Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Gaza un anno dopo: le conseguenze di una tragedia

Gaza un anno dopo: le conseguenze di una tragedia

di Donald MacIntyre - 31/12/2009

 



Hilmi Samouni spera ancora – “inshallah” – di ritornare al suo vecchio lavoro di assistente di cucina al Palmyra, il ristorante di shawarma più conosciuto di Gaza. Ma a differenza del fratello 22enne Khamiz, che lavora di nuovo nel negozio di vernici per auto, e del cugino 20enne Mousa, in un corso di contabilità di due anni all’università di al-Azhar, Hilmi, che ha 26 anni, quando è tornato al Palmyra dopo la guerra ha scoperto che non riusciva a farcela. “Sono stati tutti molto solidali”, dice, “ma non riuscivo a fare un buon lavoro”. A differenza di Mousa, che pure ha perso i genitori, e di Khamiz, Hilmi ha visto non solo i corpi del padre Talal e della madre Rahme, ma anche della moglie Maha, 20 anni, e del loro unico figlio Mohammed di sei mesi, tra i 21 uccisi nel bombardamento del magazzino in cui le truppe israeliane avevano ordinato loro di radunarsi. A Hilmi dispiace ancora di non avere foto di nessuno di loro; erano state bruciate nel bombardamento della loro casa, il giorno prima.

Ora Hilmi gironzola intorno alla casa, tra frutteti devastati e stie per polli nel distretto di Zeitoun, nella zona meridionale di Gaza City. I graffiti in inglese ed ebraico nelle pareti interne, lasciati dagli uomini della brigata Givati dell’esercito israeliano, sono gli unici resti delle due settimane di occupazione dell’edificio – una lapide disegnata di fianco alle parole “Gaza siamo stati qui”; “Fuori uno, ne mancano 999mila”; “Morte agli arabi”. La famiglia ha lasciato deliberatamente i graffiti in vista? “Sì, ma non avevamo comunque la vernice per coprirli”, risponde. Uno dei compiti di Hilmi è aiutare a badare alla sorella di 11 anni Mona, che gira le pagine di disegni ispirati dai ricordi della mattina del 5 gennaio 2009. “Questa sono io che pulisco il viso della mamma che è morta. Questo è mio padre che è stato colpito alla testa e il cervello è uscito fuori. Questa è mia cognata morta. Questa è mia sorella mentre prende il figlio di mia cognata …”

Il bombardamento del magazzino ricordato nei disegni di Mona è stato uno dei peggiori attacchi su civili a Gaza delle forze israeliane tra il 27 dicembre e il 18 gennaio. L’offensiva militare israeliana doveva arrivare da tempo, ma i molteplici raid di quella domenica pomeriggio con cui iniziò furono comunque una sorpresa. L’obiettivo dichiarato era fermare gli attacchi con razzi e mortai – 470 dei quali hanno diffuso senza dubbio la paura nelle comunità di confine del sud di Israele, dopo che un raid israeliano contro Hamas aveva posto fine nel novembre 2008 a una tregua difficile ma ampiamente efficace che durava da cinque mesi.

Ma se il momento fu una sorpresa, lo fu ancora di più la ferocia senza precedenti dell’attacco sulla regione controllata da Hamas. Dopo più di due settimane di guerra, il ministro degli Esteri Tzipi Livni ostentava in un’intervista radiofonica che “Israele … è un Paese che quando spari ai suoi cittadini risponde diventando furioso – e questa è una cosa positiva”. Sia che il bersaglio di Israele fosse la popolazione civile, come accusa il rapporto commissionato dall’Onu del giudice Richard Goldstone sull’operazione Piombo Fuso, sia che i militari semplicemente mettessero in secondo piano la sopravvivenza dei palestinesi rispetto a quella delle proprie truppe, come alcuni soldati finora hanno testimoniato, le immagini raccontano una propria storia in merito al punto cui arriva “un Paese” quando diventa “furioso”. Sebbene contestata dai militari, una ricerca esaustiva condotta dalla rispettabile organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha indicato il numero totale di morti in 1387, di cui 773 erano civili. Nello stesso periodo quattro israeliani sono stati uccisi in Israele dal lancio di razzi, e nove soldati a Gaza, quattro per fuoco amico. Poiché le frontiere erano chiuse, non c’è stata nessuna ondata di rifugiati fuori da Gaza come sarebbe successo in seguito a un attacco simile in qualsiasi altra parte del mondo.

