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Il consenso elettorale negli Usa

di Mario Consoli - 04/04/2006

Fonte: Rinascita

 

Mark Alonzo Hanna, consulente del presidente USA William McKinley e mitica figura di organizzatore di campagne elettorali, citato anche da Bush jr, ebbe ad affermare nel 1896: «Per vincere occorrono due cose. La prima è avere molti soldi... la seconda non me la ricordo».
Ed è per questo che la scalata degli attuali padroni del mondo, i signori del denaro, non è iniziata all’interno dell’area politica o delle istituzioni rappresentative delle singole nazioni. Si è sviluppata dove i soldi si fabbricano, all’interno delle Banche centrali, affiancandone l’attività con una miriade di istituzioni internazionali, enti, fondazioni, banche di credito e d’affari tutte rigidamente dirette o controllate da loro. Una ragnatela così ampia e articolata da consentire il progressivo condizionamento planetario di tutte le attività.
La Trilateral Commission, il Council on Foreign Relations, il Bilderberg Group, il Club de Paris, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, la Camera di Commercio Internazionale, l’Institute of International Finance, il Forum di Davos; e ancora, il Comitato di Bali, per la supervisione bancaria, l’IOSCO (International Organisation of Securities Commissions), per la supervisione delle Borse e dei mercati di capitali, l’ISMA (International Securities Market Association), l’IAIS (International Association of Insurance Supervisors), per la vigilanza sulle compagnie di assicurazione, e l’ISO (International Standard Organisation) alla quale è demandato l’incarico di definire gli standard industriali, tanto per citarne i più noti e importanti.
Al condizionamento politico ed economico delle singole nazioni, attraverso il controllo monetario, si aggiunge il potere di influire sui rapporti internazionali. Poco importa se intere nazioni, nel gioco delle speculazioni, sono travolte e ridotte alla fame – vedi i paesi dell’America Latina – o altre vengono a trovarsi in posizione di immeritato vantaggio. Inoltre, attraverso il flusso dei finanziamenti, si attivano tutte quelle iniziative che si ritengono funzionali al disegno mondialista e si condizionano pesantemente – spesso sino a stravolgerle – anche quelle iniziative che, a prima vista, potrebbero apparire di segno opposto. Esempio particolarmente eloquente ne è il Movimento dei No Global.
Maurizio Blondet, nel suo libro No Global, ci informa che, contrariamente a quanto la pubblica opinione è indotta a credere, «l’International Global Forum è largamente finanziato dalla Foundation for the Deep Ecology, un think-tank con sede a San Francisco, erede delle fortune del magnate Douglas Tompkins, il padrone della Esprit Clothing Company, la nota multinazionale di pret-à-porter. Detta ”Fondazione per l’Ecologia Profonda” nel 2000 ha dichiarato attivi per 150 milioni di dollari: grazie a questi fondi essa funziona come una finanziaria, che fornisce capitali iniziali per il lancio di gruppi antiglobal in tutto il pianeta».
Ed ancora: tra i «finanziatori dei No Global spicca un nome: Theodor (Teddy) Goldsmith. [...] Teddy è il fratello minore del defunto sir James Goldsmith, speculatore mondiale in materie prime, uno dei dodici uomini più ricchi del mondo, cugino dei Rothschild».
Procedendo nella sua indagine, Blondet mette in luce anche le relazioni che legano il mondo dei No Global a un altro celebre miliardario, George Soros.
«Ebreo ungherese naturalizzato americano, Soros è diventato enormemente ricco e famoso con speculazioni internazionali sulla lira negli anni ’90, il genere di operazioni possibili nel mercato globale. [...] Soros finanzia anche un’altra fondazione ”culturale”, il Lindesmith Center-Drug Policy Foun-dation, che impiega enormi mezzi per fare lobby a favore di una politica di totale liberalizzazione delle droghe e per la legalizzazione dell’eutanasia, naturalmente a livello mondiale».
Dunque, ovunque si cerchi, escono fuori soldi, enormi quantità di soldi, attraverso i quali i soliti signori, indirizzano, determinano, controllano.
L’economia è dunque governata da uomini che – come abbiamo visto – nulla hanno a che vedere con il consenso popolare; su questo non può ormai esservi più dubbio. Ma, si dice, è inevitabile, perché queste sono le regole del Libero Mercato, della globalizzazione, del consumismo e del benessere. L’importante è che il sistema politico – adottato o imposto – ovunque, in ogni angolo del mondo, sia quello democratico. Si devono svolgere «libere» consultazioni elettorali attraverso le quali il popolo possa scegliere i candidati proposti dai diversi partiti.
