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Gianbattista Niccolini: un tragediografo tra Neoclassicismo e Romanticismo

di Fabrizio Legger - 22/11/2009

 

                                                                    

Gianbattista Niccolini nacque nel 1782 a Bagni di San Giuliano (Pisa) e morì nel 1861 a Firenze. Fu poeta, tragediografo, studioso di mitologia e di antichità classiche, dotato di una spiccata tempra drammatica, ma oggi, purtroppo, è ingiustamente dimenticato.

Trascorse gran parte della vita a Firenze, dove poi morì, ma negli ultimi anni predilesse la quiete della bella villa di Popolesco, tra Prato e Pistoia, ottenuta in eredità da un ricco zio che stimava molto il suo talento letterario. Conobbe Alfieri,  Foscolo, Monti, Pellico e Guerrazzi, frequentò i maggiori letterati toscani del primo Ottocento, fu professore di storia e di mitologia e volle essere per il proprio secolo quello che Alfieri fu per il Settecento.Niccolini frequentò le prestigiose scuole dei padri Scolopi, si laureò in giurisprudenza all’Università di Pisa e, sin da adolescente, fu un ardente repubblicano. Già da ragazzo, detestava il governo del Granduca (che, pure, era uno tra i regimi meno repressivi tra quelli degli antichi Stati italiani), e, nel 1798, si esaltò per l’ingresso delle truppe francesi del Bonaparte in Firenze. Durante il periodo dell’occupazione francese della Toscana, intrattenne stretti rapporti con i giacobini fiorentini e i repubblicani filofrancesi, tanto da restarne seriamente compromesso, anche a causa dei suoi vulcanici discorsi contro i dispotismi monarchici di Austria e Russia, nonché, delle sue prese di posizione antibritanniche (in quanto vedeva l’Inghilterra come la potenza conservatrice più ostile alla Francia repubblicana). Quando, l’anno seguente, la città fiorentina fu occupata dall’esercito austro-russo, che scacciò i francesi, il giovane Niccolini fu costretto a nascondersi per qualche tempo, onde non finire giustiziato come giacobino. Riuscì a sfuggire alle liste di proscrizione redatte dai monarchici e alle perquisizioni fatte dai dragoni austriaci e dai cosacchi russi, rifugiandosi presso fidati amici e parenti, e badando bene a non mettere il naso fuori dalle abitazioni in cui stava rinchiuso. Restò segregato in casa per mesi e mesi, occupando diligentemente tutto quel tempo sprofondandosi nello studio della mitologia greca, della poesia latina, della storia antica e medievale, iniziando ad abbozzare trame e soggetti di future tragedie.  Poi, con il riaffermarsi dell’egemonia francese sull’Italia in seguito alle brillanti vittorie militari ottenute dalle armate del Bonaparte, poté tornare a manifestare pubblicamente le proprie simpatie repubblicane, che restarono tali anche quando Napoleone tradì del tutto gli ideali rivoluzionari facendosi incoronare imperatore di Francia. Nel 1804, in seguito alla improvvisa morte del padre (che lasciò la famiglia nell’indigenza), riuscì ad ottenere dapprima un impiego presso l’Archivio delle Riformazioni, poi, nel 1807, ottenne la cattedra di Storia e Mitologia all’Accademia delle Belle Arti, di cui divenne anche segretario e bibliotecario. Difensore della purezza della lingua toscana, fu accademico della Crusca e, nonostante i suoi ideali repubblicani, quando il Granduca tornò a Firenze (dopo la definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo) lo volle al suo servizio come bibliotecario privato, in quanto esperto di lingue classiche e di mitologia greca. Niccolini era un bibliofilo accanito: nutriva un amore immenso per i libri e amava in modo particolare i grandi poemi epici e mitologici della letteratura greca e latina, come le Metamorfosi di Ovidio, l’Iliade di Omero, la Farsaglia di Lucano, l’Eneide di Virgilio, la Tebaide di Stazio e le Argonautiche di Apollonio Rodio. Ma il grande amore del Niccolini fu il palcoscenico: sin da giovanissimo frequentò i teatri fiorentini, appassionandosi soprattutto per i soggetti tragici e drammatici. Fu