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Gas, altro che diritti umani tra Russia, Europa e Stati Uniti

di Roberto Zavaglia - 06/11/2009

 

La narrazione liberale delle relazioni internazionali, attualmente in voga, predica che i rapporti tra gli Stati sono regolati da condizioni ”immateriali”. Nella sua vulgata propagandistica, ad uso del largo pubblico televisivo, questa ideologia sostiene che sia perennemente in corso una “competizione” tra il bene (che si ammette possa essere solo relativo) e il male più o meno assoluto, ovvero tra le democrazie e i regimi autoritari. I più radicali sostenitori di questa teoria invocano la  sostituzione dell’Onu, oberata dalla presenza di Stati dittatoriali, con una Lega delle democrazie che avrebbe maggiore efficienza, poiché i Paesi aderenti troverebbero una naturale sintonia grazie alle proprie istituzioni politiche superiori.
  Non occorre aderire alla vulgata opposta, secondo cui tutte le guerre “si fanno solo per il petrolio”, per comprendere come siano soprattutto gli interessi più forti e la volontà di potenza degli Stati a dare forma agli equilibri internazionali. In nessun campo, come in quello dei rapporti tra Russia ed Europa, ciò potrebbe apparire tanto chiaramente se le persone fossero adeguatamente informate. In realtà, si tratta di una partita a tre, perché vi sono coinvolti anche gli Stati Uniti che sono diventati, dal ’45 in poi, una “potenza europea”. Dopo la fine del bipolarismo, è soprattutto l’energia, in particolare il gas, di cui è ricca la Russia, il terreno sul quale avviene il confronto.
  Due grandi gasdotti in via di progettazione, che dovrebbero collegare la Russia all’Europa, sono la materia più incandescente del contendere. Si tratta del North Stream, che grazie ai tubi posati sul fondo del Mar Baltico, porterebbe il gas russo direttamente in Germania e del South Stream che, attraverso il Mar Nero, aprirebbe un’altra via da Sud. Il recente assenso di Danimarca e Turchia a concedere la disponibilità delle proprie acque territoriali ha dato ulteriore impulso ai due mastodontici progetti. L’interesse primario della Russia è quello di saltare il passaggio attraverso Stati considerati più o meno ostili, come quelli baltici, la Polonia e l’Ucraina. Questa necessità, per Mosca, è sorta con il crollo dell’Unione Sovietica, al tempo della quale i gasdotti passavano attraverso i Paesi dell’impero interno e di quello esterno. Gli Stati che li ospitavano ricevevano in cambio un prezzo politico di estremo favore per il gas acquistato, che la Russia ora non vuole più concedere.
  Si ricorderà come, in seguito alla cosiddetta rivoluzione arancione in Ucraina, finanziata da istituiti dipendenti da Washington, si verificò la “crisi del gas” che lasciò al freddo, per un certo tempo, Kiev e gli altri centri del Paese. Yulia Tymoshenko, oggi a capo del governo ucraino, sta cercando di migliorare i rapporti con il Cremlino, ma la situazione è ancora incerta a causa dell’instabilità del suo Paese. E’ comprensibile che Mosca non voglia più sottostare ai ricatti di Stati che hanno aderito, o intendono farlo, a un’organizzazione militare come la Nato, sorta per contrastare l’Unione Sovietica, e pretenda di applicare tariffe di mercato. La Russia accusa l’Ucraina di averle sottratto, dal giorno della sua indipendenza, alcune decine di miliardi di euri tra gas trafugato, non pagato o ottenuto a prezzi troppo bassi. In ogni caso, che il gas russo arrivi direttamente, evitando  interruzioni causate da nuove crisi politiche, è interesse anche dell’Europa.
  Ad essere contrario a questo nuovo scenario è, invece, il terzo incomodo statunitense. Dagli Usa giungono di continuo “avvertimenti” all’Europa sul pericolo di una troppo stretta dipendenza energetica dalla Russia. Washington sponsorizza caldamente un progetto alternativo a South Stream, denominato Nabucco. Questo gasdotto, alla cui costruzione parteciperebbero Austria, Germania, Romania, Ungheria e Bulgaria, è stato adottato anche dall’Unione Europea che ha promesso un finanziamento. Secondo alcuni esperti del settore, si tratterebbe solo di un tentativo di sabotare South Stream, con poche possibilità di risultare efficace. Essenzialmente, il gas dovrebbe arrivare dai giacimenti dell’Azerbaigian che, da soli non sono sufficienti. Si dovrebbero allora sfruttare le risorse del Turkmenistan, forse più vaste, ma questa rotta è intralciata dall’ostacolo rappresentato dal Mar Caspio e dalla decisione dei dirigenti politici di quel Paese, che sono incerti sull’offerta e stanno valutando la possibilità di un accordo generale con la confinante Russia per farvi passare il proprio gas. Un’altra eventualità esaminata per Nabucco è quella di procacciarsi la materia prima dall’Iran e dall’Iraq, ma in questo caso non pochi sarebbero i problemi politici e di “sicurezza”…
  Anche se i media ne parlano poco, lo scontro tra i progetti concorrenti è duro. L’Eni partecipa con il 50% a South Stream e, così, l’Italia si trova ad essere nel mirino di chi avversa questo piano. Non è certo un caso che fra le prime caute parole pronunciate dal nuovo ambasciatore Usa a Roma vi sia stato un nuovo invito, per l’Italia e l’Europa intera, a diminuire la dipendenza energetica dalla Russia. Anche la campagna scandalistica contro Berlusconi dei giornali inglesi potrebbe essere un avvertimento. Essendo la Gran Bretagna la quinta colonna degli Usa in Europa, fa pensare che, sui più paludati quotidiani di quel Paese, la “escort” D’Addario sia stata, per settimane, la “personalità” più citata e intervistata. L’amicizia di Berlusconi con Putin, confermata dal recente e misterioso viaggio “privato” del presidente del Consiglio in Russia, si è forse trasformata in qualcosa di più: in un’alleanza basata, se non su precise finalità politiche, sull’individuazione di un forte interesse economico comune.
  Non ci seducono più di tanto le teorie complottistiche, ma non possiamo ignorare l’ attacco che l’ “autorevole” Financial Times ha portato, agli inizi di settembre, contro l’Eni, invitandolo a rimpicciolirsi con la vendita della rete di distribuzione, in un settore dove solo i colossi possono competere. Le motivazione addotta era quella che tanto veniva criticata dagli “economisti pentiti” al momento dello scoppio della crisi finanziaria: creare, attraverso la vendita di rami d’azienda, un immediato valore finanziario agli azionisti, ignorando i tempi lunghi della programmazione industriale. Non a caso, il giorno dopo la pubblicazione dell’articolo, l’Eni è cresciuto in borsa dell’1,23% e, non a caso, anche il fondo Usa Knight Vinke, azionista all’1%, ha, in modo inusuale, comprato pagine pubblicitarie sui quotidiani italiani per chiedere la medesima cosa.
  Con South e North Stream a regime, la Russia arriverebbe a coprire il 33% di un mercato nel quale continuerebbero ad essere presenti Norvegia, Algeria e Libia. Per gli Usa non si tratta di salvaguardare l’indipendenza energetica dell’Europa, ma di manovrare per scongiurare il suo naturale avvicinamento alla Russia, che li priverebbe di un ruolo decisivo nel nostro continente.