Il bombardamento mattutino del magazzino quasi finito di Wael Samouni – dove circa un centinaio della sua famiglia allargata, incluso il suo giovane parente Hilmi, si era messo al riparo – è uno dei venti episodi su cui sta indagando la polizia militare israeliana. Il mese scorso, considerato che finora solo un soldato è stato processato per condotta di guerra – per aver rubato una carta di credito palestinese – B’Tselem ha protestato per il fatto che, essendo l’esercito stesso a condurre le indagini, ogni imputazione sarà diretta soltanto contro “i livelli più bassi” e che ci sarebbe bisogno di un’inchiesta indipendente capace di attribuire la colpa agli “alti ufficiali” e al governo che prende le decisioni per quanto riguarda i “livelli politici”.
In ogni caso, non c’è ancora alcun segno di indagine su un incidente separato avvenuto la mattina del giorno precedente, il primo dell’invasione via terra. Soldati israeliani, con i visi mimetizzati in nero, alcuni con dei rami intorno agli elmetti, assaltarono la casa dietro quella di Hilmi, dove suo zio, Atiya Samouni, un agricoltore di 46 anni, si era rifugiato con le due mogli e i 15 figli.

La famiglia dice che la porta principale era stata lasciata aperta deliberatamente così che le truppe potessero vedere mentre avanzavano che c’erano dei bambini all’interno. Secondo il loro resoconto, Atiya, che parlava un po’ di ebraico, camminò con le mani alzate verso la porta aperta della stanza dei bambini – dove la famiglia era ammassata – per mostrarsi ai soldati che ormai erano nel salotto adiacente. Suo figlio Ahmad di quattro anni lo seguì, gridando “Baba, baba” – “papà” – e Atiya gli disse: “Non avere paura”. Ma appena Atiya iniziò a parlare ai soldati venne colpito a morte. Le truppe iniziarono poi a sparare nella stanza dei bambini, mentre gli adulti urlavano “katan” e “ktanim” – “bambini piccoli” in ebraico. Cinque dei bambini furono colpiti; Ahmad fu raggiunto da due spari al petto, fatali.

Undici mesi più tardi, a prima vista la vedova Zeinat Samouni sembra allegra mentre spinge con un sorriso ospitale i visitatori a prendere uno dei dolcetti tondi che sta cucinando per l’imminente festività musulmana di Eid al-Adha nell’unica stanza che adesso divide con i sette figli sopravvissuti. Ma non riesce a smettere di piangere quando descrive come lasciarono la casa – e il cadavere del marito – con uno dei figli più grandi che trasportava il corpo sanguinante di Ahmad verso la casa di un altro parente. Quando venne la sera, diede ad Ahmad, il viso ormai giallo, del pane inzuppato nell’acqua; “Era come dar da mangiare a un uccellino”, ricorda. La famiglia chiamò un’ambulanza ma gli dissero che era troppo pericoloso avvicinarsi a quell’area. Ahmad morì nelle prime ore del lunedì mattina. “Se avessimo potuto raggiungere un’ambulanza, penso che sarebbe ancora vivo”, dice.

La figlia di Zeinat, Amal di 10 anni, porta nella tasca ovunque vada due foto consunte di suo padre e di suo fratello morti. “Voglio guardarli sempre”, dice, quasi un anno dopo che sono stati uccisi. “La mia casa non è bella senza di loro”. Anche Amal è stata ferita e dice che la testa e l’occhio destro le fanno ancora male. Ma il trauma psicologico di Amal è aggravato dal fatto che scappò prima che la madre e i fratelli e sorelle lasciassero la casa dopo gli spari. Quattro giorni dopo fu trovata, semisepolta sotto le macerie, deidratata e in stato di shock, una dei 15 altri sopravvissuti trovati nelle immediate vicinanze quando le ambulanze della Croce Rossa finalmente ottennero il permesso di avvicinarsi abbastanza per tirarli fuori. A scuola, le materie preferite di Amal sono inglese e arabo. “Non conosco molto l’inglese, ma mi piace”, dice la ragazzina, che da grande vuole fare il dottore.