un vorace lettore del teatro tragico alfieriano, tanto che il grande scrittore di Asti divenne il suo modello da seguire, soprattutto per l’animosità e l’irruenza con cui si scagliava contro gli orrori della tirannide. Ma anche i tragici greci erano tra i suoi prediletti, in particolare Sofocle ed Euripide, i quali portarono sul palcoscenico del teatro le terribili vicende di sangue e di orrore del ciclo troiano e di quello tebano.E proprio al teatro tragico il Niccolini volle legare la sua effervescente carriera di poeta e autore drammatico. Egli, infatti, si propose di continuare con le proprie tragedie il “cammino libertario” intrapreso dall’Alfieri con le sue “tragedie di libertà”. Il suo teatro, sostanzialmente, fu romantico nella forma ma neoclassico nei contenuti, anche se, a parer mio, non è possibile effettuare una rigida separazione tra queste due peculiarità, in quanto lo scrittore, sebbene di formazione culturale neoclassica, visse in epoca romantica e non rimase estraneo alla cultura del suo tempo. I soggetti che predilesse spaziano dalla mitologia greca al Medioevo dei Comuni, dall’epoca rinascimentale delle Signorie all’epoca romana e alle lontane età delle civiltà del Vicino Oriente. E in tutte le sue opere, Niccolini fu un austero difensore della libertà dell’individuo, un esaltatore delle libertà repubblicane, nonché dei diritti inalienabili dei popoli e della sacrosante rivolte degli oppressi contro il sanguinario dominio della tirannia. Convinto classicista e grande appassionato di mitologia greca, egli comprese quel che v’era di artisticamente e spiritualmente valido nel Romanticismo e, pur rimanendo un fedele seguace della tradizione classica, aprì il suo teatro alle nuove regole della drammaturgia romantica, popolando le sue tragedie con decine di personaggi e trattando, prevalentemente, tematiche patriottiche, libertarie e anticlericali.Tra le sue maggiori opere teatrali vanno ricordate le tragedie Arnaldo da Brescia, Filippo Strozzi, Giovanni da Procida, Nabucco, Polissena, Agamennone, Beatrice Cenci, Antonio Foscarini, Lodovico Sforza, Medea. In alcune di queste, egli esalta l’individuo eroico, l’uomo di eccezione che si pone in urto frontale con il tiranno, ovvero con il potere dispotico, monarchico o clericale che sia; in altri testi, invece, assistiamo ad una lotta corale, spesso di interi popoli, uniti dallo sdegno nei confronti della tirannia e dalla ferma volontà di liberarsi dal duro giogo dispotico. Occorre però ammettere che, nelle prime, il Niccolini non riesce a raggiungere l’intensità tragica e l’efficacia drammatica delle tragedie alfieriane, ragion per cui il confronto con il teatro tragico dell’Alfieri, purtroppo, non regge.Infatti Niccolini, pur avendo un temperamento tragico, mancava di quella terribilità e di quella calda ferocia che, invece, Alfieri riuscì a far risaltare nelle sue tragedie.In effetti, le tragedie del Niccolini sono quelle di un romantico, si inseriscono pienamente nel filone del teatro drammatico ottocentesco e, sotto certi aspetti, sono più simili alle tragedie del Manzoni che non a quelle dell’Alfieri. La differenza generazionale tra Niccolini e Alfieri, così come le differenze culturali tra i due autori, si avvertono moltissimo: erano veramente troppo diversi (sia per formazione culturale, sia per le differenti epoche storiche in cui vissero), e anche se Niccolini fu un ammiratore entusiasta di Alfieri, nelle sue opere drammatiche non riuscì mai a raggiungere la terribilità sovrumana e quasi, direi, metafisica, che traspare dalle migliori tragedie del grande Astigiano.La tragedia Arnaldo da Brescia è giustamente celebre per i suoi attacchi contro il potere temporale dei Papi e per la denuncia dell’infimo connubio tra il Trono e l’Altare. La figura del riformatore religioso, solitaria, sdegnosa, caratterizzata da una grandezza etica smisurata, racchiude in sé qualcosa di “dantesco”, e risulta quindi estremamente affascinante, ma, se si confronta la figura di Arnaldo con quelle alfieriane del Saul, dell’Agamennone, oppure del Timoleone, ci si rende subito conto di quanta diversità di pensiero, atteggiamenti, modo di rapportarsi con il potere, concezioni dell’uomo e della vita sussistano tra l’eroe niccoliniano e quelli alfieriani.