Riforme piccole (e sbagliate)
di Sergio Romano - 22/11/2009
Se fosse possibile scegliere tra la riforma della giustizia e una delle tante riforme di cui il Paese ha bisogno (pensioni, sistema fiscale, educazione, funzione pubblica) non avrei alcun dubbio. Sceglierei senza esitare la riforma della giustizia. Le cause civili sono interminabili e la durata dei procedimenti sta procurando danni irreparabili, tra l’altro, all’economia nazionale. L’obbligatorietà dell’azione penale è l’alibi che copre la discrezionalità dei magistrati inquirenti. Molti procuratori hanno ambizioni pubbliche che stravolgono la loro funzione originale. Le indagini hanno talora un sapore politico o un senso dello spettacolo che nuoce alla loro credibilità. Il Consiglio superiore è un parlamento in cui sono rappresentate correnti ideologiche. Un organo sindacale, l’Associazione nazionale magistrati, agisce come una lobby e cerca di condizionare la decisione delle Camere. Ripeto: se l’Italia vuole rimettere ordine tra i poteri dello Stato e restituire ai cittadini la fiducia nelle istituzioni, occorre partire dalla riforma della giustizia. Molti dei voti dati al centro-destra sono dovuti alla sua promessa di agire su un terreno in cui i governi di centro-sinistra sono stati esitanti e, alla fine, carenti.
Ma le promesse dei due ultimi governi Berlusconi sono state eluse. Le riforme, quando ci sono state, sono parse motivate soprattutto dal desiderio di risolvere i problemi personali del presidente del Consiglio. Possiamo cercare di comprendere le condizioni di un uomo che è stato oggetto di una sovrabbondante attenzione giudiziaria. Possiamo comprendere la necessità, nell’interesse del Paese, che i conti, come accade oggi in Francia, vadano regolati alla fine del mandato e che le procedure giudiziarie non entrino in rotta di collisione con il voto degli elettori. Possiamo immaginare gli effetti devastanti provocati da un giudizio che colpisce un uomo tuttora sostenuto da una larga parte del Paese.
Ma il maggiore ostacolo sulla strada della riforma è ormai rappresentato dal numero delle leggi ad personam approvate negli ultimi anni. Anche quando contengono norme con le quali è possibile convenire, queste leggi appaiono frettolosamente nelle aule parlamentari non appena il premier ne ha bisogno per allontanare o cancellare una scadenza giudiziaria. E sono opera di avvocati a cui il presidente del Consiglio, con una specie di cortocircuito istituzionale, ha conferito funzioni pubbliche. Non basta. L’ultima proposta rischia di rendere ancora più difficile il rapporto con il Quirinale, di approfondire il fossato tra maggioranza e opposizione, di aprire un interminabile contenzioso costituzionale, di oscurare i problemi a cui dovremmo dedicare la nostra attenzione.
A questo, punto sperare in una riforma complessiva che comporti, tra l’altro, la separazione delle carriere e una diversa composizione del Consiglio superiore della magistratura, è diventato illusorio. Le piccole riforme, quando sono attuate con questo spirito, cancellano la grande riforma dall’agenda nazionale. Silvio Berlusconi è ancora, grazie alla sua vittoria elettorale, il presidente del Consiglio degli italiani. Ma non può essere l’arbitro del grande dibattito parlamentare necessario alla riforma della giustizia. Per ottenere uno scopo limitato e personale ha privato l’Italia di ciò di cui ha maggiormente bisogno.