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Qual è il senso del lavoro umano?

di Francesco Lamendola - 11/11/2009

 

"Il lavoro nobilita l'uomo", dice un vecchio adagio.
"Il lavoro vinse ogni ostacolo", canta Virgilio ("labor omnia vicit", "Georgiche, I, 144"),
"Il lavoro è dato all'uomo come una maledizione", emerge dal libro della Genesi.
"Il lavoro rende liberi", proclama - non senza una pesante ironia - il cancello d'ingresso del campo di  Auschwitz.
"Lavorare stanca", sostiene Cesare Pavese.
"L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro", sentenziano i padri costituenti, inserendo quest'ultima dichiarazione all'articolo 1 della nostra Carta costituzionale.
Insomma, ce n'è per tutti i gusti e per tutti i palati: nobilitazione e maledizione, forza superiore ad ogni altra e segno distintivo degli Stati liberaldemocratici - ma anche di quelli totalitaria, e perfino di quelli concentrazionari.
Per Marx, il lavoro in fabbrica è la massima alienazione dell'uomo verso se stesso; ma, una volta che le fabbriche saranno degli operai, l'alienazione, per un colpo di bacchetta magica, cesserà di essere tale, diventerà tutto il contrario, l'agognata liberazione.
Insomma, una volta che sul tetto delle fabbriche sventolerà la bandiera rossa, le macchine saranno le migliori amiche dell'uomo e gli operai saranno felici di accorrere alla catena di montaggio, anzi faranno a gara - come il leggendario minatore sovietico Stakanov - per dimostrare tutta la loro gioia e il loro incontenibile entusiasmo produttivo. Sarà bellissimo!
Per farla breve, una Babele: sul lavoro è stato detto tutto, e il contrario di tutto.
Nel coro discordante delle voci, delle maledizioni e dei solenni proclami, in verità, spicca un silenzio assordante: quello dei filosofi. Pochissimi di loro si sono presi la briga di sporcarsi la mani con un argomento così volgarmente terra terra; pochissimi di loro hanno avuto la voglia di misurarsi con un tema dalle fortissime implicazioni, oltre che economiche,  di natura politica, sociale, ecologica e culturale: hanno preferito rimanere nei regni rarefatti della teoria.
Forse, sono stati trattenuti anche dal timore di essere inesorabilmente etichettati dal punto di vista ideologico: difficile parlare del lavoro senza apparire schierati, dopo neanche cinque minuti di discorso, come Guelfi Bianchi o Guelfi Neri, come fascisti o comunisti, come conservatori o progressisti, e via dicendo.
E ai filosofi non piace troppo doversi schierare, a meno che abbiano già alle spalle un partito, una solida organizzazione, quanto meno una robusta casa editrice e, perché no, una cattedra universitaria che assicuri il pane e il companatico, nel malaugurato caso che il potere passi di mano ai loro avversari ed essi, poverini, come Dante si trovino sbanditi da un giorno all'altro, e costretti - "horribile dictu" - a sbarcare il lunario con le loro misere risorse individuali.
In ogni caso, la domanda che vorremmo porci, in questa sede, non è tanto di natura politica o sociale, quanto di natura prettamente filosofica: qual è il senso del lavoro umano?  Perché esiste il lavoro, oltre alla ovvia considerazione che esso è necessario per vivere? Se, viceversa, esso non fosse necessario - come non lo è per il figlio del miliardario; o quando lo è solo in misura assai ridotta, come per certe, fortunate popolazioni dei Tropici, cui la natura offriva spontaneamente quasi tutto il necessario per vivere - sarebbe ancora indispensabile il lavoro, sul piano sociale, etico ed esistenziale? Sarebbe ancora un dovere morale?
E chi non avesse voglia di dedicarvisi, sarebbe ancora moralmente criticabile? La società potrebbe guardarlo con una certa tolleranza, se non proprio con benevolenza; potrebbe, ad ogni modo, astenersi dal riservargli il disprezzo che, ora, non lesina nei confronti di simili individui?