È innegabile, però, che la poesia tragica del Niccolini risente molto degli influssi alfieriani. Un chiaro esempio lo si può evincere dai versi del monologo in cui Arnaldo da Brescia, nella omonima tragedia (Atto V, Scena XII), si appresta a salire sul palco dove lo attende il rogo. E con un piglio da vero eroe alfieriano, l’Arnaldo del Niccolini così si esprime di fronte ai propri ottusi carnefici:                                                                    … Ma farmi io sento                                    di me stesso maggiore, e in questo petto                                    entra già l’avvenire, e lo affatica.                                    Mi fa profeta Iddio: veggo concordi                                    fede giurarsi i popoli lombardi,                                    e di venti cittadi al ciel s’innalza                                    tra le ceneri e il sangue un sol vessillo:                                    il drappel della morte al suol si prostra                                    supplicando l’Eterno: è giunto al Cielo                                    dell’intrepide labbra il giuramento,                                    ch’è pallor del tiranno; a sé d’intorno                                    dissiparsi le schiere; e il suo stendardo                                    sparir rapito dalla man dei forti                                    quel superbo rimira, e sulla terra,                                    già via dei suoi trionfi, egli precipita                                    vinto all’impeto primo, e si nasconde                                    fra la strage dei suoi: veggo i Tedeschi                                    oltre l’Alpi fuggir, tratta nel fango                                    l’aquila ingorda, e un popolo redento                                    farsi ludibrio della corona…                                    Ma il carnefice è qui. Coraggio, Arnaldo:                                    dalle misere carni, a cui fu sposa,                                    all’eterno imeneo l’anima voli;                                    conducetela a Dio per l’infinito,                                    ali dell’intelletto e dell’amore.                                    Anche il Giovanni da Procida e il Filippo Strozzi  (forse le più alfieriane tra le opere di Niccolini) sono tragedie incentrate sulla figura dell’eroe di libertà, dell’individuo indomito che non teme la morte e che quindi è pronto a rischiare la sua stessa vita pur di dare l’esempio di ribellione che muova il popolo alla rivolta contro l’oppressione. Decisamente corale, invece, e tutta incentrata sulle sofferenze del popolo ebreo nella cattività babilonese e sulla spietata crudeltà del despota mesopotamico è la tragedia intitolata Nabucco, che ispirò il libretto per il famoso melodramma di Giuseppe Verdi, mentre la tragedia Polissena, dedicata alla sventurata figlia di Priamo che Achille volle sposare e che Pirro, successivamente, sacrificò sulla tomba del padre ucciso da Paride, è un testo prettamente elegiaco, con il quale Niccolini intese rievocare le atmosfere cupe dell’Antigone alfieriana, ma che, in realtà, si rivela essere una tragedia di stampo mitologico assai più vicina alla poesia elegiaca che non a quella tragica.

Niccolini fu un drammaturgo dal temperamento focoso e appassionato. Fiero repubblicano e indomito avversario del potere temporale dei Papi, il suo teatro, come già quello alfieriano, fu un teatro di libertà, inneggiante continuamente alla lotta contro i tiranni e contro l’oppressione oscurantista del potere religioso, tutto fremente di robusto sdegno contro i soprusi dei regimi monarchici ed animato da un generoso furore patriottico.