Dei figli di Atiya avuti dall’altra moglie, Zahawa, il più colpito è Kannan, adesso 13enne, che ancora zoppica per il colpo di pistola alla coscia sinistra. Prima della guerra, era un appassionato centrocampista ma ora non gioca più a calcio. Anche per lui, l’impatto non è stato solo fisico. Nei mesi successivi alla sparatoria, ha avuto degli incubi – e fu trovato numerose volte a piangere nel sonno o a gridare “Vogliono uccidere mio padre”. “Non va al bagno da solo”, dice sua madre, aggiungendo che si spaventa facilmente – per esempio al suono dei colpi di pistola del vicino centro di addestramento di polizia di Hamas. Anche Kannan ha un album per gli schizzi – il consulente che lo ha seguito per quattro mesi dopo la guerra lo ha incoraggiato a disegnare. Dipinge la sparatoria contro suo padre … bambini spaventati dagli aerei sopra di loro … una moschea distrutta.

Anche per i Samouni, comunque, la vita va avanti. La famiglia di Kannan dovrebbe riuscire a breve a coltivare sei file di lattuga, peperoni e pomodori su un piccolo appezzamento di terra, grazie al progetto di riparazione dell’irrigazione della Croce Rossa – due pozzi sono stati distrutti durante l’occupazione militare di Zeitoun. Non sono abbastanza per essere venduti, come facevano una volta, ma è un inizio. Anche i cugini hanno avuto in prestito un acro di terra, dove producono olive, fichi e verdure.

Giù in strada, il 22enne Rami Samouni, il cui fratello Hamdi è stato ucciso dalle forze israeliane insieme ai 18mila polli nella stia, sta aiutando a ricostruire la casa distrutta del cugino Arafat. La ricostruzione è in parte finanziata dai 4 mila euro di compensi che il governo di Hamas ha stanziato per chiunque abbia perso del tutto la casa, insieme ai circa 3500 euro dalla rivale Autorità Palestinese di Ramallah, discretamente canalizzati attraverso il programma di sviluppo delle Nazioni Unite per assicurarsi che ai beneficiari non si applichi nessuna discriminante politica. Rami, che si laureerà l’anno prossimo con una laurea in educazione dell’università di al-Azhar, vede la ricostruzione come una metafora. “Bisogna avere speranza. Se ti consideri malato, starai male. Muori se non ricostruisci. I nostri nemici vogliono che ci arrendiamo e smettiamo di vivere. Dobbiamo andare avanti”. Nonostante i suoi discorsi sui “nemici”, Rami dice più di una volta nella nostra conversazione che accetterebbe una soluzione basata sui confini del 1967, con Israele e uno stato di Palestina che vivano fianco a fianco.

Anche altrove, ci sono prove varie ma pervasive della famosa resistenza di Gaza, anche dove i danni sono peggiori. Un anno dopo, ci sono poche viste più tetre delle macerie lasciate nell’inverno scorso dagli attacchi dinamitardi su larga scala e dalle demolizioni delle case dei distretti settentrionali di Gaza di Abed Rabbo e Atatra. Tutti, tranne una piccola minoranza, quelli rimasti senza un tetto a causa della guerra hanno affittato una casa o sono ospitati dai parenti. Ma in Atatra, dove la maggior parte delle distruzioni avvenne negli ultimi giorni di guerra, alcuni vivono ancora nelle tende. Sembra che siano le donne qui a tenere insieme le cose. La casa di Arifa abu Leila, 40enne madre di nove figli, fu distrutta dopo che la famiglia fu costretta ad andarsene dai soldati israeliani. Adesso, sotto i teloni, la famiglia ha solo una manichetta e una larga ciotola di plastica per lavarsi. Dice che la famiglia non ha mai ricevuto i 4 mila euro dalle autorità di Hamas e crede che la ragione possa essere che suo marito “era dentro Hamas ma poi se ne andò molto tempo fa”. Ma quando il marito Saleh arriva, nega categoricamente di essere mai stato dentro Hamas.

Il vicino, il 30enne Majda Ghabin, ha una ragione decisamente più positiva per vivere in una tenda. Con i soldi che ha ricevuto per la sua casa – distrutta dopo che fu costretto a uscire, fu arrestato dalle truppe israeliane, e trattenuto in Israele per cinque giorni durante la guerra – ha recuperato la sua terra e investito in carote, più convenienti da curare rispetto alle fragole che coltivava prima. “Ho pensato che era meglio continuare a lavorare piuttosto che trovare un’altra casa”, spiega. “Così posso fare un po’ di soldi e magari costruire una casa in futuro”.

