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Il genocidio di Srebrenica. Un falso

di Frabrizio Fiorini - 02/11/2009

La NATO doveva ormai servire da arma di stabilizzazione della democrazia nel mondo. In altre parole, serviva a promuovere l’economia globale e dare al mondo la libertà di bere Coca-Cola. Quattro delle sei repubbliche costitutive della ex Jugoslavia hanno accettato questa transizione immediata verso la democrazia. La Serbia l’ha rifiutata e ha pagato il prezzo di questo rifiuto. Effettivamente, tutti nella ex Jugoslavia ne hanno pagato il prezzo, e Srebrenica ha fatto parte di questo prezzo.

Philip Corwin

 

radovan-karadzic_fondo magazineE’ notizia di questi giorni la ripresa, presso il Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia, del processo che vede come imputato l’ex Presidente della Repubblica Serba di Bosnia Radovan Karadžić, sorprendentemente ancora in vita nonostante la reclusione nel carcere dell’Aia. Le accuse mosse al Presidente, riconducibili sostanzialmente al fatto di essere il mandante e l’ispiratore di tutti i crimini di guerra commessi nel suo Paese, naufragherebbero e sarebbero smontate in pochi giorni se ci si trovasse in presenza di una Corte improntata alla ricerca della giustizia e alla imparzialità, doti per cui non brilla il norimberghiano tribunale olandese. Non mancano certo infatti le prove a sua discolpa, così come non mancano le prove a discolpa della nazione serba, relegata dalla c.d. “comunità internazionale” al ruolo di paria d’Europa attraverso l’attribuzione esclusiva del ruolo di  aggressori nel corso delle guerre balcaniche di fine Novecento e attraverso l’imputazione di crimini la cui possibilità probatoria è quanto meno dubbia.

Sono passati ormai quasi tre anni dalla pubblicazione di un volume curato da Ivana Kerečki intitolato Il dossier nascosto del ‘genocidio’ di Srebrenica (ed. La Città del Sole, Napoli, pagg. 175, € 12) in cui quello che è stato definito il maggior eccidio di massa che ha avuto luogo sul suolo d’Europa a partire dal 1945 viene analiticamente e storicamente indagato e revisionato e in cui viene smontata pezzo per pezzo la tesi della pulizia etnica programmata e pianificata messa in atto dai serbi in tale frangente. Tale studio riveste una duplice importanza: non solo per il ripristino della verità storica su un evento in cui hanno oggettivamente perso la vita numerose persone (civili, tra l’altro) ma anche perché i fatti di Srebrenica sono assurti, nel corso degli anni, a una sorta di catarsi collettiva per tutti i popoli balcanici, serbi a parte, che hanno avuto modo così di giustificare moralmente ogni sorta di nefandezza commessa, spesso ai danni dei serbi stessi. Non solo: l’eccidio di Srebrenica è servito, fuori dai Balcani, alla propaganda delle potenze occidentali in generale e degli Stati Uniti in particolare, per costituire un valido retroterra emotivo all’aggressione che di lì a poco avrebbero sferrato contro Belgrado. Indicativo il fatto che sia spesso accostato all’olocausto, in risposta e conseguenza al quale tutto è lecito: anche uccidere, anche imprigionare un uomo perché ha pensato.