A parte il fatto che abbiamo ancora nelle orecchie la frase di Mark Alonzo Hanna, che ci ricordava come nelle campagne elettorali più dei programmi contano i soldi, ci si può legittimamente chiedere cosa possa offrire al popolo una classe dirigente politica privata di ogni potere inerente la moneta e l’economia, e quindi di ogni possibilità di intervenire nel sociale. Ma, sforzandoci di essere ottimisti fino in fondo, osserviamo come la democrazia riesce a gestire l’oggetto principale del suo esistere: il consenso.
È per garantire il libero consenso, infatti, che i «padri fondatori» hanno inventato la moderna democrazia. E di questo sistema politico esiste un modello indicato ad esempio, ad ogni pie’ sospinto, un vero e proprio santuario: la grande democrazia americana.
Osserviamo, dunque, come si esprime il consenso in quel paese.
I dati che si riscontrano non possono che lasciare perplessi. Nelle elezioni presidenziali va a votare meno del 50% degli aventi diritto, quindi il presidente USA rappresenta a malapena un americano su quattro. Nelle altre consultazioni le cose vanno molto peggio: i votanti nelle elezioni dei singoli Stati sono il 35-40%, in quelle di contea e municipali addirittura il 25-30%. Sissignori, nel santuario della democrazia ci sono anche «maggioranze» che rappresentano meno del 13% della popolazione.
Qualcosa non funziona: le motivazioni addotte per condannare le dittature si sono sempre incentrate sui temi della libertà e del consenso. Ma è legittimo domandarsi quanto possa durare un regime quando si basi su un consenso del solo 13 o 25% della popolazione. Negli Stati totalitari certamente molto poco.
Il consenso, quando è una cosa seria, è un fatto di coscienza, è un senso di appartenenza e di partecipazione, è una forza centripeta che ingigantisce l’individuo e lo rende parte fondamentale del popolo, anzi di quel popolo.
In democrazia, regno del più sfrenato individualismo, le forze che prevalgono sono invece quelle centrifughe, che rimpiccioliscono il cittadino, lo rendono anonimo e lo collocano in una massa amorfa e spersonalizzata. Una massa che si può governare anche con un misero 13% di «maggioranza».
Il consenso, in democrazia, ha la dignità di una lattina di Coca-cola venduta sullo scaffale di un supermercato.
E più la democrazia è imposta al mondo, più la finanza internazionale ha mano libera per i suoi traffici, più crescono le sacche di povertà entro le nazioni ricche e più popoli vengono cacciati nel girone della fame.
Nell’ultimo rapporto ONU sullo sviluppo umano – 1998 – si legge che il 20% più ricco della popolazione mondiale consuma l’86% dei beni disponibili, mentre il 20% più povero solo l’1,3%.
E la «grande democrazia americana» prosegue nella sua opera di conquista planetaria. Attraverso quali strumenti?
Siamo alle solite, rispuntano i banchieri. Scrive Giulietto Chiesa: «Strumenti sovrannazionali di questo progetto sono state le due istituzioni regine di Bretton Woods, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, cui negli ultimi anni si è aggiunto il WTO (World Trade Organization), loro parente stretto in quanto erede del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade). Non a caso, questi tre strumenti operativi sono estranei alle Nazioni Unite. Altrettanto non a caso, essi sono le uniche istituzioni sovrannazionali che hanno ricevuto concreti, reali poteri di limitazione, di abrogazione delle sovranità nazionali dei paesi che vi aderiscono. Ma non tutte le abrogazioni sono eguali tra loro. Il ”consenso di Washington” ha rappresentato il grimaldello con cui la rappresentatività internazionale del sistema delle Nazioni Unite è stata smantellata per far posto al decalogo della globalizzazione americana».
E la «grande democrazia americana» continua, con ricatti monetari, con azioni militari, con spoliazioni delle sovranità nazionali sempre più devastanti, ad imporre il proprio modello «buono», «libero», «politicamente corretto».
Le regole? I Trattati internazionali? Contano solo se e quando sono funzionali al disegno USA, altrimenti si ignorano, si stracciano o si riscrivono. Una risoluzione dell’ONU non rispettata può essere ottimo pretesto per scatenare una guerra se si tratta dell’Iraq di Saddam Hussein, ma non ha nessuna importanza se nella parte dell’inadempiente si trova lo Stato di Israele.