Su nel distretto di Abed Rabbo, a est di Jalabia vicino al confine israeliano, le rovine hanno persino generato una loro microeconomia. Ogni mattina alle 6.30, Saber Abu Freih e la madre 60enne Ghazala arrivano a quella che una volta era la loro casa, in parte per setacciare – finora invano – le macerie alla ricerca dei gioielli che hanno lasciato indietro 11 mesi fa e in parte per caricare un carro trainato da un asino con la muratura distrutta che serve a costruire nuovi fabbricati isolanti per costruzioni di piccola scala. Un giorno di lavoro può portare 100 shekel [18,28 euro] da dividere con i sei fratelli. “Stiamo pulendo le strade e raccogliendo le pietre che saranno usate per costruire allo stesso tempo”, dice allegramente. “Possiamo raggiungere solo 10 shekel [1,83 euro] al carro. Ma cosa possiamo farci?”

Carri trainati da asini come questo vanno verso i cantieri di al-Shobaki per essere sbriciolati e trasformati in blocchi da costruzione. Qui il proprietario, Abdel Salem al Shobaki, descrive in modo succinto la spirale di affari della sua compagnia da quando i lavori iniziarono durante l’apice dell’Intifada nel 2003 come “da eccellente a buono a cattivo a incredibile”. Il periodo da “cattivo a incredibile”, che è iniziato a metà del 2007, riflette la recente storia politica di Gaza. Avendo vinto le elezioni del 2006 per il parlamento palestinese, con la costernazione praticamente di tutti, probabilmente anche di Hamas, il partito militante islamico si ritrovò rapidamente ai ferri corti non solo con Israele e la comunità internazionale, uniti nel chiedere ad Hamas di riconoscere Israele -cosa che risolutamente non ha fatto - ma anche con Mahmoud Abbas, presidente della Palestina del partito di Fatah, che a differenza dei suoi co-abitanti politici ha da tempo rinunciato alla violenza e abbracciato l’idea di una soluzione a due Stati. Nonostante le crescenti tensioni del 2006, esacerbate dal rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit e dal conseguente conflitto militare, una breve coalizione con Fatah, mediata dai sauditi, fu messa in piedi nel febbraio 2007. Nel giugno di quell’anno però la coalizione si ruppe tra selvagge lotte intestine per le strade di Gaza, decisamente vinte da Hamas, che prese il controllo di Gaza. Abbas “licenziò” il primo ministro di Hamas Ismail Haniyeh, lasciando il futuro putativo stato palestinese spaccato tra la Cisgiordania sotto il suo controllo, e Gaza sotto il controllo di Hamas. E Israele impose un assedio economico totale che bloccò in un colpo quelli che una volta erano i vivaci settori manifatturieri e agricoli di Gaza – che spesso esportavano ai partner commerciali israeliani – chiudendo le frontiere a tutti tranne al passaggio verso l’interno di beni umanitari essenziali. È una politica per la quale il milione e mezzo di abitanti di Gaza sta pagando il prezzo da allora.

Tra le tante altre cose, lasciò al-Shobaki a corto di prodotti cruciali che importava regolarmente da Israele. Da giugno 2007, dice, ha avuto “4 mila tonnellate di ghiaia ma niente cemento”. Poi due mesi fa, al-Shobaki – che dice di pagare 15-20 shekel [2,75-3,65 euro] per un buon carro di macerie – riuscì finalmente a procurarsi abbastanza cemento per avviare di nuovo i lavori in corso, grazie ai tunnel attraverso i quali viene contrabbandato dall’Egitto. Gli abitanti di Gaza sono spesso scettici riguardo alla qualità del cemento egiziano – c’è in giro una storiella secondo cui una nuova moschea affiliata di Hamas nella strada sul mare della Città di Gaza è rimasta incompleta perché gli imam stanno resistendo per avere il cemento israeliano. Ma il vero problema è il prezzo. Al-Shobaki paga 1.400 shekel [256 euro] una tonnellata di cemento egiziano proveniente attraverso i tunnel – rispetto ai circa 380 shekel [69,50 euro] che pagava quando i passaggi erano aperti e arrivava da Israele. “Prima di tutto mi piacerebbe vedere una riconciliazione tra Fatah e Hamas”, dice, “poi vorrei vedere i valichi aperti. Chiunque dica che l’economia israeliana e quella di Gaza non sono connesse è stupido. Sono un’economia sola”. Comunque sia, i tunnel gli hanno permesso di ricominciare la produzione – anche se con un profitto vicino allo zero. Per la maggior parte della popolazione di Gaza, al momento sono l’unico contatto tangibile con il mondo esterno.

