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Perché siamo indebitati fino al collo?

di Tonino Bucci - 02/11/2009

  
 
Altro che fallimento, le banche hanno vinto. "Capitalismo parassitario", del sociologo Zygmunt Bauman

La formula della felicità è un codice numerico. Quello del bancomat. Immateriale e volatile, come una strisciata di carta di credito nel lettore elettronico. Il denaro sembra sparito, e con esso gli ultimi residui di realtà tangibile, il fruscio delle banconote, il tintinnio metallico delle monete. Se già ai tempi del vecchio Marx i soldi dovevano apparire come una specie di miracolo eucaristico, l'equivalente generale, astratto di ogni merce possibile immaginabile, cosa mai si dovrebbe dire oggi che è possibile acquistare un'automobile su ebay con un semplice clic del mouse? Una semplice pressione su un tasto e automaticamente l'ammontare della spesa è addebitata sul conto corrente.
La rivoluzione del credito è silenziosa, avvolgente. Il denaro a prestito, elargito generosamente dalle banche attraverso una pletora di espedienti, ha cambiato stili di vita e di consumo e ha persino sovvertito la maniera di rapportarci al desiderio. Nel giro di una generazione il consumo per indebitamento ha trasformato in un flebile ricordo la perseveranza del risparmio, la procrastinazione di un desiderio, il sacrificio cui piegarsi nel presente in attesa d'una gratificazione futura.

Ce lo spiega, con un pizzico d'ironia, Zygmunt Bauman, sociologo in genere attentissimo ai nessi tra l'economia e la cultura che impregna il nostro modo di vivere. «Ai vecchi tempi, tempi ormai per fortuna passati e dimenticati - scrive Bauman in Capitalismo parassitario (Laterza, pp. 76, euro Cool - bisognava rinviare le gratificazioni (questo rinvio, secondo Max Weber, uno dei padri della sociologia moderna, fu il principio che rese possibile l'avvento del capitalismo moderno): stringere la cinghia, negarsi altre gioie, spendere con prudenza e frugalità e mettere da parte le somme così risparmiate in un libretto di risparmio, sperando che con la dovuta cura e pazienza si sarebbe riusciti a raccogliere abbastanza da tradurre i sogni in realtà. Grazie a Dio e alla benevolenza delle banche, ora non più! Con una carta di credito, si può invertire l'ordine dei fattori: godersela adesso e pagare dopo! La carta di credito rende liberi di gestire le gratificazioni, di ottenere le cose quando si vogliono, non quando le guadagneremo e potremo permettercele». Take the waiting out of wanting (Togliete l'attesa dal desiderio) recitava lo slogan che pubblicizzava le prime carte di credito.

Finora, a onor del vero, le critiche al consumismo non hanno mai attecchito nella mentalità comune, piuttosto hanno sortito l'effetto di predicozzi, di sfoghi moralistici, di impeti nostalgici per i bei tempi andati. Ma forse si è trattato di un travisamento colossale che ha indotto a confondere col moralismo la critica a un modo attuale di produzione economica che per espandersi ha bisogno di sostenere una domanda continua di consumo, a costo di creare un'umanità di indebitati. Travisato fu pure Berlinguer quando criticò l'economia fondata su bisogni indotti artificialmente: quella tesi, trent'anni fa, fu letta non come una profezia, ma come il segno di una mentalità anacronistica, di un'ostinazione vecchio stampo a non voler riconoscere i nuovi desideri delle giovani generazioni...