Il dossier si compone di quattro parti fondamentali: la prima analizza parte dell’operato del Srebrenica Research Group, un gruppo indipendente di personalità anglosassoni tra cui l’alto responsabile delle Nazioni Unite Philip Corwin, che si trovava in Bosnia-Erzegovina all’epoca dei fatti e che riuscì a sfuggire miracolosamente a un attentato orchestrato dalle Forze Armate del governo musulmano bosniaco proprio in ragione delle funzioni da lui svolte. Corwin ripercorre l’operato delle Nazioni Unite in Bosnia Erzegovina durante quel periodo, ponendo in evidenza il sistematico boicottaggio che nei confronti dell’ONU stessa veniva messo in atto dalle autorità della NATO; il solo personale russo, infatti, aveva le idee sufficientemente chiare su ciò che stava per accadere, nel definire la presa di Srebrenica da parte dei serbi “la sola soluzione sensata”, mentre il resto del personale era continuamente alle prese coi “bombardieri da salotto” di Washington che continuavano a premere per le incursioni aeree. Egli evidenzia come il fantastico numero di ottomila uccisi a Srebrenica (che in realtà, come vedremo, sono stati almeno dieci volte meno)  fosse scaturito solo da un calcolo politico congiunto tra il governo di Sarajevo e le potenze occidentali per poter mettere in atto le ritorsioni contro la Serbia e la Republika Srpska (RS).  Ciò che accadde nella cittadina bosniaca, secondo la lucida analisi dell’ex rappresentante ONU, fu solo il culmine di una serie di attacchi e contrattacchi che si protraevano ormai da tre anni, ma niente a che vedere con un genocidio; vengono altresì analizzate le incongruenze per cui la città, dichiarata “zona di sicurezza” disarmata, era costantemente – come altre enclavi – utilizzata dalle forze dell’esercito musulmano bosniaco e dalle bande di gangster di Naser Orić come retrovia per il lancio di attacchi contro le autorità e le forze armate serbo-bosniache circostanti: da qui la definizione, da parte del personale ONU russo, di unica “soluzione sensata”, soluzione che l’esercito serbo di Bosnia ha necessariamente messo in atto, attraverso una rapida vittoria militare che si risolse però in una drastica sconfitta politica. L’occidente aveva finalmente un casus belli. Il séguito dell’analisi è curato dal giornalista Edward Herman che pone in luce le politiche mistificatorie che hanno seguito i fatti di Srebrenica, mistificazioni poste in atto non solo da un universo giornalistico addomesticato in cui – tra l’altro – ha fatto la sua apparizione la lunga mano elargitrice del finanziere Soros. Herman ha indagato sull’origine della cifra degli ottomila giustiziati: tale inverosimile dato scaturì da un rapporto della Croce Rossa secondo cui i serbo-bosniaci avevano fatto tremila prigionieri e cinquemila persone risultavano irreperibili; non fu dato rilievo al fatto che diverse migliaia di persone si scoprì che ottennero rifugio nella Bosnia centrale e nella stessa Serbia: la Croce Rossa rispose candidamente che non poteva depennare i nomi delle persone rinvenute in vita dalla lista dei cinquemila scomparsi perché (sic!) “non ne avevano ricevuto i nomi”[1]. Herman evidenzia infine il sistematico ricorso, da parte della propaganda antiserba, alle collaudate tecniche subliminali consistenti nell’infarcire e nell’affiancare i resoconti – pur fallati – degli eventi  con ogni sorta di particolare macabro e raccapricciante[2]. Conclude il capitolo Michael Mandel, che si occupa della questione giuridica per cui l’operato dei serbi in Bosnia non possa in alcun caso qualificarsi nei termini di “genocidio” e che rileva, con amara ironia, che quando lo stesso tribunale dell’Aia ha dovuto recedere da tale accusa per carenza di prove ha poi fatto valere in sede processuale l’eresia giuridica secondo cui i serbi non avrebbero commesso determinati crimini solo per paura di essere scoperti, arrivando a sanzionare un crimine dichiaratamente non commesso solo a causa dei motivi che hanno spinto il non-reo a non commetterlo.

La seconda parte dell’opera è dedicata alle testimonianze dirette degli avvenimenti, tra cui quella del generale canadese Lewis Mac Kenzie, primo comandante delle forze ONU a Sarajevo. Questi, confermando con la sua narrazione la prassi precedentemente descritta secondo cui spesso le  forze armate del governo di Sarajevo hanno deliberatamente colpito i propri stessi cittadini al fine di favorire la reazione internazionale (leggasi: NATO) contro i serbi, racconta anche di come le richieste di incremento di truppe presentate dagli alti ufficiali ONU per la protezione di Srebrenica e delle altre enclavi furono costantemente disattese col preciso intento di assecondare i piani bosniacchi e delle bande di Orić che prevedevano la presa della città da parte serba, al fine di scatenare la rappresaglia. Circostanziata teoria ripresa dall’alto funzionario ONU Carlos Martins Branco, il quale arricchisce il dossier con le particolarità relative al ritiro e alla mancata difesa della cittadina da parte delle truppe regolari e irregolari di Sarajevo. Chiudono il capitolo una intervista al Dr. Milan Bulajić, che ci svela di come le autorità bosniache abbiano omesso lo svolgimento di un censimento obbligatorio della popolazione sia nel 1996 che nel 2001 al fine di occultare il numero reale di persone decedute a Srebrenica, e due ritratti che mettono a luce la natura sanguinaria del comandante bosniaco Naser Orić, precedentemente citato.

La terza parte del dossier prende in considerazione il rapporto redatto sui fatti di Srebrenica da una commissione speciale del governo della Republika Srpska, il Centro di documentazione della RS per l’investigazione sui crimini di guerra. I curatori dell’opera hanno tuttavia dovuto basarsi solo sulla traduzione inglese, dato che l’alto rappresentante delle Nazioni Unite in Bosnia ha vietato la diffusione della versione originale redatta in lingua serba. Tale dettagliato rapporto, arricchito con minuziosa documentazione, non solo fa chiarezza sulla situazione sul terreno in Bosnia-Erzegovina pre-1995, quindi precedentemente ai fatti di Srebrenica, ma smentisce categoricamente e contraddice le requisitorie del Tribunale penale internazionale dell’Aia. Il rapporto governativo, inoltre, pur ammettendo che sporadici episodi di giustizia privata e di vendetta sommaria possono aver avuto luogo ai danni della popolazione musulmana, evidenzia come fu proprio la presenza sul campo e la determinazione del generale Ratko Mladić a scongiurare il reiterarsi di tali circostanze. Indicativo il fatto che lo stesso alto rappresentante dell’ONU in Bosnia che ne ha vietato la diffusione del rapporto, Lord Paddy Ashdown, si è inoltre ‘premurato’ di farne redigere un secondo, da una nuova commissione alle sue dipendenze.

