Nonostante la democrazia rappresentativa sia l’orgoglio dell’Occidente, il presunto contenuto della sua “missione” nel mondo, la giustificazione per uniformare le tante società umane che lo abitano alle proprie convenienze, non si può non vedere – a meno di tapparsi volontariamente gli occhi (o proprio di non averne, in termini di informazione e coscienza politica) – che le istituzioni e le sedi in cui si decidono oggi le questioni realmente rilevanti per la vita dei popoli – a cominciare dall’economia – non sono organi, consigli o assemblee eletti democraticamente.

La Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, il WTO, la stessa ONU, per partire dalle più ufficiali, ma i vari G20, G8, G7, fino a ridursi presto, come molti osservatori prevedono, ad un semplice G2 USA-Cina quanto a chi davvero conta. E la NATO, le varie intelligence agencies statunitensi e non solo, ed i consigli di amministrazione delle grandi banche d’affari e delle corporations multinazionali, veri padroni del mondo attuale, fino al gruppo Bilderberg, per passare dai versanti più oscuri. E le visite semiprivate tra capi di Stato, per arrivare allo spicciolo, come in questi giorni Berlusconi che va da Putin per discutere accordi internazionali tra una partita di caccia e l’altra o altre visite analoghe in ville private o incontri tra il formale e l’informale, bi o plurilaterali sui quali ben poco è dato di sapere da parte dell’opinione pubblica. Sono tutti esempi di come le grandi questioni del nostro tempo, le scelte rispetto alle quali daranno forma alle nostre vite ed a quelle dei nostri figli, non vengano prese nè discusse secondo la volontà popolare, nemmeno mediata dalla rappresentanza attraverso elezioni o attraverso più gradi di rappresentanza come nel caso di elezioni in cui il voto (attivo e passivo) venisse riservato ad eletti - ma alla luce del sole.

All’uomo della strada, al cittadino (non parliamo dell’essere umano puro e semplice in quanto tale perché questo non è mai stato sufficiente) non resta che il teatrino massmediatico della politica: tanto ormai ridotto solo ad una delle varianti dell’offerta disponibile di entertainment che (ad esempio) la Pivetti è potuta agevolmente passare da Presidente della Camera dei Deputati a presentatrice televisiva spostandosi all’interno dello stesso mondo dello spettacolo non diversamente da come un impiegato statale può passare da un ministero ad un altro.

Se oggi siamo in perpetuo clima da campagna elettorale non è perché la passione politica è più alta rispetto a qualche decennio fa e neppure perché oggi sia maggiore la possibilità da parte della massa dell’elettorato (magari grazie ad internet o altre nuove tecnologie) di partecipare a decisioni epocali alle quali prima non aveva accesso. Al contrario: oggi la tensione dello spettacolo deve essere tenuta alta per mantenere vivo l’interesse e l’attenzione, i toni si accentuano e vengono tenuti regolarmente sopra le righe per evitare la bancarotta al botteghino ovvero che allo spettacolo non si presenti più nessuno ovvero che la gente non vada a votare, non creda più alle promesse e le giustificazioni di questo sistema e cominci a sviluppare un’estraneità ed una lontananza che non si sa a cosa potrebbe portare (ma certo non a continuare a credere nè alle marionette, nè ai burrattinai e nemmeno alla rappresentazione). Non c’è bisogno di sottolineare, credo, quanto questa eventualità sarebbe pericolosa per l’intero sistema basato com’è sul consenso che viene dato essenzialmente sul piano economico (con i consumi) più che su quello politico, ma che di un contesto politico (e soprattutto culturale) “democratico”, liberale e pluralista ha bisogno per non rischiare la caduta di un ottimismo indispensabile alla buona salute del mercato; ottimismo che sarebbe duramente colpito da un clima politico repressivo e totalitario.

Uno Stato autoritario sarebbe inaccettabilmente impopolare ed è ben difficile immaginare oggi di tornare a sistemi totalitari come quelli sostenuti dall’irrigidimento ideologico dei primi tre quarti del secolo scorso. Certo non valgono più gli alti ideali di missioni civilizzatrici e Sol dell’Avvenire da imporre ad altri, né superiorità etniche o da elezione divina – non, almeno, quando si va oltre le chiacchiere, oltre le parole altisonanti e giunge il momento di rischiare la pelle, perché da noi, per fortuna, l’ “armiamoci e partite” non funziona più tanto. L’unica cosa che ormai – rimanendo nell’opulento Occidente – può essere (ed è) sfruttata per giustificare e rendere accettabile l’esercizio della violenza legalizzata ed una certa limitazione delle libertà dei cittadini da parte dello Stato è la paura. La paura di un qualche totale estraneo - ad esempio un’organizzazione armata di fondamentalisti islamici o una massa di poveri che arrivano a (ri)prendersi una parte di ricchezza ma volendosi tenere pure la loro cultura fanno bene al caso nostro – che si affaccia minaccioso dal buio della sua alterità (“ic sunt leones”) per toglierci il nostro esclusivo benessere.

