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Haiti: terra di conquista

di Alessia Lai - 25/01/2010

     
 
A dieci giorni dal terremoto, ad Haiti regnano ancora la confusione e l’incertezza. La base da cui si partiva, un Paese già instabile, afflitto da fame e povertà, ha consegnato ai primi soccorritori scenari da girone infernale. Ma anche dopo, con le operazioni di salvataggio archiviate e trasformate in missioni di recupero dei cadaveri, pensare ai vivi si dimostrato molto difficile. Soprattutto per una mancanza di coordinamento emersa fin dalle prime ore e rimasta tale, nonostante le enfatiche parole pronunciate da un Barack Obama in versione messianica che ha scomodato la parola “compassione” affermando che gli Stati Uniti non usano la loro “potenza per soggiogare gli altri ma (…) per risollevarli”. La potenza statunitense, però, fino ad ora si è mostrata solo nell’impressionante numero di soldati inviati nella piccola isola caraibica. 17mila uomini delle forze armate che tutto anno fatto tranne che coordinare gli aiuti. Sono atterrati fra le rovine del palazzo presidenziale per prenderne possesso, hanno preso il controllo dell’aeroporto. Pare abbiano il ruolo di prevenire saccheggi e ruberie. Ma Haiti è un luogo in cui la povertà, già prima del terremoto, rendeva questi crimini pane quotidiano. Appare evidente che le preoccupazioni di Hugo Chávez, Daniel Ortega, Evo Morales sono giustificate, come quelle di Cuba, ad un tiro di schioppo da Haiti e da anni nel mirino degli Usa. Washington si sta installando nell’isola caraibica. La ha letteralmente invasa, stanziandosi in un luogo strategico per il controllo dei Caraibi, e cioè l’America Centrale - con il Nicaragua ed El Salvador guidati da presidenti di sinistra - il Venezuela bolivariano, l’Avana. È stato già fatto notare nei giorni scorsi dai diretti interessati e da Parigi, che poi ha provveduto a smorzare i toni. E venerdì un monito a non approfittare della situazione è arrivato anche da Mosca. “Parto dal presupposto che nessuno abuserà della situazione creatasi adesso per raggiungere qualche altro obiettivo che non sia la prestazione di aiuto al popolo haitiano”, ha affermato il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, rispondendo ad una domanda su come vede la presenza di un gran numero di militari nordamericani nell’isola. Un chiaro riferimento alla missione inviata dalla Casa Bianca. L’intraprendenza statunitense è favorita dalla speculare inconsistenza del governo haitiano. Il presidente Preval agisce da perfetto estraneo: non una visita nei campi profughi, non un messaggio alla popolazione se non quelli, affidati ai suoi altrettanto inconsistenti ministri, in cui esorta gli haitiani a non tentare la fuga verso gli Stati Uniti. Oppure nell’ultimo avvertimento rivolto ai media che avevano trovato un punto d’appoggio nell’aeroporto Toussaint Louverture. Il comunicato del ministero haitiano dei Trasporti con cui è stato ordinato ai media di lasciare l’aeroporto - centro nevralgico per la distribuzione degli aiuti umanitari la cui gestione è stata completamente trasferita nelle mani delle autorità nordamericane – è stato trasmesso direttamente dal dipartimento di Stato Usa. Centinaia di giornalisti e operatori tv hanno dovuto lasciare lo scalo e ora, se vorranno accedere alla struttura, verranno perquisiti e scortati da militari statunitensi. Preval è a capo di uno Stato che non esiste - se mai negli ultimi anni è esistito- ridotto a portavoce dei nordamericani e da questi usato per mettere a tacere le polemiche sulla loro ingombrante presenza. Intervistato da Liberation, ha dichiarato che “Haiti non è sotto tutela”. Uno stanziamento tanto ingente di uomini, però, avrebbe dovuto corrispondere ad una rapida ed efficace gestione degli aiuti. La mancanza di tutto questo, come ammesso dallo stesso Preval in una intervista con El Pais e in un colloquio con l’italiano Bertolaso (accorso sul posto proprio per tappare i buchi a stelle e strisce), non fa che avvalorare la tesi di una vera e propria invasione mascherata da intervento umanitario.