Una larga tendopoli si estende lungo il bordo meridionale di Gaza, a Rafah, sulla vecchia Philadelphi Road che fino al 2005 era terra di nessuno sotto il controllo israeliano tra Gaza e l’Egitto. Guardati dall’alto delle torri di guardia della sicurezza egiziana che si alzano sopra le palizzate di frontiera sul lato sud e dai blocchi di appartamenti consumati dai bombardamenti israeliani dagli anni dell’Intifada sul lato palestinese, le tende proteggono le entrate delle centinaia di tunnel dove si contrabbanda. Questi tunnel sono stati l’ancora di salvezza di Gaza da giugno 2007 – e hanno continuato a esserlo nonostante i bombardamenti israeliani quasi quotidiani durante l’operazione Piombo Fuso e i 117 lavoratori morti l’anno scorso, soprattutto a causa di collassi naturali dei tunnel. Adesso i tunnel sono tra i primi obiettivi di rappresaglia delle forse aree israeliane ogni volta che un razzo Qassam viene lanciato verso il sud di Israele in violazione di un non dichiarato ma, quasi sempre, effettivo cessate il fuoco.

Oggi, mentre il sole di fine novembre tramonta sul Mediterraneo a ovest e un solitario F16 vola in alto, una macchina per movimenti di terra è al lavoro da molte ore per riparare l’entrata di un tunnel distrutto quel mattino. Mentre sorveglia le macerie, il lavoratore dei tunnel Abu Yusef ricorda di quando una volta guadagnava 300 shekel [54,85 euro] al giorno come giardiniere in Israele quando i passaggi erano aperti, e tornerebbe volentieri a farlo piuttosto che rischiare la vita per un terzo di quello che prendeva. “Se ci fosse un altro lavoro, non guarderei più ai tunnel”, dice.

Uno dei proprietari del tunnel distrutto, che risponde solo al nome di Abu Hassan, stima che riparare il tunnel gli costerà quasi 45 mila euro ma che, alla fine, ne varrà la pena. Sciorinando i prodotti che trasporta attraverso i tunnel – “vestiti e cibo, cioccolata Galaxy, bottiglie di coca-cola vuote, biscotti” – ammette: “Mi ci vorranno cinque mesi per recuperare i costi di riparazione – prima sarebbe bastato un mese”. Gli affari, infatti, sono in crisi, soprattutto perché il mercato è saturato dai tunnel stessi. Mentre supervisiona l’arrivo di una consegna di bambù e spiega che anche il suo tunnel commercia “vestiti e pecore”, Mohammed, 27enne di Khan Younis, dice: “Non è più come era una volta – ci sono un sacco di prodotti a Gaza. Gaza è piena di bambù”.

Ogni diplomatico familiare con la zona crede che Hamas stia in realtà arricchendosi con l’economia dei tunnel creata dall’assedio. Non è solo per i 10 mila shekel [1.828,60 euro] che ogni operatore deve pagare alla municipalità di Rafah controllata da Hamas, apparentemente per “norme e salute e sicurezza” – ma che non hanno evitato la morte di 32 tra bambini e giovani minorenni quest’anno nei tunnel. Un importante uomo d’affari di Gaza dice che anche Hamas introduce beni di consumo attraverso i propri tunnel segreti – quelli che Israele crede siano usati per importare armi – e poi ingaggia commercianti domestici per distribuire i prodotti e dividere i profitti con il partito. Tutto questo non fa che sembrare ridicola l’idea che il blocco imposto da Israele danneggi Hamas piuttosto che la popolazione civile.

