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London calling

di Enrico Piovesana - 27/01/2010





Giovedì a Londra, alla conferenza internazionale sull'Afghanistan, si parlerà di possibili negoziati con i talebani

Washington e alleati hanno giudicato il clamoroso attacco talebano a Kabul una dimostrazione del fatto che la guerriglia afgana è 'disperata'. In realtà, ad aver definitivamente perso la speranza di vincere questa guerra sono proprio gli Stati Uniti, ormai pronti a negoziare con gli insorti su due fronti. Quello economico, volto a comprarsi la truppa dei ribelli a suon di dollari e promesse di lavoro, e quello politico, diretto invece ai capi, ai quali si vuole offrire di entrare nel governo afgano in cambio della loro cancellazione dalle liste nere dei terroristi ricercati e della liberazione di buona parte dei prigionieri talebani detenuti nel carcere Usa di Bagram.
Alla conferenza internazionale sull'Afghanistan, che si terrà a Londra giovedì, si parlerà ufficialmente solo dell'aspetto economico di questa disperata strategia, ovvero del cosiddetto 'piano di riconciliazione' e dei suoi costi per la comunità internazionale. Ma secondo molti, a porte chiuse, verranno discusse anche le offerte negoziali da sottoporre ai vertici talebani.

Il piano di riconciliazione del presidente Hamid Karzai, che in realtà è l'ennesima declinazione del 'metodo Petreaus' sperimentato in Iraq per comprarsi le tribù sunnite, prevede di reintegrare i combattenti talebani nella vita civile a condizione che depongano le armi, offrendo loro protezione, denaro, istruzione e lavoro. Non è chiaro se il sistema coinvolgerà le tribù pashtun o si rivolgerà solo ai singoli 'disertori', né se tra i lavori offerti vi sarà quello di combattere contro gli ex compagni d'armi. Quel che è certo è che il piano avrà un costo di avviamento molto alto, all'incirca un miliardo di dollari. E giovedì a Londra Karzai verrò proprio a batter cassa presso i 'donors' per raccogliere finanziamenti a tale scopo.

I talebani hanno già bocciato questo piano. "Nessun talebano è disposto ad accattare patti di questo tipo", ha dichiarato il portavoce ufficiale del movimento, Zabihullah Mujahid. "La comunità mondiale e le forze internazionali vogliono comprare i talebani, ma noi non siamo in vendita".
D'altronde, molti osservatori occidentali ritengono un grave errore sottovalutare le motivazioni ideologiche dei combattenti talebani e la loro fedeltà alla causa e avvertono che solo una minoranza combatte per soldi.
Lo stesso inviato dell'Onu a Kabul, il norvegese Kai Eide, ha dichiarato il proprio scetticismo riguardo al successo del piano di riconciliazione: "Non credo che sia così semplice, che basti considerare i combattenti talebani come dei disoccupati a cui offrire un impiego per convincerli a passare dalla nostra parte. La reintegrazione da sola non basta, ci vuole dell'altro".

Via i talebani dalla lista nera dell'Onu. L'altro di cui c'è bisogno, secondo Eide, per convincere i talebani a trattare è la cancellazione di alcuni loro nomi dalla lista nera Onu dei 144 capi talebani su cui pende un mandato di cattura e un embargo economico internazionale (divieto di viaggiare all'estero e congelamento dei loro conti stranieri). Richiesta più volte avanzata dai talebani come una delle precondizione a un possibile negoziato. "Se si vogliono risultati importanti, allora bisogna parlare con gente importante, con chi ha l'autorità per prendere decisioni: penso che ornai sia arrivato il momento di farlo", ha detto il rappresentante delle Nazioni Unite in Afghanistan al New York Times, spiegando che però il provvedimento non dovrebbe riguardare il Mullah Omar, come invece vorrebbe Karzai, - secondo indiscrezioni circolate a Kabul - a mettere questa richiesta sul tavolo del summit londinese.

Liberazione dei detenuti nella prigione Usa di Bagram. La proposta di Eide trova d'accordo anche l'inviato speciale di Obama in Afghanistan, Richard Holbrooke, che si è detto "assolutamente favorevole a riconsiderare caso per caso chi deve o no restare in quella lista".
Ma il rappresentante dell'Onu in Afghanistan è andato oltre, chiedendo sostanzialmente agli Stati Uniti di venire incontro a un'altra fondamentale richiesta dei talebani: la liberazione dei detenuti che da anni languono, senza accuse, nella famigerata prigione militare americana di Bagram, a nord di Kabul. Le autorità militari Usa avevano già accettato a settembre di riesaminare ognuno dei singoli casi dei 645 prigionieri e di liberare quelli per cui non ci sono prove di colpevolezza: i controlli sono quasi finiti, e i prigionieri liberati sono stati solo una settantina. "Bisogna fare di più", ha dichiarato Eide. "E' necessario un riesame più approfondito".

La contraddizione di fondo: il bastone e la carota. Queste aperture occidentali nei confronti dei talebani, per quanto possano risultare clamorose, per quanto accompagnate da altrettanto sorprendenti dichiarazioni di politici e militari di primo piano (il segretario Usa alla Difesa, Robert Gates: "I talebani fanno parte del tessuto politico afgano"; il comandante delle truppe alleate in Afghanistan, generale Stanley McChrystal: "Una soluzione politico al conflitto è inevitabile"), non porteranno a nessun negoziato con i talebani, perché nessuno vuole affrontare la questione centrale, la precondizione fondamentale posta dai talebani a qualsiasi negoziato: la fine dell'occupazione militare, il ritiro delle truppe straniere o almeno l'annuncio dei un preciso calendario per il ritiro. Al contrario, quegli stessi leader politici e militari che auspicano un accordo politico con i talebani, sono convinti di costringerli a trattare proprio ricorrendo a una maggiore pressione militare: "Fin quando i talebani continueranno a sentirsi la vittoria in pugno, le possibilità di un accordo sono basse" (Gates); "Solo indebolendo i talebani si creeranno le condizioni per una soluzione politica".