I motivi di minaccia costanti – una sorta di cronica situazione d’emergenza – ben giustificano, agli occhi di molti, che nel democratico Occidente, le decisioni che veramente contano e le sedi in cui queste vengono prese (e da chi?) vadano progressivamente sottraendosi al controllo (e anche alla mèra informazione) da parte dell’opinione pubblica ovvero dell’elettorato ovvero del popolo che dovrebbe essere in teoria sovrano in uno Stato di diritto – secondo quanto andiamo ad insegnare al resto del mondo.

D’altra parte – e non dico per scherzo – bisogna pure capirli questi potenti che vogliono discutere (e sperabilmente riuscire ad accordarsi) sulle grandi questioni senza essere sotto gli occhi del grande pubblico: non si può dire che in questo siano privi di qualsiasi ragione. I meccanismi che reggono il sistema mondiale attuale sono così enormi e così complessi che sfuggono inevitabilmente alla consapevolezza e alla capacità di giudizio (probabilmente degli stessi governanti – che sono al corrente anche di molti segreti – ma figuriamoci) delle persone comuni (che – anche se appartenenti alla minoranza più informata e consapevole – molte cose non le possono comunque sapere). Non viviamo in una società o in un sistema semplice, non che possa essere dominato nella comprensione da parte di persone mediamente istruite né di esperti specialisti in solo qualcuno dei molteplici segmenti che descrivono la realtà e, per giunta, abbiamo tra le mani strumenti e meccanismi potentissimi che già usiamo senza poterne conoscere le implicazioni e gli effetti a lungo termine. Potremmo anche dire, semplicemente, che non viviamo in un sistema a misura d’uomo. E meno che mai a misura di “uomo comune”. Un sistema per il quale l’autentica democrazia si trasforma piuttosto in un ideale che si avvolge sempre più nelle vesti del sogno, non si sa se un sogno del passato o del futuro, ma oggi soprattutto uno di quei “grandi valori” di cui i politici si riempiono la bocca, ma, nei fatti, una pretesa, una velleità inadeguata ai tempi – sebbene venga spacciata come una realtà presente.

Intendiamoci: non sto affermando che viviamo in una dittatura magari occulta, né che gli ordinamenti politici dei sistemi occidentali e di molti altri non siano di tipo democratico. Senza dubbio possiamo votare (probabilmente chi è stato selezionato dai partiti per i quali “il voto non è sprecato”) e possiamo pure (se abbiamo i mezzi economici ed i contatti giusti per farlo senza che ciò sia uno sforzo destinato per certo a cadere nel vuoto) costituire partiti, fondare giornali e dire quasi tutto quello che vogliamo e se riteniamo di aver subìto un sopruso possiamo rivolgerci al giudice (e sperare che la legge sia uguale per tutti – indipendetemente dalla parcella del loro avvocato). Certamente. Però ciò che voglio dire è che questi poteri democratici che possiamo esercitare non toccano le grandi questioni del nostro tempo e che queste grandi questioni sono - molto più che le varie diatribe di opinione o di diritti formali su cui abbiamo ampia libertà di confronto ed anche di conflitto - ciò che condiziona effettivamente e molto concretamente le nostre vite e altrettanto (se non più) farà con quelle dei nostri figli.

In epoche precedenti, le gesta di re ed eserciti, l’esito delle loro guerre erano “grandi” avvenimenti dei quali solo una vaga eco arrivava alle piccole comunità locali. Oggi, la nostra vita, procede seguendo meccanismi che partono da centri di potere che stanno molto oltre la portata della nostra “sovranità democratica”, luoghi sui quali anche i nostri eletti possono ben poco – seppure volessero agire.

D’altra parte siamo noi stessi ad alimentare e sostenere tali meccanismi, ma soprattutto in modo inconsapevole, in modo non-politico, attraverso (non)scelte che torniamo a ripetere quotidianamente, attraverso innovazioni a cui di anno in anno ci adattiamo (talvolta pure con iniziale entusiasmo) e che – in tempi sorprendentemente brevi - ci abituiamo ad accettare come una irrinunciabile necessaria normalità subito superata da nuove innovazioni.

