serena - 26/10/2009


Finita l’era delle ideologie, la politica è ormai niente più che un circo ambulante dove ogni attore cerca di dare il meglio di sé con grida scomposte e funamboliche esibizioni. L’ultima arriva da Giulio Tremonti. Il nostro, come noto, nei giorni scorsi ha rilasciato ai giornali la seguente dichiarazione: “La variabilità del posto di lavoro, l’incertezza, la mutabilità per alcuni sono un valore in sé, per me onestamente no. Non credo che la mobilità di per sé sia un valore, penso che in strutture sociali come la nostra il posto fisso è la base su cui organizzare il tuo progetto di vita e di famiglia”. E ancora: “Negli Stati Uniti i fondi pensione dipendono da Wall Street, e se le cose vanno male ti ritrovi a mangiare kit kat in una roulotte e neghi la scuola ai tuoi figli”. Andando oltre, ha poi citato un passaggio della Costituzione che recita che “la Repubblica tutela e regola il risparmio e favorisce l’accesso alla proprietà dell’azionariato popolare dei grandi complessi produttivi del Paese”. Norma che, sempre secondo Tremonti, non è stata pienamente applicata in quanto “c’è stata una rotazione rispetto ai principi formulati allora che ha portato ad un grande favore per i titoli di debito sfavorendo quelli di proprietà”, effetto che ha portato al “controllo del sistema bancario sulla grande proprietà industriale”.
Parole sante che approviamo pienamente. D’altronde gli equivoci nati sulla differenza tra “posto fisso” e  “posto precario” sono solo una creazione dell’immaginario popolare, secondo cui, per gli uni,  lo statale è un parassita che non ha voglia di lavorare ed è solo  l’imprenditore a tirare la carretta; per gli altri, lo statale è l’unico a pagare le tasse e l’imprenditore il solo ad evadere.
Posto fisso, secondo noi, dovrebbe invece equivalere a certezza del lavoro, stabilità economica, sicurezza per tutti in una società, è ovvio, dove tutti paghino equamente le tasse e facciano onestamente il proprio lavoro. Magari, per maggiore garanzia, in imprese societarie che prevedano la condivisione degli utili e delle perdite tra datori di lavoro e dipendenti. Un’idea che fino a ieri era bollata come corporativa e fascista e che oggi perfino l’ex socialista  ministro Sacconi ha riscoperto.
Tremonti ha dunque perfettamente ragione a difendere la filosofia della certezza del lavoro e se Confindustria  non è d’accordo è solo perché non sente come suo il problema della perdita di lavoro di milioni di persone.
Quel che invece stona in questo ennesimo bailamme è che a fare queste affermazioni sia la stessa persona che firmò i famosi decreti dei “100 giorni” che hanno permesso la nascita nella scuola di classi di 30/40 alunni e che ha messo sulla strada migliaia di insegnanti. Non solo: l’uomo politico in questione è anche una delle colonne portanti di un governo che, salvo qualche parola scappata di bocca (il “virus americano” di Berlusconi relativo ai mutui subprime), è integrato a pieno titolo nel sistema atlantico e americano che, da sempre, marcia in senso diametralmente opposto a queste concezioni economiche.
Dobbiamo credere ad un ripensamento del liberal-liberismo fin qui seguito dai nostri governanti o, addirittura, ad un qualche sganciamento dal carro (funebre) atlantista? Siamo più propensi a credere che si sia trattato di uno sketch, di una delle tante sceneggiate alla Vanna Marchi buone a conquistar consensi: unico lavoro in cui  gli esponenti delle cosiddette destra e sinistra eccellono.