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Lebanon connection

di Alessandro Iacobellis - 13/11/2009

 

Strani intrecci agitano il Libano, reduce dalla formazione (a quattro mesi dalle elezioni) di un governo di unità nazionale, con l’accordo tra il blocco occidentalista di Hariri e l’opposizione nazionalista guidata da Hezbollah e dal generale Aoun. Ultimo caso, in ordine di tempo, quello del mercantile “Francop”, intercettato dagli israeliani in acque internazionali al largo di Cipro e carico d’armi. Ovviamente il colpevole è stato subito trovato senza esitazione alcuna dai media nostrani, come sempre devoti alla versione israeliana: armi dell’Iran per Hezbollah. Nessun’altra versione è razionale, nemmeno immaginabile.
Proviamo ad immaginarla noi, allora.
Misteriosi gruppi terroristi agiscono nel Paese dei Cedri ormai da diversi anni e sembrano essersi materializzati dal nulla.
La galassia di queste organizzazioni è molto frastagliata e confusa, tanto da renderne difficile tracciarne un quadro completo. Il minimo comun denominatore è la loro matrice religiosa estremista sunnita e l’ispirazione dichiarata ad Al Qaida. Salafiti, insomma, il cui obiettivo è contrastare (possibilmente con le armi) tutto ciò che è considerato nemico dell’ortodossia: gli sciiti per primi. Hezbollah e i suoi alleati, quindi.
Già solo questo primo particolare rende l’idea del pericolo esplosivo rappresentato da questi movimenti in un contesto già storicamente frammentato e diviso da rivalità etniche e religiose come il Libano, dove la guerra civile è stata per decenni una costante. Sulla carta tutte queste organizzazioni dichiarano prioritaria la lotta armata ad Israele, ma c’è da notare come in realtà con Israele non abbiano mai avuto ostilità dirette. Si sospetta soltanto che ci siano loro dietro ad alcuni sporadici lanci di razzi (mai rivendicati) sulla Galilea dal sud del Libano; atti che non hanno alcun risultato né militare né tanto meno politico, tranne che quello di alzare la tensione nei confronti di Hezbollah e del suo arsenale, di cui si torna ciclicamente a chiedere il disarmo. In poche parole, provocazioni.
Il più noto di questi gruppi è salito alla ribalta internazionale nel 2007, pochi mesi dopo la fine del sanguinoso conflitto estivo che aveva visto contrapporsi le forze di Hezbollah ad Israele, con la storica vittoria del Partito di Dio.
E’ in questo periodo che in uno dei principali campi profughi palestinesi del Paese, Nahr Al Bared, alcuni miliziani integralisti lanciano la loro sfida all’esercito regolare libanese. Il gruppo, denominato Fatah al Islam, ha al suo vertice Shaker al Abssi, un veterano di lungo corso della guerriglia palestinese. Un passato da seguace di Arafat nella laica Fatah, Abssi (che addirittura negli anni ’80 visitò Cuba e combatté in Nicaragua con i sandinisti) si trasferisce poi in Libano dove aderisce al gruppo dissidente Fatah-Intifada. Da militante in organizzazioni di stretta ispirazione socialista, subisce una strana e sospetta metamorfosi: si riscopre misteriosamente estremista islamico. Come e perché una tale evoluzione sia stata possibile, rimane un mistero. Tant’è: il suo gruppo instaura un regime di terrore fra gli stessi profughi palestinesi, rivolge le armi contro il suo stesso popolo, ingaggia ripetuti scontri a fuoco con le milizie rivali, si distingue per atti di criminalità comune nell’area di Tripoli (soprattutto rapine a mano armata). Addirittura progetterebbe di colpire anche fuori dal Libano, in Europa: due membri sono sospettati di essere dietro ai falliti attentati del 31 luglio 2006 su treni regionali tedeschi. Ci vorranno quasi quattro mesi alle forze armate libanesi (certamente non uno degli eserciti meglio equipaggiati del Vicino Oriente) per avere ragione dei miliziani. A costo di numerose vittime (circa 170) tra le proprie fila, decine tra la popolazione civile di Nahr Al Bared e la completa distruzione del campo, con conseguente disastro umanitario per i rifugiati. Il gruppo uscirà sconfitto, anche se non totalmente smantellato. I suoi militanti compiono nei mesi successivi diversi atti terroristici in territorio libanese e siriano, compreso l’omicidio di Francois el Hajj, generale dell’esercito che aveva guidato l’assedio di Nahr Al Bared, e un attacco ad una pattuglia del contingente Unifil nel sud del Paese (uccisi sei soldati spagnoli). Nel settembre 2008, 17 civili rimangono uccisi dall’esplosione di un’autobomba vicino all’Aeroporto internazionale di Damasco, in prossimità di un mausoleo sciita. Abssi, dato in un primo momento per morto nella battaglia di Nahr Al Bared, era in realtà scappato clandestinamente in Siria (altro Paese che farebbe comodo destabilizzare…) dove però verrà individuato e neutralizzato (non è chiaro se arrestato o ucciso) dalle forze di sicurezza.