Ma, appunto, è del presente che si parla, di un capitalismo capace di "colonizzare" i nostri desideri, di far leva su di essi, di sollevarci dall'ingombro della realtà che si frappone tra noi e la gratificazione delle nostre aspettative. In che modo? C'è solo una via: generalizzare il debito, fare di ogni consumatore un debitore. Ma, attenzione, non un debitore virtuoso, scrupoloso e in grado di restituire il denaro preso a prestito. Perché il sistema funzioni il debito contratto deve essere trasformato in «un'attività redditizia permanente». «L'assenza di debiti non è lo stato ideale». Le banche si presentano nelle pubblicità col volto ammiccante di creditori benevoli. «Non rivogliamo indietro i nostri soldi; anzi, vi offramo di prenderne in prestito altri ancora per ripagare il vecchio debito e restare con qualche soldo (cioè qualche debito) in più per pagarvi nuove gioie. Noi siamo le banche che amano dire "sì". Le tue banche amiche. Banche "che sorridono", come dichiarava uno degli slogan pubblicitari più ingegnosi». Finanziarie, istituti di credito, banche: è una gigantesca industria del credito che, come un parassita appunto, trae profitto dai nostri debiti. Il loro peggior incubo - se non si fosse capito - è il cliente che restituisce prontamente il denaro preso in prestito. Il debitore "ideale" è quello che non ripaga mai interamente il proprio debito. Cos'altro sono stati i famigerati mutui subprime se non l'espediente per trasformare persone che mai avrebbero potuto comprarsi una casa in poveri disgraziati indebitati fino al collo per tutta la vita? E su che cosa le banche hanno accumulato profitti se non sugli interessi che i debitori sono stati costretti a pagare regolarmente senza mai poter avere la chance concreta di ripianare del tutto il debito? Gli individui che hanno un libretto di risparmio ma nessuna carta dicredito - scrive ancora Bauman - «sono "terre vergini" che invocano di essere sfruttate con profitto. Una volta messe a coltura (cioè una volta fatte entrare nel gioco del prestito) non deve mai essere consentito loro di uscire dal gioco, di essere "messe a maggese"». Perché mai altrimenti si dovrebbe pagare una penale nel caso uno voglia rifondere il mutuo prima della scadenza?
E' bene sgombrare il campo da ogni illusione. La crisi finanziaria non è affatto il segno che le banche hanno perso. «L'odierna stretta creditizia non è il risultato dell'insuccesso delle banche. Al contrario, è il frutto, pienamente previdibile anche se in gran parte non previsto, del loro straordinario successo. Successo nel trasformare un'enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una razza di debitori. Hanno ottenuto quello che volevano ottenere: la razza di debitori eterna».

C'è pure chi, facile preda d'entusiasmi, ha visto nell'elargizione di denaro pubblico alle banche, un accenno di nazionalizzazione in grembo allo Stato. Anche qui, bando alle illusioni. Le copiose iniezioni di soldi dei contribuenti hanno un solo obiettivo: ricapitalizzare le banche e metterle in condizione di tornare a svolgere l'attività di prima, prestare denaro e produrre in serie una schiera di indebitati. Per il momento, visto che i debitori non sono oggi in grado di pagare regolarmente gli interessi sull'orgia consumistica indotta dalle banche, sono costretti a farlo attraverso le tasse che versano allo Stato. Il welfare dei ricchi - per dirla con le parole di Bauman - ha sostituito lo stato sociale di una volta. Un tempo, per assicurare la rimercificazione del lavoro, c'era bisogno di manodopera nutrita, in salute e istruita. Oggi lo Stato fa il "capitalista" in un altro modo: deve garantire il credito, cioè trasferire risorse pubbliche nelle casse delle banche perché queste siano in condizioni di concedere prestiti. Tutto come prima. Come nel racconto-inchiesta di un giovanissimo scrittore, Gianluigi Ricuperati, autore di La tua vita in 30 comode rate. Viaggio nell'Italia che vive a credito (Laterza, pp. 136, euro 10). Narra di un quartiere di Torino - ma potrebbe essere qualunque altro luogo: un microcosmo nel quale vive un'umanità che chiede e presta denaro, che non sa e non vuole rinunciare all'illusione del lusso e si offre in pasto alla divinità del nostro tempo. Il dio del credito dalla «natura prodiga e gentilissima».