Grazie ai tunnel, i negozi non sono mai stati più pieni da giugno 2007, rendendo probabilmente un po’ più allegro dell’anno scorso lo scambio di regali della festività musulmana di Eid al-Adha, con tantissime merci egiziane – almeno per quelli che possono permettersele. Una buona scatola di cioccolatini importati costa circa 150 shekel [27,43 euro] rispetto ad appena 60 shekel [11 euro] quando veniva da Israele, una felpa tre volte il suo vecchio prezzo di 50 shekel [9 euro]. Ma l’Eid di quest’anno significa anche qualcos’altro: una profonda riluttanza da parte di molti abitanti di Gaza a crogiolarsi nel proprio dolore e perdita post-bellici. Certo, un commerciante di bestiame di Jabalya stima che solo il 35 per cento delle famiglie di Gaza potranno permettersi una delle pecore tradizionali per l’Eid – sudanesi, libiche o egiziane quest’anno perché importante attraverso i tunnel. Ma nelle vivaci piume rosa o nei fiori di stoffa sfoggiati tra i capelli da ragazzine perfettamente eleganti tra le rovine di Atatra, o nelle feste delle giovani donne di classe media – con le teste coperte con stile – affollate dentro l’hotel alla moda di al-Deira sul lungomare, è visibile una determinazione a tirar fuori il meglio dalla festività.

Lo stato d’animo celebrativo era certamente rafforzato dalla speranza di un imminente scambio di prigionieri per il rilascio di Gilad Shalit – e la prospettiva, effettiva o meno, che sarebbe stato seguito da una distensione almeno parziale dell’assedio israeliano. Ma quello che nemmeno le celebrazioni dell’Eid né il costante, seppur costoso, flusso di beni di consumo attraverso i tunnel possono mascherare è la portata e l’impatto della regressione di Gaza. Jadwat Khoudary, uno dei più importanti uomini d’affari di Gaza, sottolinea che persino in tempi “normali” – senza l’attuale urgentissimo bisogno di massiccia ricostruzione post-bellica – la richiesta di cemento ogni giorno a Gaza era di circa 1.500 tonnellate. Il cemento costoso che arriva attraverso i tunnel ammonta a circa 150 tonnellate, abbastanza per relativamente poche famiglie individuali per riparare le proprie case danneggiate dalla guerra. E [Khoudary] dà un esempio impressionante dell’economia di Gaza modello “Alice nel Paese delle meraviglie” attraverso una delle sue compagnie, che al contrario di centinaia di altre è – appena – riuscita ad andare avanti. Una volta fabbricava gommapiuma elastica, usata nella produzione di massa di cuscini. Ma poiché le materie prime chimiche non sono più disponibili da Israele, la fabbrica ora produce il 5 per cento di quanto faceva in passato, tagliando e formando gommapiuma elastica già pronta importata attraverso i tunnel. Ha licenziato più di 200 lavoratori; la maggior parte dei quali ha trovato lavoro “nella polizia interna di Hamas, nella polizia [regolare], nel ministero del Lavoro [di Hamas] o nelle municipalità guidate da Hamas. Come posso fargliene una colpa se io non riesco a pagare gli stipendi?”, dice.

Stiamo parlando alla vigilia dell’Eid nel suo frequentato – ma adesso, nel tardo pomeriggio, vuoto – ristorante sul lungomare. “Perché crede che non ci sia nessuno qui?”, gli chiedo. “Perché la maggior parte della gente sta digiunando prima dell’Eid. Vent’anni fa solo l’1 per cento l’avrebbe fatto. Oggi è circa il 90 per cento”. Sebbene Hamas non abbia emanato nessun editto a questo proposito, Khoudary ritiene che il fenomeno sia il risultato di messaggi trasmessi dalle moschee da quando Hamas è salito al potere. Vede questo, e un simile cambiamento nella gente che prega regolarmente nelle moschee, come una prova della “credibilità nelle strade” del partito islamico Hamas, cosa che la guerra dell’inverno 2008-09 non ha assolutamente diminuito.