I siriani dimostrano quindi la loro determinazione ed efficacia nella lotta al terrorismo (con grande scorno di Usa, Israele e neo-cons vari a cui fa comodo accusare Damasco di essere un regime canaglia). La tattica di coinvolgere la Siria baathista come presunto mandante del terrorismo in Libano risale al 14 febbraio 2005, quando il premier Rafiq Hariri viene ucciso da un’autobomba nel pieno centro di Beirut insieme ad altre 22 persone, dando il via a una serie di proteste popolari anti-siriane che i media embedded ribattezzarono entusiasticamente Rivoluzione dei Cedri.
Furono settimane di fuoco per Bashar Assad, che seppe gestire la situazione con abilità: presa di distanza e condanna dell’atto terroristico, ritiro del contingente militare dal Libano e collaborazione con l’inchiesta internazionale che, col tempo, finirà per ridimensionare le accuse a Damasco.
La galassia dei qaedisti libanesi non si esaurisce al gruppo di Abssi: in un altro campo profughi palestinese (Ain al Hilwe) hanno la loro base le milizie di Jund al Sham e Osbat al Ansar, di cui alcuni membri nel gennaio del 2000 avevano tentato il colpo di mano, occupando militarmente diversi villaggi nel nord del Libano. L’intento di creare un mini-emirato islamico nella zona montagnosa di Dinniyeh (a est di Tripoli) fu represso dall’esercito libanese dopo intensi combattimenti.
Jund al Sham balza invece agli onori delle cronache nell’estate del 2004, quando con un’autobomba a Beirut uccide un membro di Hezbollah. Insomma, la loro prima azione è un attacco alla Resistenza libanese: a chi giova?
Già, perché questa panoramica di gruppuscoli misteriosi, spuntati fuori dal nulla ma con ingenti capacità militari e fondi economici a disposizione, fa proprio chiedere: cui prodest?
Qualche ipotesi ci sarebbe, ma non è di quelle che di solito arrivano sui nostri media addomesticati.
Secondo il giornalista investigativo Seymour Hersh, infatti, alla base della proliferazione di questi gruppi ci sarebbe un accordo segreto fra Usa e Arabia Saudita, al fine di limitare Hezbollah e contrastare indirettamente l’Iran e la sua influenza in Libano. In un’intervista rilasciata nel 2007, Hersh si addentra nei particolari: la nascita di Fatah al Islam sarebbe stata decisa a tavolino da Dick Cheney, Elliot Abrams (consigliere per la Sicurezza Nazionale di Washington), e il principe saudita Bandar Bin Sultan. Quest’ultimo è un personaggio discusso, in passato al centro di diverse accuse per corruzione e affari illeciti, oltre ad essere stato ambasciatore negli Usa per ben ventidue anni, dal 1983 al 2005. Noto per essere uno dei più strenui oppositori dell’Iran all’interno della casa reale saudita e fervente anti-sciita, Sultan è bene introdotto negli ambienti repubblicani statunitensi. La tesi di Hersh è corroborata da un altro esperto: Franklin Lamb, ricercatore presso l’università americana di Beirut, arriva a sostenere che l’allora segretario di Stato David Welch abbia agito come vero e proprio agente di collegamento tra i sauditi e il clan-Hariri, per creare una sorta di “Stay Behind sunnita” in Libano. Gruppi che sarebbero serviti a controbilanciare l’influenza di Hezbollah e la supremazia delle sue milizie nel Paese. Così sarebbe nata quindi Fatah al Islam; parte della strategia di accerchiamento dell’Iran e di contenimento del mondo sciita da parte di Usa, Paesi arabi sunniti e Israele, tutti insieme appassionatamente contro Teheran.
Altro capitolo di questa intricata vicenda è l’assassinio del responsabile dell’ala militare di Hezbollah, Imad Mughniyeh, ucciso con un atto terroristico il 12 febbraio 2008, nel pieno centro di Damasco. Un attentato che nessuno ha mai rivendicato, ma di cui certamente a Washington, Tel Aviv, Riyadh e Il Cairo saranno stati tutto fuorché dispiaciuti.
Ma avremo modo di parlarne ancora, perché la destabilizzazione del Vicino Oriente è purtroppo lungi dall’essere conclusa. E riguarda anche noi italiani, che in Libano (non dimentichiamolo) continuiamo a mantenere 2500 soldati.