Potremmo tentare di rispondere a tali interrogativi distinguendo, innanzitutto, i differenti piani sui quali si pone la questione del senso del lavoro: il piano personale, quello sociale, quello cosmico e, infine, quello religioso. Questo, per inciso, è lo schema tipico del pensiero sociale cristiano, al quale ci rifacciamo liberamente, nella misura in cui esso ci sembri soddisfare alcune caratteristiche essenziali della questione posta (si veda, in particolare, la vasta opera del padre domenicano tedesco Ebrhard Welty, "Herders Sozialkatechismus", 1963).
A livello personale, il lavoro ha un senso e un fine che è, in primo luogo, quello del mantenimento di ciascun essere umano e della sua famiglia, ma anche quello dello sviluppo delle energie insite in lui; e, inoltre, un mezzo di autoperfezionamento, perché attraverso il lavoro è possibile combattere e vincere alcune inclinazioni negative della natura umana, prima fra tutte l'indolenza, madre della perdita del senso di responsabilità.
A livello sociale, il lavoro si esplica quale mezzo di produzione, da cui dipende il benessere di una data società, nonché quale possibile strumento di concordia e di pace fra i membri di essa, in quanto fa comprendere a ciascuno l'importanza della interdipendenza reciproca. Nessun essere umano potrebbe sopravvivere da solo, senza poter contare sulle risorse del lavoro altrui, sotto forma di beni e servizi; o, se lo potesse, sarebbe inevitabilmente condannato a regredire verso forme sempre più primitive di sopravvivenza puramente materiale.
A livello cosmico, il lavoro costituisce un poderoso legame fra l'uomo e il resto del mondo, piante e animali compresi. Da un punto di vista cristiano, tale legame è stato presentato, tradizionalmente, come un rapporto a senso unico: l'uomo che domina e sfrutta la natura, la quale gli sarebbe stata data in signoria, appunto per le sue esigenze.
In tale prospettiva, l'uomo è visto come signore dell'universo, come collaboratore della creazione e come beneficiario  e architetto della natura; il cosmo, quindi, è dato all'uomo sia perché egli possa sfamarsi, sia perché possa perfezionarsi.
Questo, però, è anche l'aspetto più debole, dal punto di vista filosofico, della concezione cristiana del lavoro umano, viziata come essa è da un antropocentrismo tanto gratuito quanto arrogante. Bisogna, tuttavia, riconoscere che non si tratta di una posizione immotivata sul piano dottrinale, poiché l'azione di Dio è vista come redentrice degli uomini e non di tutti i viventi o dell'universo in quanto tale. Non solo l'Antico, ma anche il Nuovo Testamento tace riguardo alla possibilità di una redenzione - ad esempio - degli animali, dal dolore e dalla morte: la storia della salvezza è la storia della salvezza degli umani, e basta.
In questo senso, la teologia moderna non è stata capace di storicizzare la dottrina della salvezza come frutto delle concezioni vigenti in Palestina e nel mondo antico, all'epoca in cui furono composti i diversi libri della Bibbia. Se ciò fosse stato fatto, così come è stato fatto per altri aspetti significativi - ad esempio, per il superamento dell'esclusivismo giudaico in favore di una concezione universalistica della salvezza - sarebbe probabilmente emerso che il silenzio della Bibbia circa la possibilità di redenzione delle creature non umane non viene esclusa, ma semplicemente taciuta, perché estranea al sentimento comune dell'epoca.
A quel punto, sarebbe emerso che anche l'idea dell'uomo come signore e padrone del cosmo, e come collaboratore della creazione, avrebbe dovuto essere aggiornata e integrata con l'idea che l'uomo deve essere inteso come usufruttuario, piuttosto che come signore, dei beni della terra; e che egli è uno dei collaboratori della creazione, ma non l'unico, perché tutta la natura collabora ad essa, essendo interamente pervasa da una essenza spirituale.
