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Perché la Cina vincerà la Quarta Guerra Mondiale

di Michele Santini - 28/01/2010

La seconda “lunga marcia”, questa volta della Cina in quanto potenza, ovvero la sua partecipazione alla grande contesa mondiale che decide quali saranno i futuri assetti ed equilibri mondiali, se disturba il sonno degli americani, occupa oramai un grande spazio negli scaffali delle librerie di ogni angolo del mondo. Esistono oramai, soprattutto in lingua inglese, centinaia di pubblicazioni che tentano di decifrare l’enigma cinese e di prevederne il futuro. Due sono le grandi scuole di pensiero. La prima ritiene che la Cina sia destinata a diventare, in un paio di decenni, la prima super-potenza mondiale, prendendo il posto degli USA; la seconda, al contrario, considerando insanabili i contrasti interni al gigante asiatico, ne prevede un crollo, con tanto di esplosione sociale cataclismatica, prima o poi.

Santini appartiene alla prima scuola. Non solo questo, egli si spinge ad auspicare questo sorpasso cinese come salvifico per il mondo intero, considerando dal punto di vista geo-politico “l’imperialismo” cinese come “progressivo”. Un punto di vista controverso, che come antimperialisti non condividiamo. Tre sono le questioni. Anzitutto: siamo sicuri che l’impero americano accetti la sua retrocessione? Sarebbe la prima volta che una potenza imperialista lascia lo scettro del predomino ad un’altra senza ricorrere al redde rationem della guerra. In secondo luogo: siamo proprio sicuri, nel caso la Cina diventi in futuro il perno di un nuovo ordine mondiale, che questo avrà natura imperialistica e non dischiuda invece qualcosa completamente nuovo? In terzo luogo, ove la Cina non facesse che cambiare il colore del predominio, per noi vale il principio che non esistono imperialismi buoni. Se davvero si hanno a cuore le sorti dell’umanità  è lo stesso modo capitalistico di produzione che la Cina ha impugnato da ricusare ad substantiam. Pubblichiamo il denso contributo del Santini aprendo su questo sito un vero e proprio forum sulla Cina, con l’augurio che altri vogliano intervenire. Non solo specialisti.


Perché la Cina vincerà la Quarta Guerra Mondiale

 

«Siamo noi che decidiamo se dare o non dare battaglia»
Sunzi

«Mio padre, invece, camminava avanti e indietro, pensieroso.
Non era preoccupato per le difficoltà della vita quotidiana e neanche per il suo destino politico, ma pensava agli ultimi decenni della rivoluzione cinese, alla strada percorsa dal partito e dalla Repubblica popolare, alle vittorie ottenute, alle sconfitte subite, alle speranze disilluse e alle lezioni dolorose.  Pensava al passato, al presente e al futuro della Nazione Cinese. Giorno dopo giorno, i suoi passi disegnarono nella terra rossa e sabbiosa del cortile un vero e proprio sentiero
».
Deng Rong, figlia di Deng Xiaoping, così descrive lo stato d’animo del padre, durante il periodo della persecuzione politica e dell’isolamento umano.


Gli eventi di questi giorni - come in particolare l’affondo di Hillary Clinton verso la Cina - se riletti alla luce degli scossoni finanziari, economici e politici dell’ultimo periodo, danno ormai chiaramente la dimensione manifesta e ben visibile, per chi vuol vedere naturalmente, di un confronto strategico definitivo tra Cina e Usa. Confronto strategico, che potrà certamente avere differenti sbocchi immediati o epifenomenici. Ma che si tratti di un confronto strategico, contrassegnato da un bipolarismo planetario, è del tutto evidente.
China Daily (22-01-2010) ha denunciato i tentativi della CIA e della Casa Bianca di usare la Rete per innescare “rivoluzioni a colori” negli Stati liberi dal dominio americanista. Il giornale ha citato, in particolare, il caso internazionale dell’assedio anti-persiano da quando il Presidente Ahmadinejad ha legittimamente trionfato nel corso delle normali elezioni.
Coloro che pensavano che internet avrebbe cambiato la Cina si stanno ricredendo. Il contrario. Se il caso Google doveva essere un test sulla “voglia di democrazia” della web generation cinese, il risultato è stato invece un trionfo interno dell’orgoglio nazionale cinese e della fiducia pressoché generale verso lo Stato e verso il Presidente Hu Jintao.
Dobbiamo essere concisi e sintetici, pur essendo assai difficile, data la natura delicatissima dell’argomento. Ebbene, ci proviamo!