Questo esuberante odiatore di tiranni, questo audace esaltatore delle guerre di liberazione nazionali dei popoli oppressi, aspirava sinceramente all’unità dei popoli, alla pace universale e ad un ordinamento sociale laico e democratico in cui la povertà non desse mai ignominioso spettacolo di sofferenze e di ingiustizie sociali. Fu ferocemente anticlericale, in quanto vedeva nel potere temporale dei Papi e nello Stato pontificio una forma di aberrante tirannia teocratica che soffocava con il dogmatismo e l’oscurantismo la libera espressività degli ingegni umani.Quando trattava del tema della libertà dell’uomo, della giustizia che i potenti devono rispettare e praticare, della giusta lotta che gli oppressi devono condurre contro i tiranni che li privano della libertà, Niccolini diventava un fiume in piena, una forza tumultuosa della natura, un implacabile avversario di ogni potere costituito, perché il suo amore per la libertà dell’individuo e per l’indipendenza dei popoli erano davvero sinceri, forti, appassionati e insopprimibili.Tali tematiche, unite alla decisa condanna del dispotismo regale e della tirannìa religiosa in generale (nelle sue tragedie riservò versi aspri e mordaci anche contro il potere delle caste sacerdotali delle antiche religioni pagane), si ritrovano in tutte le sue tragedie, anche in quelle di soggetto mitologico, dove monarchi e sommi sacerdoti sono sempre raffigurati come subdole e crudeli incarnazioni del sanguinario demone del potere.Ebbe indole solitaria, fantasiosa ed immaginifica: lo affascinavano le tematiche tragiche di sangue e di sacrificio, le figure femminili vittime di tiranni feroci ma capaci di ribellarsi all’oppressione e di vendicare duramente il loro onore violato o i loro affetti distrutti dal potere dispotico. Fu un fervente appassionato di mitologia classica, grande cultore dei miti greci, in particolare quelli legati al ciclo troiano e al ciclo tebano, e quando ottenne la cattedra di mitologia si rivelò un docente dall’eloquenza affascinante, con la quale catturava l’attenzione anche degli studenti più svogliati.Quando parlava di libertà e delle lotte condotte dai popoli oppressi per raggiungere l’agognata indipendenza, s’infervorava e si accendeva di irrefrenabile passione: assumeva quasi l’atteggiamento di un antico tribuno romano, scagliandosi con veemenza contro i tiranni e contro gli stranieri oppressori di popoli, come gli Austriaci e i Russi, vittime predilette dei suoi strali poetici.Infatti, nei confronti delle monarchie assolute e degli imperi autocratici, il Niccolini mostrò sempre un implacabile odio, sia che si trattasse dell’oppressione austriaca contro i patrioti italiani, sia che si trattasse delle repressioni effettuate dalle truppe cosacche della Russia zarista contro gl’insorti polacchi, caucasici o tartari, giustamente in rivolta contro il sanguinario potere centrale moscovita.Anche per questi motivi (oltre che per il fatto di aver scelto, come protagonisti delle sue tragedie, grandi figure storiche sacrificatesi per la libertà, quali, appunto, Arnaldo da Brescia, Filippo Strozzi o Giovanni da Procida), il Niccolini fu, idealmente e sentimentalmente, assai affine al grande tragediografo astigiano Vittorio Alfieri, per il quale nutrì una profonda venerazione, dettata non soltanto dal fatto che il poeta piemontese aveva raggiunto notevoli risultati nel campo del teatro tragico, ma anche da un “comune sentire” libertario e da una condivisa idea di lotta per la libertà e l’indipendenza dell’Italia, che, in qualche modo, li accomunava entrambi.  