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La plutocrazia “egualitaria”

di Luca Leonello Rimbotti - 24/11/2009

 
 
La grande truffa della politica moderna consiste essenzialmente nel rappresentare con paludamenti democratici ed egualitari ciò che invece è, con ogni evidenza, un sistema dominato da un’associazione privata esclusivista, che considera la politica il terreno in cui si difendono i privilegi di casta. L’incredibile trucco funziona, poiché viene fatto in faccia a popoli ormai da molti decenni devitalizzati e progressivamente privati della facoltà di guardare negli occhi il potere e di spogliarlo dei suoi falsi rivestimenti di giustizia. La suddivisione planetaria tra una setta padronale e una moltitudine di chandala, mantenuti estranei ad ogni accesso al decisionismo, è l’ultima parola di ciò che viene definito genericamente col termine di “liberalismo”.

Alle origini della nostra civiltà, ad esempio in Grecia, l’uguaglianza come teorema a-priori dell’indifferenziato, semplicemente non esisteva. Esisteva qualcosa che era il suo contrario: il concetto di democrazia, del tutto opposto a quello di rappresentanza parlamentare di stampo anglosassone quale è prevalso in Occidente. Esso implicava l’idea di eguaglianza di stirpe tra simili, omogenei in cultura, origini, tradizioni, destino. La democrazia diretta, partecipativa ed acclamatoria, puntava non all’eguaglianza come utopia ideale astratta, quindi mai applicabile nella pratica, ma piuttosto alla concreta e reale isonomìa, cioè al mantenimento di quel reticolo di diritti e doveri reciproci che fondavano il legame sociale, la comunità. All’interno della quale, i cittadini si vedevano garantita un’eguale ripartizione di onori e oneri. L’isonomìa è la deposizione nel mezzo della comunità – simbolicamente rappresentato dall’agorà – di ogni individualità, che si deve estinguere nel passaggio alla partecipazione pubblica: si voleva rappresentare, allegoricamente e di fatto, la rinuncia da parte di ogni cittadino del proprio “particolare”, un liberarsi del fardello dell’interesse privato. Questo atto garantiva l’elevazione alla dimensione comunitaria, il luogo dove si celebrava la democrazia vera, il governo del popolo per il popolo.

Il mondo moderno non ha avuto pace fino a quando non ha abbattuto il diritto naturale organico, attraverso la distruzione della società tradizionale, basata sulla giustizia più che sull’eguaglianza. Questa veniva considerata solo in chiave di appartenenza relativa, nulla di così intoccabile e totemico come oggi: “giustizia” era la parola dell’ordine antico, che riassumeva l’idea di eguaglianza e quella distributiva, che anima la funzione dell’altruismo. Con i sogni in rosa di Rousseau e i deliri in rosso giacobino-bolscevichi, l’eguaglianza ha cessato di essere una realtà di associazione tra simili, presente in ogni elevata società umana, a Sparta come a Roma. Ed è divenuta una fanatica utopia politica, suddivisa nelle due moderne braccia della tenaglia egualitarista, la democratica e la liberale. La prima pacifista e universalista, la seconda competitiva e individualista. Oggi la filosofia politica non conosce altra posizione. Quella realistica, naturale, arcaica, è stata dimenticata. O meglio, viene tenuta ben nascosta alla vista.

Di fronte alle due concezioni illuministiche, una che considera gli uomini tutti uguali nelle possibilità e nei bisogni (marxismo), l’altra che riconosce parità di diritti al via, poi divaricati dalla lotta per la vita che stabilisce le diversità (liberalismo), noi ne rivendichiamo un’altra, quella eterna che considera uguale solo il simile e che, di conseguenza, garantisce la giustizia sulla base del principio della differenziazione.

L’imposizione prescrittiva dell’idea di uguaglianza veicola una violenza ideologica ben nota alla storia moderna: gli uomini devono essere tutti uguali. Le mostruose dittature che ne sono scaturite hanno dimostrato quanto incredibilmente assurda fosse questa nevrosi culturale…tuttora in ottima salute mass-mediatica, grazie al suo potente arsenale propagandistico.

Ma anche l’imposizione descrittiva di una eguaglianza di partenza che si risolve nella lotta belluina tra astuzie e capacità, come l’interpreta il mercantilismo liberista, è qualcosa che, da Pericle a Mazzini e oltre, sarebbe stato visto come un’ingiuriosa mancanza di sensibilità comunitaria, un brutale scatenamento dei più primitivi egoismi.

Si sono potuti trovare nei tempi recenti innumerevoli intellettuali che, da Bobbio a Dahrendorf, hanno divulgato la confusione lessicale tra eguaglianza, libertà e giustizia, agendo sugli assunti dell’indimostrato. Si è pestato con forza il pedale della dissoluzione dell’organicismo tradizionale, fomentando con ogni energia la teoria di una forzata espansione dei diritti civili e di un incatenamento crescente del potere statale, considerando l’avanzata della società privata e la disintegrazione della politica come un passaggio necessario per imporre non una società veramente democratica, ma egualitaria di nome e non di fatto. Risultato? I grandi livellatori ideologici hanno costruito un moloch di inattaccabile ingiustizia sociale. I fanatici dell’eguaglianza hanno eretto muraglie invalicabili tra l’oligarchia al potere e le masse abbandonate all’inganno.

Basti considerare la cultura. La massificazione indifferenziata ha aperto le porte all’ignoranza generale, colpendo a morte ogni possibilità di espressione del genio: oggi la cultura è defunta da un pezzo. In suo luogo, abbiamo la degradazione del sapere sancita dalle pallide vestali del più sterile e increativo criticismo. Nella società organica tradizionale non c’era l’egualitarismo, ma esisteva l’uguaglianza, quella espressa dalla giustizia. E la cultura popolare era alta cultura e, come ha scritto , «in Grecia l’Odissea e l’Iliade furono opere popolari, nel medio evo le cattedrali erano cosa del popolo e le canzoni popolari sprizzavano grazia e nobiltà». L’appiattimento generale costruito dal pregiudizio egualitario ha finito col portare al potere brandelli di plebe arricchita, decretando la fine di ogni idea di vera comunanza tra eguali, che in passato aveva espresso la millenaria pratica di capi legati al destino della comunità di popolo e di lavoro, dei cui valori di appartenenza erano il simbolo vivente e riconosciuto.