Quarta e ultima sezione del Dossier nascosto del “genocidio” di Srebrenica, è dedicata a un filmato, contenuto in una video cassetta opportunamente ‘rinvenuta’ in occasione del decimo anniversario dei fatti di Srebrenica. Tale film è stato presentato da tutti i mezzi di comunicazione del mondo come la prova incontrovertibile dell’eccidio di ottomila persone inermi perpetrato dai serbi nella cittadina bosniaca. Dietro questa sorta di nuovo diario di Anna Frank c’è una tale Nataša Kandić, avvocatessa serba dirigente di una delle famigerate ONG etero dirette e prezzolate dall’estero che hanno operato e operano in Serbia per piegare il Paese alla sudditanza atlantica con la trita e consumata scusante dei “diritti umani”. Il filmato mostra l’esecuzione di 6 (sei) prigionieri non meglio identificati da parte di altrettanto non meglio identificati paramilitari serbi, i c.d. “Scorpioni”. Ma niente quadra, o meglio: l’unica cosa che quadra è che tale ‘prova’ è una micidiale buffonata. Non quadra l’identificazione delle vittime, né quelle dei carnefici; non quadra l’identificazione del luogo dell’esecuzione, non quadrano decine di altri dettagli per cui rimando alla circostanziata analisi del rapporto. Però è stato presentato così, tra le lacrime dei figuranti: la prova del massacro. Mica come le “mele marce” di Abu Ghraib”.

Grande pregio di questo dossier, inoltre, sta nell’aver spazzato via, attraverso una metodologia storiografica lucida e corretta, quella che si potrebbe definire l’ “ipocrisia delle cifre”. Dunque: premettiamo che prendere una sberla o prenderne quarantacinque non sia piacevole per nessuno; comunque, se interpellassimo un campione di individui mentalmente equilibrati, verosimilmente la grande maggioranza sceglierebbe la prima ipotesi. Quando la storiografia revisionista dell’olocausto ebraico fornisce la cifra di trecentomila deceduti nei campi di prigionia del Reich in luogo dei presunti sei milioni, pone comunque l’accento della questione non tanto sulla cifra in sé, quanto sull’assenza di un deliberato piano di sterminio; anche le cifre però reclamano la loro parte nella Storia: se fosse vero, come superficialmente molti dicono, che uccidere una persona o ucciderne mille è lo stesso abominevole crimine, perché alla fine del secondo conflitto mondiale la storiografia ufficiale non ha diffuso la cifra di tre o cinque persone uccise nelle camere a gas? Avrebbero potuto dimostrarlo facilmente, e noi tutti ci avremmo creduto. Invece no, neanche diecimila o centomila: sei milioni. Analogo ragionamento è stato fatto per Srebrenica. Secondo quanto riferì il presidente bosniaco Izetbegović fu lo stesso Clinton a ‘richiedergli’ almeno cinquemila morti per scatenare la rappresaglia contro i serbi. Lo sostiene anche Philip Corwin, l’alto funzionario ONU firmatario del nostro dossier: «esiste un potere di sbalordire molto maggiore nella morte di 7000 che in quella di 700». Philip Corwin, mica Faurisson.

Concludendo, la questione è sempre la medesima. Da una parte l’estraneità ai fatti e dall’altra il “non poteva non sapere”; da una parte le deportazioni che dall’altra diventano sterminio; da una parte prove documentate e circostanziate e dall’altra storielle strappalacrime. Non è questa la sede per stabilire se la storia si ripeta; ma la metodologia della nostra addomesticata ricerca storica si, come in un estenuante, ineludibile eterno ritorno.



[1] Le grossolane falsificazioni non si fermarono qui: non venne dato rilievo neanche al fatto che i cadaveri riesumati furono complessivamente 1883 (tra cui una sola donna, alle quali – insieme coi bambini -  fu data la possibilità di mettersi in salvo), quasi tutti caduti in combattimento e tra cui molti serbi. Trovò invece largo credito l’ipotesi per cui le autorità serbo-bosniache avrebbero caricato migliaia di cadaveri su decine di camion frigorifero per poi seppellirli in luoghi segreti, in barba alla cronica carenza di carburante e senza essere mai individuati né da alcun testimone né dai droni geostazionari e né dai satelliti statunitensi che compivano otto passaggi al giorno sulla zona delle operazioni.

 

[2] Tecnica messa a punto nelle centrali CIA col nome “The Quartered Man”; vedi John Kleeves, Vecchi trucchi, Iniziative editoriali “Il Cerchio”, Rimini 1991.

 

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