In questa prospettiva, anche il lavoro finisce per perdere la connotazione esclusiva di manipolazione della natura ad esclusivo vantaggio dell'uomo, per presentarsi a noi sotto la luce di una preghiera di lode e di ringraziamento della creatura nei confronti dell'Essere, dal quale ogni cosa proviene, dunque anche lo spirito di fratellanza e di solidarietà fra l'uomo e i viventi, fra l'uomo e tutti gli elementi della natura medesima (terra, acque, aria).
Questa è anche la sede adatta per aprire una brevissima parentesi, domandandoci se solo il lavoro umano sia lavoro nel senso pieno della parola: con una sua dignità, una sua finalità, un suo senso complessivo. Per limitarci agli animali, potremmo ricordare le dighe costruite dai castori o le straordinarie creazioni artistiche dell'uccello giardiniere, l'ambliornide delle Molucche; oppure, semplicemente, la tela del ragno, il nido della rondine; per non parlare, poi, della straordinaria operosità delle api, delle formiche e di altri insetti sociali.
Siamo proprio sicuri che il lavoro delle altre creature viventi non meriti il medesimo rispetto, nel proprio ambito, del tanto decantato lavoro umano; che anch'esso non risponda ad un fine, che non abbia un senso tanto profondo, quanto quello del lavoro umano? Il lavoro, in natura, è la regola: nessun vivente rimane inoperoso, se non per ricostituire le proprie forze. La specificità del lavoro umano consiste nel fatto che quest'ultimo nasce dalla necessità di assicurare la sopravvivenza, e ben presto si spinge assai oltre, inseguendo l'ambizione di soddisfare sempre nuove esigenze, ognora più sofisticate, per rendere la vita non solamente sicura, ma comoda e raffinata.
Si tratta di una esigenza legittima, e quasi certamente connaturata alla nostra specie: ma perché mai dovremmo innalzarla a paradigma del lavoro in quanto tale, del lavoro fornito di scopo e di senso, come se ogni altra forma di lavoro fosse insignificante e ininfluente, mentre assicura la sopravvivenza a ciascuna specie vivente, non di rado a prezzo di fatiche e sacrifici durissimi da parte dei singoli individui? Inoltre, è proprio questa esigenza illimitata di rendere ognora più comoda la vita, che spinge gli esseri umani a una guerra incessante contro la natura, perché tutti i vantaggi che essi riescono ad assicurarsi, strappandoli alla natura, li sottraggono inevitabilmente all'ambiente ed agli altri viventi.
Il problema non è che l'uomo abbia l'impulso a rendere più comoda la propria vita, a spese dell'ambiente e degli altri esseri viventi; ma che non sappia né voglia in alcun modo padroneggiare e disciplinare tale impulso, e, soprattutto, che non sia in grado di porvi dei limiti, sì da cadere vittima di una vera e propria ossessione.
Ma chiudiamo questa parentesi e torniamo al nostro assunto, introducendo il quarto livello di senso del lavoro umano: quello religioso.
Secondo la dottrina sociale della Chiesa cattolica, il senso religioso del lavoro risiede in un triplice ordine di fenomeni: glorificare il Signore, mettendo a frutto i talenti ricevuti da Dio e incontrandolo, appunto, attraverso il lavoro; rendere davvero l'uomo "simile a Dio", che è Atto puro, mediante l'esplicazione delle proprie energie; infine, offrire all'uomo le occasioni per realizzare l'amore espiatorio nei confronti di Dio, l'amore di carità verso il prossimo, l'amore ordinato nei confronti di se stesso.
La conclusione di tutto ciò è che il lavoro non è, semplicemente, una attività volta al soddisfacimento di necessità personali e sociali, mediante la produzione, più o meno ben condotta, di determinati beni e servizi; bensì una attività sia fisica e intellettuale, che spirituale e religiosa, la quale deve essere esplicata con rettitudine di spirito, dando un'anima al proprio lavoro. Ma che cosa significa dare un'anima al proprio lavoro?