Resta palese che il Niccolini, da un punto di vista strettamente drammaturgico, si dimostrò un devoto estimatore  (ma giammai pedissequo imitatore) del teatro tragico dell’Astigiano e delle sue opere polemiche contro la tirannide e il dispotismo illuminato dei monarchi assoluti (in particolare, ammirò i trattati Della Tirannide e Del Principe e delle Lettere) e, al pari di quanto fece l’Alfieri contro la Francia giacobina e rivoluzionaria, egli si scagliò con astioso furore poetico contro la tirannide zarista, che, nell’Ottocento, fu spietata dominatrice di popoli (ucraini, lituani, polacchi, caucasici) in lotta per la libertà e l’indipendenza dal duro giogo dell’imperialismo russo.In Niccolini tutto era passione fremente, empito irresistibile, fierezza indomita, volontà tenace di lotta, orgoglio intellettuale e ardore patriottico, caratteristiche, queste, che si ritrovano in gran parte delle sue opere tragiche, anche se, a parer mio, la loro ampia coralità e l’elevato numero dei personaggi che affollano le scene contribuiscono non poco a rendere meno efficace la tragicità delle vicende trattate, rispetto, invece, alla brevità e al velocissimo susseguirsi degli eventi che caratterizzano le tragedie alfieriane.Nonostante questo, però, il teatro niccoliniano fu assai apprezzato e seguìto: si affermò, infatti, in piena epoca romantica, quando i gusti e le sensibilità erano mutati  parecchio rispetto agli anni ottanta del Settecento, cioè l’epoca in cui Alfieri faceva rappresentare le sue tragedie per un pubblico che non era ancora stato sconvolto dal cataclisma della Rivoluzione francese, dagli sconquassamenti dell’epoca napoleonica e dagli eventi bellici dell’epopea risorgimentale.Così, tra il 1820 e il 1850, le tragedie di Niccolini riscossero un grande successo di pubblico: gli anticlericali vedevano in lui e nel suo teatro il loro alfiere, in quanto Niccolini fu un deciso avversario del Neoguelfismo propugnato da Vincenzo Gioberti, mentre i patrioti trovavano nelle sue opere teatrali un fiero anelito di riscatto per la libertà e l’indipendenza dell’Italia. Anzi, nei confronti del Gioberti il Niccolini nutrì una vera e propria avversione, un astio quasi congenito che lo faceva fremere di disgusto ogni volta che ne sentiva pronunciare l’esecrato nome (tanto che, una volta, al termine di una sua lezione, si racconta che prese addirittura a ceffoni un suo allievo cattolicissimo, il quale aveva osato affermare la superiorità degli scritti filosofico-morali del Gioberti rispetto a quelli dell’Alfieri, per i quali il drammaturgo toscano nutriva una immensa venerazione). Niccolini riteneva il Gioberti un ottuso sacerdote rincoglionito, un baciapile papista della peggiore specie, uno di quei filosofi cattolici bigotti e moralisti che scrivono solo con l’intento di tenere avvinte le masse popolari al carro retrogrado e reazionario della Chiesa di Roma, nemica della libertà dell’individuo e assassina della coscienze che non si conformano ai suoi assurdi e deliranti dogmi. L’odio che il tragediografo pisano nutriva verso la figura del Papa e contro lo Stato della Chiesa era spietato, irrefrenabile, ma, soprattutto, implacabile. Egli non lo nascose mai, non perse mai occasione per criticare il Papato, non volle mai tacere sulle infamie commesse dalla Chiesa cattolica romana nel corso dei secoli, e in quasi tutte le sue tragedie riservò strali di fuoco per i membri delle caste clericali e sacerdotali. Allo stesso modo, da appassionato discepolo di Alfieri qual si considerava, non cessò mai di condannare, nelle sue tragedie, il dispotismo monarchico e l’intollerabile assolutismo tirannico dei re e dei principi, anche quando tutta l’Italia stravedeva per i Savoia e anche quando si incominciava  ad intuire che la penisola sarebbe diventata una ed indipendente soltanto sotto la guida di una dinastia monarchica. E in ciò, occorre rilevare che Niccolini fu sempre fedele ai suoi ideali repubblicani e non nascose mai il suo desiderio di vedere l’Italia governata da una repubblica: ma, nonostante questo,  il suo amore per la Patria e per l’unità dell’Italia era più forte di qualunque altro sentimento fazioso, ragion