Questa inconsapevole accettazione, la (non)scelta di questo adeguamento silenzioso, ma progressivo e costante, ci lega sempre più a multiplo filo ai meccanismi dell’economia e di una cultura-non-cultura mediatica e commerciale globale rispetto alla quale il potere della nostra sovranità e partecipazione democratica può – nella migliore delle ipotesi – qualcosa solo quanto a singoli dettagli dell’apparenza, ma non della sostanza.

Per chi ha a cuore la democrazia e la partecipazione paritaria popolare nell’autodeterminazione di ogni paese sovrano come un elemento di autentico progresso fra le tante cose che la Modernità ha spacciato come tali, una profonda riflessione è all’ordine del giorno su cosa significa oggi democrazia e in che contesto questa sia la forma di governo più appropriata, possibile e praticabile, in che condizioni minime questa sia da considerarsi effettiva o solo formale.

Il punto centrale è che non è l’essere umano che deve farsi a misura di un sistema, ma è il sistema che deve essere a misura d’uomo. E che, siccome l’essere umano è limitato, non qualsiasi sistema e non sistemi di qualsiasi dimensione possono essere “a misura d’uomo”.

L’evoluzione del capitale – a partire da una realtà in cui la comunità locale era ancora il centro della realtà - ha trascinato la massa della gente nei suoi meccanismi, trasformandola prima in classe operaia e via via fino ad oggi essenzialmente in consumatori che (collateralmente) devono essere in parte anche produttori secondo necessità.

Ciò che rende questionabile quanto spazio reale ci sia oggi per una vera sovranità popolare (demos-kratos) non va visto solo (dal basso verso l’alto) in termini di fino a quali livelli decisionali i potenti siano al posto che occupano in seguito ad elezioni democratiche (il che è già molto problematico), ma anche (dall’alto verso il basso) in termini di quanto meccanismi immensi, globali, impersonali, spesso fuori controllo per chiunque e certamente molto al di là della portata anche solo di comprensione della generalità delle persone, diano oggi forma in modo diretto e sostanziale alle loro vite.

In altre parole, se una volta potevamo decidere poco delle questioni inerenti la politica nazionale, ma anche le decisioni in merito a questo ci toccavano in realtà solo limitatamente, oggi possiamo decidere nulla degli immensi movimenti dei capitali finanziari globali – e spesso neppure ne siamo a conoscenza né avremmo gli elementi per spiegarceli – ma siamo immediatamente colpiti dalle conseguenze di tali movimenti.

In altre parole, ciò che restringe gli spazi di autentica democrazia nelle nostre società non è solo quanto poco il meccanismo rappresentativo arrivi a far valere la sovranità popolare (almeno della maggioranza, magari relativa – e senza entrare qui nel merito di come si fa a formare questa maggioranza) sulle sedi in cui si fanno le scelte più decisive, ma anche quanto meccanismi sui quali non possiamo avere alcun controllo abbiano effetti sostanziali su tutti noi nella vita di ogni giorno. Da un lato vediamo fino a dove il sistema può permettere (o comunque permette) alla democrazia di arrivare, ma dall’altro dobbiamo anche vedere fino a dove permettiamo noi alla non-democrazia di occupare spazio nelle nostre vite ovvero quanto noi leghiamo queste a meccanismi la cui ragion d’essere non è quella di perseguire il bene collettivo, ma il profitto privato e che per loro natura non possono essere democratici in quanto necessariamente sfuggono al controllo e perfino alla comprensione della gente comune (e forse non solo a questa) e pertanto alla sovranità popolare.

Questo secondo lato della questione è cruciale perché, se per il primo bisognerebbe prima capire quale potrebbe essere il sistema politico ed elettorale migliore nelle condizioni attuali e poi realizzarlo attraverso una serie di riforme a livello sia nazionale che internazionale, vedendo le cose sotto il secondo aspetto ci è possibile – molto democraticamente (tipo, una testa un voto) – partire da noi stessi. Va anche aggiunto che queste riforme andrebbero fatte dagli stessi politici che si sono finora avvantaggiati degli ordinamenti da superare e che è tutto da vedere quanto interesse abbiano a farlo. Ma, ancor peggio, oltre a ciò bisognerebbe coinvolgere in tale ristrutturazione democratica anche le centrali decisionali – che sono in ultima analisi private - dell’economia e della finanza mondiale (sulla qual cosa è sufficiente dire che sarebbe impossibile senza dilungarcisi troppo).

