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Henry Condell, attore elisabettiano

di Emilio Michele Fairendelli - 16/11/2009

Henry Condell

(Norfolk, 1568 – Londra, 1627)

attore elisabettiano

globe-theatreCon quale eccitazione da bambino, seduto sul bordo del carro,  vedevo apparire e avvicinarsi l’enorme forma del Globe, illuminata nelle giornate di inverno da torce appese alle pareti.

Nel vento fiammeggiava il grande stendardo bianco del Teatro dove stava  scritto “Totus mundus agit histrionem”.

Era latino, aveva spiegato mio padre, significava che tutto il mondo recita una parte, ogni uomo, dentro e fuori dalla scena: come lui, lo zio, gli altri  della Compagnia, come la mamma nella nostra casa – in teatro alle donne non era consentito – per noi figli che la guardavamo con occhi adoranti abitando i luoghi sconosciuti e meravigliosi dove ci portava.

Così, cresciuto, anche io un giorno avrei recitato, per averne di che vivere, di che pagare il  sensale e il medico, la Regina tramite i suoi esattori, di che conoscere qualcosa di me e del mondo e innamorare una donna.

Stavo con  la mamma, che teneva le sue mani  sulle mie spalle come per presentarmi alla scena, dietro al palco di legno del Globe, che si spingeva come una penisola tra la gente, quelli seduti nei palchi coperti d’attorno e quelli che in piedi riempivano lo spazio aperto.

All’inizio una voce dall’alto evocava un tempo e una parte del mondo.

Allora mio padre e gli altri, con le loro parole, con il corpo, nei loro vestiti neri o rossi come il fuoco, di raso tempestato di pietre e cristalli, visitavano terre lontane, uccidevano e sognavano, conversavano con gli Angeli, con il  Demonio.

Loro e chi ascoltava si univano: solo così la storia poteva essere davvero raccontata.

Venne un giorno la mia prima parola nel Teatro, il mio primo gesto nell’aria, poi trent’anni  di attore, con i King’s Men.

Quante volte, Faustus nel monologo alla fine del suo dramma, ho chiesto alle stelle che presiedettero alla mia nascita di attirarmi come nebbia nel pieno delle nubi, per sciogliere poi una  pioggia scura e pesante che lasciasse cadere sulla terra il mio corpo facendo salire l’Anima in cielo.

Erano forti e belli la mia voce, il mio viso.

Ora la  vecchiaia è venuta, simile a  un personaggio che muova lentamente sul palco e si appresti a parlare per dire tutto ciò che sa.

Nel  Globe fui tanti altri uomini e nessuno: presto saprò chi sono, come guardando uno specchio d’acqua finalmente immobile vedrò le vere linee del mio viso.

Cosa resta ancora da comprendere?

Eccomi  sulle dolci e verdi sponde del Cherwell, in un  giorno di  maggio.

Un telo è steso sul prato, imbandito per il pranzo, un gruppo di enormi querce ci offre la sua ombra.

Un altro Condell attore, mio figlio, conversa con una donna, le sorride…

Giocano con la loro bambina.

Mia moglie è morta da alcuni anni, guardo come una parte di lei vivrà nella nostra discendenza: la forma delle sue labbra, delle sue mani.

Il nastro scintillante del fiume scorre lontano, una luce bagna la terra, la luna non vuole essere dimenticata e si mostra come una moneta diafana anche nel pieno del giorno, maschera chiara e dolce del mondo.

Ora comprendo il senso ultimo di quella scritta sul Globe.

È l’Essere stesso, che contiene l’uomo e la donna nelle loro età, il bimbo e il vecchio, il mendico ed il Re così come ogni altra cosa,  è l’Uno ad apparire nascondendosi in mille vesti, gentili o atroci, buie o luminose.

Quel mattino sulle sponde del Cherwell, altrove un torcersi e schiantare nella distruzione, la lotta nei ventri delle madri, la forza dei vulcani, le onde disabitate degli oceani, il nero della notte e le sue stelle, la mano aperta, il nome e il   sorriso degli uomini.

Ha terminato l’Opera, il suo Autore.

Appare ora la Verità, così come il melograno oltre la dura scorza.

In piedi davanti a noi, pieni di una felicità ancora senza nome, gli attori gettano le loro maschere.