Il centro strategico della seconda guerra mondiale: l’Asia

La seconda guerra mondiale, di cui la storiografia attuale, in tutte le sue svariate correnti, è ben lontana dal cogliere la autentica essenza, ebbe il suo reale centro strategico nel conflitto tra America ed Asia. L’Europa, nella visione delle elites strategico-politiche americaniste più avvedute, che avevano fatto tesoro della  brillante sintesi di messianismo e pragmatismo, lasciata in eredità da Wilson, diventava gradualmente una sorta di retrovia di profondità tattica, niente affatto strategica.

L’essenza della partita strategica, negli anni quaranta, venne combattuta tra America e Giappone prima. Per concludersi poi, definitivamente, con la “guerra di Corea”.

La partita con il Giappone si poteva dire parzialmente chiusa, per le elites americaniste, e ricordiamo che per la vittoria, strategicamente fondamentale appunto, veniva dispiegato l’uso di un terrore atomico, che ben esemplificava, da solo, l’eccezionalità dell’evento.

Si aprivano però – subito a ridosso della sconfitta dell’esercito imperiale nipponico, sconfitta peraltro meramente politica, non militare, in quanto fu l’Imperatore, contro la volontà dell’aristocrazia militare, ad alzare bandiera bianca - e si sarebbero gradualmente aperti fronti nazionali e “nazionalisti” molto più che marxisti, si deve convenire!, (cinese, coreano, vietnamita, cambogiano), rispetto ai quali le “lotte sociali” del proletariato occidentale facevano appena sorridere gli strateghi d’oltreoceano. Han Suyin, nel saggio fondamentale Le siècle di Zhou Enlai, ricorda che dopo l’intesa concordata da Zhoun Enlai con Mosca – febbraio 1950 – riguardo la restituzione alla Cina dei territori occupati dalle truppe russe in Manciuria, Mao commenta: “Siamo riusciti a togliere qualche boccone dalla bocca della tigre”, per concludere che il Partito comunista era sostanzialmente una forza di ancor maggiore nazionalismo grande-cinese rispetto allo stesso modello patriottico di Chiang Kai-shek.


La terza guerra mondiale

La terza guerra mondiale, (USA-URSS), a nostro avviso non era inizialmente prevista. E’ innegabile che l’appoggio americano aiutò comunque la Russia ad uscire vittoriosa dalla seconda guerra mondiale. Ma è altrettanto indubbio il fatto che la virtù strategica e la grandiosa tattica della ragion di Stato, di cui sapeva dare prova Iosif Stalin, in modo particolare dal 1941 sino alla misteriosa morte, assieme ad una radicale, impressionante, presa di coscienza del grande popolo russo, della sua assoluta missione storica e politica (non più soltanto astrattamente metafisica ed escatologica) nella competizione verso una politica di potenza mondiale, ponevano di fatto la Russia nella sfida strategica globale tra superpotenze. Il fatto che talvolta, Stalin, continuò ad attardarsi nel pesante dogmatismo ideologico che ereditò, al punto da pensare che vi sarebbe stato “un confronto inter-imperialistico” e non un assedio strategico antisovietico, pose chiaramente le fondamenta della vittoria “di civiltà” americanista.

Ma nonostante tutto, occorse agli USA, a  tal punto, l’apertura tattica cinese, che si rivelerà fondamentale, in funzione essenzialmente antirussa, per avere ragione del Patto di Varsavia. Dobbiamo ora avere presente cosa fu la terza guerra mondiale o “guerra fredda”, per comprendere la quarta. Fu una guerra assolutamente asimmetrica. I russi, in fondo impreparati ad una simile sfida, dettero alla stessa, sia prima sia dopo Stalin, un significato ideologico-militare con mere diversioni tattiche: fallendo completamente. Gli americani, viceversa, seppur imbevuti di ideologia messianico-americanista, seppero sostanzialmente continuare la grandiosa lezione wilsoniana e dando prova di abilissimo pragmatismo politico, si meritarono l’ennesima vittoria strategica. Ma Zhou Enlai e Deng Xiaoping, la cosiddetta “linea nera” o linea destra del Partito Comunista Cinese, che noi chiamiamo “nuova destra”,[1] nella privilegiata posizione di osservatori – apparentemente passivi – durante la guerra fredda, sapranno fare di più. Teorizzeranno che il pragmatismo politico per essere realmente pragmatico, non deve essere solo abile: deve essere fluido. Quando gli americani potevano celebrare la vittoria strategica sull’URSS, la nuova Cina di Deng Xiaoping aveva già preso, sul piano della diplomazia (che in un orizzonte di guerra asimmetrica è politica di potenza), almeno dieci anni di vantaggio sull’Occidente.