Certo è visibile un indebolimento del secolarismo tra le strade di Gaza. Più donne si coprono la testa; c’è una diffusione maggiore di quelle che portano il nakab, una volta molto raro, il velo che copre l’intero viso a parte gli occhi. E la più grande pressione interna su Hamas non viene da Fatah, che è stato effettivamente represso a Gaza, ma da gruppi islamisti ancora più estremi. Secondo Khoudary, questi sviluppi sono la conseguenza di quello che lui chiama “un assedio mentale” in cui la mancanza di contatto con il mondo esterno sta ripiegando Gaza su se stessa. Per fare un solo esempio, c’è stato un blocco totale di quello che una volta era un flusso regolare di molte centinaia di studenti all’anno  verso l’estero o le università israeliane, spesso per compiere studi post-laurea. Oggi Israele ha usato la chiusura per impedire agli studenti persino di viaggiare verso la Cisgiordania, figuriamoci per andare in Israele o all’estero. Grazie ai tunnel, dice Khoudary, e premesso che tu possa permettertelo, “puoi ordinare qualsiasi cosa tu voglia e averla in 36 ore. Ma l’assedio mentale è quello più pericoloso e più dannoso”. Si chiede perché Israele promuova un clima che a lungo termine non farà che incoraggiare gruppi estremisti “peggio dei talebani”. “Israele è così stupido”, dice. “Stanno punendo la gente sbagliata”.

Nessuno qui ha fatto di più per cercare di allentare questo “assedio mentale”, entro le restrizioni della chiusura totale, di John Ging, direttore dell’Agenzia Onu di sostegno ai profughi palestinesi  (Unrwa) e responsabile dell’istruzione e dell’assistenza di quasi un milione di rifugiati a Gaza. Ging, ex ufficiale dell’esercito irlandese, è un uomo coraggioso; era nella sede dell’Unrwa quando il deposito dell’agenzia è stato distrutto dalle bombe al fosforo bianco israeliane durante la terza settimana dell’operazione Piombo Fuso. Nel marzo 2007, quando l’illegalità a Gaza era al suo picco da cui diminuì grazie al servizio d’ordine di Hamas, il convoglio delle Nazioni Unite di Ging fu preso in un’imboscata e il veicolo blindato fu colpito da 18 pallottole di palestinesi armati che cercarono di rapirlo. Due mesi dopo, una delle sue guardie del corpo venne ferito mentre fu aperto il fuoco sulla scuola dell’Onu che stava visitando. Anche elementi più estremi all’interno di Hamas – ma mai il governo de facto di Hamas stesso – hanno rilasciato minacciose critiche verso i riuscitissimi giochi estivi dell’Unrwa cui hanno partecipato 250mila bambini, verso gli avvertimenti di Ging allo staff palestinese dell’Unrwa di lasciare la politica fuori dalla porta quando vanno a lavorare, e – più recentemente – verso la sua forte determinazione di includere studi sull’Olocausto nel curriculum della scuola per i diritti umani dell’Unrwa.

Tuttavia ciò che dà a Ging la sua alta credibilità a Gaza è la sua instancabile difesa della popolazione civile di fronte a quella che ripetutamente chiama la politica “fallita e difettosa” dell’isolamento. La fine della guerra, dice, ha lasciato la popolazione di Gaza “peggio di prima” a causa della “speranza disattesa” che avrebbe segnato anche la fine di “quell’era di punizione collettiva… che è stata la loro vita quotidiana così a lungo”. Poiché la guerra ha finalmente generato una consapevolezza internazionale “che era la popolazione civile a pagare un prezzo devastante non soltanto in termini di perdite di vite ma [anche] nelle loro condizioni di vita”.
Ma invece della fine dell’isolamento, dice Ging, la popolazione traumatizzata di Gaza ha visto che “la vita quotidiana continua a peggiorare e, mentre ascoltano e leggono sempre più discorsi sulla guerra, vedono il processo di pace ulteriormente in pericolo”.

Ging riconosce che questa non è una “tipica emergenza umanitaria” resa visibile da “corpi emaciati e da un servizio medico distrutto” – nonostante sottolinei che l’80 per cento della popolazione di Gaza dipende dagli aiuti alimentari, che i servizi medici sono sovraccarichi ma in qualche modo resistono, e che le infrastrutture di acqua e fognature sono sull’orlo della crisi con 80 metri cubi di litri di acque reflue non trattate pompati ogni giorno nel Mediterraneo, con l’80 per cento dell’acqua potabile sotto gli standard minimi imposti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e con il 60 per cento della popolazione con solo un accesso irregolare all’acqua. Piuttosto, dice, “il problema qui è la distruzione di una società civilizzata con l’impatto che questo avrà sulla soluzione del conflitto”.

