Egitto: il problema non è se ci sarà un terremoto ma quale sarà la sua potenza
di Moreno Pasquinelli - 31/12/2009
Fonte: campoantimperialista
Dopo i violenti “moti del pane” della primavera 2007 (moti che dilagarono a macchia d’olio in diversi paesi del “terzo mondo”), e lo sciopero generale dell’aprile di un anno dopo, in Egitto regna un’apparente pace sociale. Il tirannico regime di Hosni Mubarak difficilmente l’avrebbe scampata senza gli aiuti elargiti da Washington. L’Egitto è infatti un perno cruciale della pax americana in Medio oriente, e questo spiega come mai questo paese venga subito dopo Israele in quanto a sostegno finanziario da parte degli Stati Uniti. Nonostante l’appoggio dell’Occidente e dei regimi del Golfo ad esso alleati, il sistema rimane sull’orlo del collasso.
Le rivolte sociali I commentatori arabi non del tutto asserviti ai loro committenti non hanno dubbi: paesi come la Giordania, il Marocco e l’Egitto, contrariamente all’apparenza, sono segnati dall’intreccio di una profonda crisi, economica, sociale, politica e istituzionale. Inflazione fuori controllo, livelli di povertà e disoccupazione endemici, welfare pressoché inesistente, corruzione e nepotismo dilaganti, meccanismi istituzionali ed elettorali truffaldini. I regimi si tengono in piedi solo grazie ad una repressione sistematica e al sostegno, sempre più cieco quanto vergognoso, dell’Occidente. Se nel biennio 2004-2005 il paese fu scosso da proteste di piazza deliberatamente politiche, ovvero animate da forze d’opposizione, in primo luogo dalla coalizione di sinistra Kifaya e dai Fratelli Musulmani, nel biennio successivo, 2007-2008, le proteste, ben più ampie, furono spontanee, causate da motivi legati all’aggravarsi delle già pessime condizioni di vita degli strati più poveri della popolazione. La rivolta del marzo 2007, più nota come “rivolta del pane”, causata appunto dall’improvvisa carenza di pane a prezzi calmierati, pur repressa con la forza, diede il via ad un prolungato movimento di scioperi che proseguì per un anno intero, fino allo sciopero generale nazionale del 6 aprile 2008, in occasione del quale, in numerose città egiziane, decine di migliaia di dimostranti scesero in strada e si scontrarono con le forze di polizia e l’esercito. La sommossa durò due giorni e solo con grande fatica il regime riuscì a sedarla, che infatti rinnovò, rendendolo permanente, lo Stato d’emergenza.
Ad un anno da quelle rivolte popolari l’Egitto è intrappolato nella morsa di ferro del regime di Mubarak, un regime monopolizzato dal suo partito (Partito Nazionale Democratico), che a sua volta altro non è che un aggeggio del suo proprio clan, ma dove l’Esercito gioca la parte del leone.
E’ senso comune tra i cittadini egiziani che il paese sia alle porte di un profondo cambiamento. La seconda forza d’opposizione di una certa consistenza è quella che si raggruppa attorno al prestigioso giornale al-Badeel (l’Alternativa), capeggiato da uno dei più autorevoli intellettuali egiziani: Mohamed el-Sayed Said. Militano attorno ad al-Badeel, democratici radicali in stile europeo, vecchi intellettuali marxisti, come anche nasseriani ed ex-panarabisti. In poche parole si tratta d una sinistra moderata o “riformista”, che guarda deliberatamente agli esperimenti della sinistra latino-americana, anzitutto a quella del PT di Lula in Brasile. La terza forza d’opposizione a Mubarak è quella rappresentata dal Fronte Democratico, fondato nella primavera del 2007. Un movimento di impronta chiaramente conservatrice e borghese, con la testa rivolta al liberalismo europeo, ostile ad ogni mutamento che non sia nel quadro del sistema vigente. Il suo leader più importante, Osama Ghazali Harb, parlamentare e noto giornalista, è stato anche membro del governo, fino a quando non si è dovuto dimettere a causa delle pressioni dell’establishement del PND. Dilaniato dalle lotte intestine il Fronte Democratico è attualmente in grave crisi. Ma non va sottovalutato a causa delle simpatie che esso gode non solo in Europa ma pure oltreoceano.
I Fratelli Musulmani (formalmente illegali) sono, grazie al grande seguito che hanno nei più diversi strati sociali del paese, di gran lunga la forza principale dell’opposizione. Anche i Fratelli Musulmani attraversano una grave crisi interna, divisi in due correnti in accanita lotta fra loro: un’ala “modernista” che vorrebbe coniugare precetti islamici e democrazia e un’apertura agli occidentali, e una più dura e intransigente, se non proprio salafita che vorrebbe in Egitto l’applicazione della sharia.
Nel 2010 ci saranno in Egitto le elezioni parlamentari e nel 2011 quelle presidenziali. Kifaya, dopo le grandi manifestazioni antigovernative della settimana scorsa ha già annunciato, attraverso il suo coordinatore Abd al-Hamid che, date le regole truccate con cui le elezioni si svolgeranno, chiamerà al boicottaggio del voto. Una posizione che viste la percentuale di non votanti alle ultime elezioni (circa l’80%) punta a delegittimare non solo il regime, ma le elezioni come una farsa. Per quanto riguarda le presidenziali del 2011 è noto come Mubarak e il suo clan punti a far eleggere come presidente suo figlio Gamal, dando così via ad una nuova dinastia mediorientale. Per assicurarsi in anticipo la vittoria i Mubarak (padre e figlio ) hanno fatto approvare a passo di corsa una insidiosa riforma costituzionale, esattamente all’articolo 76, per cui il presidente sarà d’ora in avanti eletto a suffragio universale (ovvero come di norma da circa il 20% degli elettori). Tutte le forze d’opposizione sono insorte, denunciando questa modifica come una fraudolenta istituzionalizzazione della dittatura presidenzialista, ovvero del predominio assoluto del clan Mubarak. |


Indagine sulla situazione sociale e politica egiziana