La quarta guerra mondiale: il risveglio imperialista cinese
 
Siamo dunque consapevoli che ormai, ancor più che durante la guerra fredda, le precedenti definizioni ed immagini di guerra che avevamo in mente vanno assolutamente scartate, in quanto non solo inattuali ma addirittura del tutto improprie per comprendere il fenomeno. In base alla visione strategica cinese, in modo particolare quella denghista, la vera guerra, il vero conflitto strategico si ha durante la fase apparentemente morta, inerte, della non guerra. Si tratta di uno spostamento strategico portato sul piano tattico, o meglio di un completo occultamento della strategia nella tattica. E’ il principio taoista dell’agire senza azione (wu-wei-wu) condotto sul piano della politica internazionale o “grande politica”.

Colui che aggredisce in modo scoperto e manifesto, sul piano in cui i nemici si aspettano tra l’altro l’aggressione (ad esempio quello militare), parte già con il piede sbagliato. Ha grandissime possibilità di venire sconfitto in senso strategico. Questo tralasciando il fatto che nell’era nucleare, le possibilità di confronto militare convenzionale tra superpotenze sono ridotte al minimo.

Nel momento in cui ci rendiamo conto che tutte queste azioni di non guerra possono essere i nuovi fattori costitutivi dello scenario di guerra del futuro, dobbiamo inevitabilmente trovare un nuovo nome per questa nuova forma di guerra, uno scenario che trascende qualsiasi confine e limite. In poche parole: una guerra senza limiti. [2]
 
Da Deng in poi, la Cina ha portato la guerra politica totale all’Occidente, esasperando e radicalizzando il concetto d’asimmetria del conflitto, concentrando le proprie forze dove il nemico era più debole ed occultandole dove il nemico era più forte: integrando questa visione strategica, altresì, nel quadro planetario della guerra illimitata, con la usuale tattica della guerra non ortodossa. I piani tattici omnidirezionali, sincronici, contrassegnati da obbiettivi limitati e misure potenzialmente illimitate, nel gioco strategico di un coordinamento unitario multidimensionale nel quale le azioni militari si identificano e sintetizzano con quelle svolte nel campo non militare, che finisce dunque per estendere il principio della cooperazione civile-militare della “guerra rivoluzionaria”, sono stati gradualmente praticati e sperimentati in modo più intenso in tutti i settori cosiddetti “scoperti” (economico, tecnologico, diplomatico, culturale nel senso più amplio del termine) piuttosto che in quelli nei quali il nemico, ancora attardato al momento essenzialmente ideologico della guerra fredda, si attendeva.

Significativo, ad esempio, quanto avvenuto alla fine del novembre 2007, quando il direttore generale del MI5, il servizio controspionistico anglosassone, inviava una lettera a 300 tra amministratori delegati e responsabili per la sicurezza di banche, imprese di revisione e studi legali per avvisarli che erano sotto attacco diretto da parte dello Stato cinese. Era la prima volta che il governo anglosassone accusava direttamente Pechino di cyberspionaggio.[3]

In questo senso, attualmente la diplomazia cinese ha decenni di vantaggio su quella americana e su quella occidentale in genere.. Altro enorme vantaggio strategico cinese è caratterizzato dal fatto che il gruppo dirigente cinese attuale, essendo culturalmente indipendente da influenze messianiche di natura dogmatica ed ideologica, nella comprensione fondamentale dello “spirito del tempo” riesce a volgere a vantaggio della ragion di Stato (come già abbiamo rilevato nel nostro precedente articolo pubblicato su questo sito) anche fondamentali strumenti di mercato, che rendono improponibile l’incondizionato dominio – che si verifica invece in USA – da parte di capitalisti antinazionali e finanzieri usurocrati. Questo significa che la Cina è dogmaticamente comunista, come vorrebbero molti estremosinistri occidentali? O che la Cina è fascista, come vorrebbero molti analisti peraltro acuti, come Bruce Gilley o Federico Rampini? No, no, niente di questo. La Cina ha un tipo di gestione e di approccio al mondo politico ed economico, incomprensibile con le lenti euro-occidentali. La Cina sta attualmente sperimentando una prassi politico-economica, che non ha precedenti nella storia. Certamente alla base, a nostro avviso, vi è “l’ideologia” ( ma nel senso di strategia politica non di dogma pietrificato) della pura ragion di Stato ed “un nazionalismo morale ed etico” grande Han, pragmaticamente combinati con un socialismo di mercato, ma ciò non ci autorizza a scomodare categorie della dottrina politica europea, in quanto sarebbe già assai arduo mostrare che le lotte di “liberazione nazionale” di Mao e dello stesso Ho Chi Minh siano ortodossamente “comuniste” invece che nazionaliste, progressive e rivoluzionarie in senso lato, per quanto, soprattutto nel caso del maoismo, influenzate da certe correnti filosofiche occidentali “materialiste”; ancora più arduo sarebbe identificare con categorie politiche europee il “nuovo corso” denghista, ben proseguito da Jiang Zemin e Hu Jintao.