Come uomo per il quale la fiducia nel diritto internazionale è una passione trainante, ha cercato di combattere questa tendenza istituendo un corso sui diritti umani nelle scuole delle Nazioni Unite, tutt’altro che di routine, a meno di un anno dalla guerra su cui il rapporto Goldstone ha accusato soprattutto Israele ma anche Hamas di crimini di guerra. Ging è sicuro della risposta positiva dei civili di Gaza. “Bisogna solo parlargli” sostiene, per sapere che “non sono terroristi, non sono persone violente. Sono una popolazione profondamente civilizzata… che non sopporta la natura provocatoria e l’ingiustizia della loro situazione”.

Le loro aspirazioni non sono, dice, “vendetta o rivalsa o violenza o distruzione – le loro aspirazioni sono le stesse di ogni altra persona civilizzata su questo pianeta. Vogliono spazio per vivere, le libertà fondamentali dei diritti umani. Capiscono la differenza tra giusto e sbagliato e le sanzioni contro chi viola la legge, ma la loro richiesta – che ha tutto il mio supporto – è quella che gli innocenti non dovrebbero essere sanzionati”.

Come Jadwat Khoudary, Ging è spaventato dall’estremismo che le devastanti condizioni di Gaza minacciano di nutrire, persino tra gli alunni a scuola. “Come li motiviamo a realizzare il loro potenziale accademico quando le loro madri e padri, fratelli e sorelle non hanno un lavoro né una prospettiva di lavoro? Ascoltano tutti i giorni la retorica, molto distruttiva, che trae vantaggio dalla loro esperienza fisica che è molto negativa – e cerca di collegarla all’attività violenta come se fosse la via d’uscita da questa situazione”.

La scuola superiore A dell’Onu per ragazze a Zeitoun, molto vicino a dove la tragedia colse la famiglia Samouni, aiuta a illustrare il concetto. Tre delle sue studentesse furono uccise durante la guerra, 25 ferite e molte altre senza casa dalla distruzione. Nel mese scorso, è stata realizzata una giornata di attività per rafforzare un’altra iniziativa di Ging – che forse non sarebbe stata male nemmeno in molte scuole britanniche – il programma di Rispetto e Disciplina. Si andava da una parata – “Noi la chiamiamo ‘militare’ perché vogliamo la disciplina dei soldati senza la violenza”, spiega l’insegnante Soha Sohoor – a una scena teatrale ambientata in un tribunale dove le ragazze recitavano le parti di avvocatessa, maestra, medico, ingegnere e casalinga che dovevano difendersi con successo dalla sentenza di un rigorosissimo giudice misogino. Dopodiché, quattro eloquenti 14enni hanno discusso questioni che andavano dalla violenza domestica e l’impatto della guerra di gennaio rispetto alla determinazione di tutte e quattro di andare all’università. Tutti hanno detto di essere d’accordo con una soluzione a due Stati basata sui confini del 1967.

Shaima Remlawi, che sta imparando l’inglese, vuole diventare un’interprete internazionale ma si vede anche battersi per i diritti delle donne – soprattutto contro i matrimoni precoci e i padri che scoraggiano le figlie dal completare gli studi. “Non mi sposerò finché non avrò più di 20 anni”, dichiara. Afrian Naim vuole diventare una giornalista, “così potrò diffondere il messaggio dei palestinesi verso tutto il mondo”. Islam Aqel vuole diventare sia una professoressa che “una scrittrice che può scrivere libri che tutti possono leggere”. E Ahlam Al-Haj Ahmed dice: “Voglio diventare una giornalista e scrivere delle sofferenze del popolo palestinese. Ma voglio essere efficace per la società, diventare membro del Plc [il Parlamento palestinese], non con Fatah o Hamas, ma come indipendente, così posso dire agli altri quando stanno facendo qualcosa di buono e quando non lo stanno facendo”. È difficile non essere impressionati da queste ragazze, colme di sana ambizione. Ma è anche difficile non pensare – senza quel “cambiamento della situazione”, la fine dell’assedio di Gaza, mentale e fisico – quanto tempo dureranno i loro sogni prima di scontrarsi con un’inevitabile delusione.

“Un cambiamento è urgente”, dice Ging, “Perché il tempo è contro di noi. Un’intera generazione sta crescendo”.

L’articolo in lingua originale

The Independent, 12 dicembre 2009
(Traduzione di Eva Brugnettini per Osservatorio Iraq)