Quando, nel 1999, l’obbiettivo era lo smantellamento della Serbia di Milosevic, gli Americani non esitarono a stravolgere la natura della NATO. Da patto difensivo la trasformarono in alleanza militare offensiva. I regolamenti furono, in quattro e quattr’otto, cambiati. Gli articoli 5 e 6 dello Statuto che circoscrivevano, in chiave difensiva, l’uso della forza, vennero riscritti: la NATO si autodefinì e si comportò, con atto unilaterale e in dispregio dell’art. 51 della Carta dell’ONU sulla legittima difesa, come il «gendarme del nuovo ordine mondiale». L’ordine americano e democratico. L’ordine dei banchieri.
Per comprendere quale, puntualmente, si dimostra essere la considerazione che gli americani hanno della legalità e della libertà basta osservarli in una qualsiasi delle loro scorribande. A titolo di esempio riportiamo la ricostruzione fatta da Noam Chomsky dell’aggressione militare scatenata dall’America di Ronald Regan contro il Nicaragua: «Il Nicaragua non rispose. Essi non risposero mettendo bombe a Washington. Essi risposero chiamando Washington a difendere il proprio operato davanti al Tribunale internazionale [...] Non ebbero difficoltà a trovare le prove. Il Tribunale le accettò, deliberò in loro favore, [...] condannò ciò che essi avevano denunciato come ‘uso illegale della forza’, che è un altro modo per definire il terrorismo internazionale, [...] intimò agli Stati Uniti di porre fine al crimine e di pagare massicci indennizzi. Gli Stati Uniti, ovviamente, respinsero con sdegno la sentenza della Suprema Corte e annunciarono che da quel momento non ne avrebbero più riconosciuto la giurisdizione. Allora il Nicaragua si rivolse al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Che emise una risoluzione invitante tutti gli Stati a osservare le leggi internazionali. Nessuno fu nominato, ma tutti compresero. Gli Stati Uniti misero il veto alla risoluzione. Ed essi sono oggi l’unico Stato che ha dovuto subire una condanna del Tribunale internazionale e che, al tempo stesso, ha posto il veto su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che esortava gli Stati a osservare le leggi internazionali. Allora il Nicaragua andò oltre e si rivolse all’Assemblea Generale dell’ONU, dove non esiste tecnicamente un meccanismo di veto, ma dove un voto negativo degli Stati Uniti equivale a un veto. E l’Assemblea approvò una risoluzione analoga a quella del Consiglio di Sicurezza con il voto contrario soltanto degli Stati Uniti, di Israele e del Salvador. L’anno successivo si votò di nuovo e questa volta gli Stati Uniti raccolsero soltanto il voto di Israele [...] A quel punto il Nicaragua non poteva fare nient’altro di legale. Aveva tentato tutte le strade. Ma esse non potevano funzionare in un mondo governato dalla forza».
È questa la particolare interpretazione che la «grande democrazia americana» – quella che si attribuì l’autorità per istruire e dirigere i processi di Norimberga e di Tokio – ha dei valori di libertà, di legalità e di giustizia. Esattamente come quando proclamano il diritto dei Palestinesi di avere un proprio Stato, ma a condizione, non solo che sia uno Stato di tipo democratico, ma anche di poter porre il proprio veto sulla scelta della persona che il popolo palestinese vorrà scegliere come Capo. Che strana cosa la democrazia!
Lo spirito «missionario» dei cavalieri a stelle-e-strisce nel «liberare» i popoli del mondo lascia perplessi almeno quanto lo spessore di quel consenso democratico che ci consegna «maggioranze» del 13%.
Ma, a chiarirci cosa sia il consenso democratico, giunge il banchiere Carlo Azeglio Ciampi nella sua attuale veste di presidente della Repubblica. A chi gli chiedeva spiegazioni sulla legittimità di portare avanti riforme della portata dell’Euro e dell’istituzione della Banca Centrale Europea, senza sottoporre le questioni al vaglio di referendum popolari, ha detto: «Si parla a volte di fare un referendum sull’Europa. Ma a me pare che un ”referendum di fatto” sia già stato celebrato, il primo gennaio scorso, quando è stato varato l’Euro, e mi chiedo quale consultazione popolare migliore di quella sia possibile». E bravo il nostro Ciampi! Con una frase breve, lapidaria, chiarissima ci ha spiegato ciò che ci andavamo chiedendo: il consenso democratico «migliore» è quello di utilizzare la moneta che è imposta d’autorità e non la lira, che nessun commerciante e nessun sportello bancario è ormai disposto ad accettare. Ci sembra proprio giusto; nell’epoca del denaro virtuale è logico che ci si debba accontentare del consenso virtuale.
Probabilmente, proprio questa è la democrazia.