per cui (sebbene a malincuore e a denti strettissimi) non esitò ad accettare il dominio della monarchia sabauda non appena si rese conto che solo i Savoia potevano condurre a compimento l’agognata unità della Patria. Gli anni della vecchiaia furono, per il tragediografo, ricchi di soddisfazioni e riconoscimenti, culminanti, il 3 febbraio 1860, con la consacrazione del suo nome al Teatro del Cocomero, dove fu apposto un busto marmoreo del poeta a perenne ricordo della sua attività di autore tragico. L’anno seguente, Niccolini morì, nella sua amata Firenze, e le sue spoglie furono tumulate nella chiesa di Santa Croce, accanto alle tombe di Vittorio Alfieri e di Ugo Foscolo.Ma Niccolini non fu solo autore di testi teatrali: scrisse anche saggi critici di letteratura e mitologia, una copiosa raccolta di versi intitolata Poesie (che fu pubblicata postuma, nel 1863), nonché un poemetto epico-libertario intitolato La Pietà (forse ispirato all’Etruria Vendicata di Vittorio Alfieri).Le poesie di Niccolini - per la maggior parte odi e sonetti - risentono molto della formazione classica dell’autore, e infatti sono scritte con uno stile ampolloso, enfatico, prolisso, a tratti roboante e, persino, un po’ declamatorio. Ma, nonostante ciò, palpitano di sincero ardore libertario, rivelando anche qui l’animo vulcanico e passionale del veemente poeta delle tragedie.Nell’ambito della poesia niccoliniana, risulta particolarmente interessante e degna di nota una serie di sonetti antirussi che flagellano senza pietà l’autocrazia zarista e l’imperialismo moscovita. Questi sonetti, ispirati alla Guerra di Crimea (1853-1855), che vide le truppe di Francia, Inghilterra e Piemonte intervenire a fianco della Turchia ottomana in guerra con la Russia zarista per il possesso della penisola di Crimea, sono decisamente pungenti e graffianti, e risentono molto dell’influsso satirico dell’Alfieri misogallico. Niccolini si scaglia con un astio davvero pieno di sarcasmo contro la barbarie russa, contro il dispotismo zarista e contro l’utilizzo sconsiderato delle truppe cosacche per reprimere nel sangue ogni anelito di rivolta dei popoli oppressi dalla tirannide moscovita. Si tratta di sonetti decisamente mordaci, che condannano implacabilmente la ferocia dell’imperialismo russo, che, proprio in quegli anni, era impegnato in una serie di sanguinose guerre di espansione nel Caucaso, nelle steppe dell’Asia centrale musulmana e nella gelida Siberia (come ben narra Jules Verne nel suo celebre romanzo Michele Strogoff). La denuncia e il sarcasmo flagellano senza pietà le efferatezze dei cosacchi e la durezza della politica espansionistica dell’Impero zarista nei confronti dei popoli confinanti con la Russia, il che crea un perfetto parallelo con i sonetti misogallici alfieriani in cui il poeta astigiano condanna la brutalità delle armate rivoluzionarie francesi, guidate dall’”ignobile Capitan Pitocco” (cioè, il Bonaparte), nell’assurdo tentativo di portare la loro sanguinaria libertà nelle terre italiche destinate a veder spuntare le “Repubbliche funghine”, su imitazione della da lui tanto detestata Repubblica di Francia. Sarebbe davvero bello poter rileggere in una moderna edizione, magari tascabile, le Tragedie e le Poesie di Niccolini, ma, purtroppo, questo continua a rimanere un desiderio vano. Dopo l’edizione completa delle Opere pubblicata dall’editore Guigoni, di Milano, tra il 1863 e il 1880, un’edizione moderna, riveduta e corretta di tutti gli scritti niccoliniani non è più stata data alle stampe.Dovrà forse il poeta uscire corrucciato come una furia dal suo marmoreo sepolcro di Santa Croce affinché una simile operazione editoriale venga finalmente intrapresa? Le lucrose leggi del Mercato e il totale disinteresse di gran parte degli odierni editori italiani per i nostri classici considerati “minori” è veramente senza limiti!