Io credo che se vogliamo la democrazia dobbiamo in primo luogo “abitare” una dimensione che garantisca un “ambiente vitale” adatto ad essa. Ovvero dovremmo far sì che di fatto ancor prima che di diritto le cose strutturalmente (e quindi in primo luogo economicamente) portanti nella nostra vita si svolgano (quindi si producano, circolino e si consumino) all’interno di ambiti che siano alla nostra portata come comunità locali sia in termini geografici che di complessità di sistema.

Riconvertire l’economia e la società a queste dimensioni gestibili e controllabili in cui sia possibile la verifica diretta dell’operato degli eletti (e magari anche la loro conoscenza personale) è qualcosa che può gradualmente essere attuato da ognuno di noi riconvertendo il proprio stile di vita e la propria economia personale/familiare.

Non è necessario per questo che la società si disgreghi e si atomizzi o che si sprofondi in un oscuro “medioevo” di microtribù chiuse e reciprocamente sospettose in potenziali faide croniche ed endemiche (e chissà poi se il medioevo è stato davvero così?). Non discende necessariamente da questo che debbano scomparire istituzioni di portata nazionale ed internazionale e perfino mondiali, né che ci si debba disinteressare se queste abbiano un ordinamento relativamente democratico o meno.

Il punto è radicalmente un altro (e può anche procedere parallelamente con l’interesse per un piano più propriamente tecnico-politico che si occupi delle possibili riforme: le due cose non sono necessariamente in antitesi). Ed è: quanto le questioni gestibili solo dall’alto pesano in concreto sulla nostra vita ovvero quanto questa è o meno legata strettamente ai sistemi globalizzati ed a strutture e tecnologie ingestibili a livello locale. Questo è il punto e sta in ultima analisi a noi lasciare più o meno spazio nelle nostre vite a forze che non possiamo controllare, sta a noi scegliere quanto essere o meno dipendenti da queste.

E’ chiaro che, se vogliamo affrontare la sostanza della questione, si tratta di farlo in primo luogo sul piano strutturale ovvero economico, nel senso di quello dal quale produciamo la nostra sussistenza, realizziamo una forma di interazione con l’ambiente, affiniamo un determinato tipo di tecnologia funzionale, organizziamo interazioni sociali e quindi un modello di società e concepiamo un senso in tutto ciò creando così una cultura. Ma è solo a partire dal livello di base che la costruzione di una diversa realtà può prodursi - mentre è una comoda illusione utile al sistema l’idea di poter fare il percorso inverso.

E non è necessario che l’apparato politico-istituzionale che sta al di sopra di questa realtà nascente debba essere abbattuto. Ripeto: il punto non è l’esistenza di centri di potere sia politici che economici in grado di stabilire le loro regole, ma quanto bisogno abbiano (o credano di avere) le persone di adeguarvisi ovvero di inserirsi nelle strutture che secondo quelle regole (e solo secondo quelle) debbono/possono funzionare.
E’ chiaro dunque che la questione centrale diventa da un lato il contesto locale (che implica altrettanto una concezione non usa-e-getta dell’interazione con l’ambiente specifico in cui ci si trova, dunque una prospettiva di durata e sostenibilità) e, dall’altro, la via maestra del “piccolo è bello”, delle attività economico-produttive su piccola scala, del basso impatto ambientale, del riciclo, dell’artigianato e soprattutto dell’autoproduzione contadina.

Comunità locali che si riformassero a partire da un numero sufficiente di persone che riconvertissero le proprie vite/economie secondo un tale modello creerebbero naturalmente un contesto socio-politico che potrebbe essere gestito in modo genuinamente democratico per il fatto stesso delle sue dimensioni e della sua struttura interna – al di là di quale sistema elettorale- decisionale venisse adottato dal punto di vista tecnico. E, seppure molte decisioni rimarrebbero nelle mani di istituzioni più grandi, così come la gestione dei sistemi che superano necessariamente l’ambito locale, il baricentro del sistema verrebbe a trovarsi alla base (che, alle strette, potrebbe anche sopravvivere e funzionare abbastanza bene senza tutto il resto) anziché, come avviene adesso, ad un vertice dalla posizione poco collocabile a cui tutto sembra essere appeso, sospeso su un futuro sul quale non abbiamo nessun controllo in un presente in cui ci illudiamo di averlo.