Significa che il lavoro dovrebbe assomigliare, quanto più possibile, ad un atto di amore, che noi manifestiamo nei confronti degli altri, di noi stessi e dell'Essere, dal quale traiamo la possibilità di perfezionarci e di realizzarci pienamente, in quanto esseri umani. E un atto di amore deve essere fatto con rettitudine di spirito, altrimenti si riduce ad una finzione o ad una caricatura di se stesso, che può - talvolta - ingannare gli altri, ma non noi, e tanto meno la Presenza ineffabile che è silenziosa testimone di tutta la nostra vita, dei nostri atti e dei nostri pensieri.
Sorge a questo punto, quasi inevitabile, la classica obiezione: come sarà mai possibile amare e svolgere con spirito grato e religioso, un mestiere disumano e degradante; come sarà possibile farlo, quando si lavora - come in molti luoghi della Terra - per quindici o sedici ore al giorno, per una paga miserrima, magari fin dall'età di sei o sette anni; e come si potrà mai dare un'anima al lavoro presso la catena di montaggio?
E come si potrà dare un'anima al lavoro che si svolge in una fabbrica di armi, destinate a seminare la morte e la distruzione; o in un macello comunale, dove ogni giorno si versano fiumi di sangue di animali che, allevati con inumana crudeltà, vengono incessantemente destinati a soddisfare i capricci del nostro palato?
Come si può dare un'anima al lavoro di coloro che uccidono a bastonate centinaia di migliaia di cuccioli di foca, per rifornire i nostri negozi di moda e soddisfare la vanità di persone tanto danarose, quanto insensibili?
È evidente, infatti, che, in condizioni di estremo sfruttamento, o di estrema alienazione, o di estrema violenza, il lavoro non può essere altro che una maledizione.
Tutto questo è vero; ma è forse colpa del lavoro? O non lo è, piuttosto, degli iniqui rapporti sociali, che nascono dalla smodata avidità di accumulare da una parte, dalla ignoranza e dalla rassegnazione, dall'altra?
Il fatto che esistano lavori disumani e degradanti, ivi compresa la prostituzione, è forse un atto di accusa contro il lavoro inteso come alta funzione spirituale, o non lo è, piuttosto, contro l'egoismo, la brutalità e la prevaricazione che albergano nel cuore dell'uomo, e che lo spingono a trasformare la santità del lavoro in una arena ove gli uni soccombono, affinché gli altri possano concedersi ogni sorta di beni superflui?
Non è l'idea del lavoro come atto di amore che deve essere sottoposta a una critica severa, bensì l'uso egoistico e irresponsabile che viene fatto della necessità del lavoro, per consentire l'arricchimento smodato di alcuni a spese della collettività.
È questo, che è inaccettabile.
Ma il lavoro, in se stesso, risponde ad una esigenza interiore della natura umana: beninteso, di una natura umana che sia stata educata e incoraggiata ad esplicare le proprie più alte funzioni spirituali, e non degradata e asservita a sprofondarsi nella palude dei propri impulsi inferiori.
Ecco perché l'ozio sistematico è degradante e inaccettabile: discorso che vale per certi baby pensionati, per certi falsi invalidi, per certi professionisti dell'accattonaggio, e specialmente per certi svogliati figli di papà, che a trentacinque anni si aggirano ancora per le aule universitarie, rimandando all'infinito la conclusione della propria tesi di laurea e, quindi, l'ingresso nel mondo del lavoro. Non sono, queste, persone da invidiare: esse non sanno nulla di quella forza benefica che si sprigiona nell'atto di un lavoro fatto bene e con amore.
Questa è la santità del lavoro: un concetto che Marx, l'adoratore delle macchine e il teorico di una conflittualità sociale permanente basata sull'odio di classe, non avrebbe mai potuto capire: perché, come tutti i profeti armati, credeva che bastasse cambiare i rapporti di forza esistenti fra gli uomini, per avere, automaticamente, un mondo migliore, più giusto e più felice; e non sapeva che tutto ciò è puro vaneggiamento, se ogni singolo essere umano non si impegna, con tutte le proprie forze, a cambiare innanzitutto se stesso, qui ed ora.