Tutti questi elementi brevemente sintetizzati, che presuppongono che il lettore abbia minimamente chiaro il panorama geopolitico internazionale, che vede la Cina all’offensiva totale in Africa, Europa, saldata strategicamente ad una potenza regionale di primo piano del Vicino Oriente come l’Iran ma al tempo stesso anche con settori politico-militari centrali del Pakistan, sempre più vicina ad un accordo strategico di lunghissimo respiro – dalle conseguenze internazionali decisive – con il Giappone, in buone relazioni diplomatiche, che non vuole assolutamente far degenerare con Russia ed India, in continua avanzata tatticistica in Sud-America (Brasile, Venezuela, Bolivia), tentano di mostrare come la grande Cina si avvii a passi da gigante verso il primato mondiale. Inoltre, la Cina, contemporaneamente alla campagna militare intrapresa da Bush in seguito all’11 settembre 2001, si è attivata nella costruzione di basi e porti navali lungo le rotte marittime del Medio Oriente, del Pakistan, dello Sri Lanka, di Myanmar, per proiettare oltre oceano la sua potenza e proteggere le forniture petrolifere, dando anche in tal caso dimostrazione di lucidità sperimentalistica rispetto all’aggressività militarista americana in Iraq ed Afghanistan.

Giustamente il lettore informato potrà obiettare che sul piano della tecnologia militare, sembra esservi ancora un notevole divario tra USA e CINA. Prescindendo ora dal fatto che difficilmente osservatori che si trovano al di fuori del giro strategico quali siamo noi, possono conoscere realmente lo stato attuale della potenza nucleare e convenzionale cinese, pensiamo in fondo che la Cina – oltre ad avere tutte le armi di deterrenza strategica necessarie a sconsigliare chicchessia ad un’aggressione diretta – abbia progettato la sua espansione strategica planetaria – il consenso di Pechino – in netta antitesi all’aggressività militarista ideocratica americanista la quale, per quanto mascherata dal fondamentalismo dirittoumanitarista democraticista ed edonista, ha sostanzialmente contrassegnato, da sempre, il consenso di Washington, gettandone anche, del resto, una sinistra luce.

Oscar Weggel, prestigioso studioso tedesco che ha analizzato lo sviluppo e la recente riorganizzazione dell’ELP - i cui fondamentali studi strategici, naturalmente!, in Italia sono passati completamente inosservati, prescindendo dal valente studioso marxista Roberto Casella - [4] ha diviso in tre fasi la sua storia. La prima fase, “miglio e fucile”, è sostanzialmente all’insegna dello spirito di Yan’an, dal nome della capitale della Cina della “lunga marcia”, la seconda fase, “ferro ed acciaio”, è all’insegna della modernizzazione sotto la supervisione russa, in cui abbiamo la fanteria quale forza integrata con gli altri sistemi d’arma, la terza fase è quella in cui predomina la reale strategia denghista. Quest’ultima supera completamente le precedenti fasi, soprattutto quella ortodossa maoista di “miglio e fucile”, a vantaggio di una visione militare sintetizzata dal concetto di “difesa attiva” e “deterrenza flessibile” con la formulazione esplicita del principio “guerra di popolo più deterrenza nucleare” che contiene la seguente triade: all’inizio guerra convenzionale, poi deterrenza nucleare e in ultimo guerra di popolo. In tale fase viene abbandonata la concezione maoista della “ineluttabilità della guerra” sostituita da quella della necessità per il procedere delle “modernizzazioni” di operare in un sistema internazionale pacifico. [5]

Aviazione, Marina e “seconda artiglieria” sono il fiore all’occhiello della strategia denghista. Il rafforzamento della Marina è visto con preoccupazione dalle altre potenze mondiali, in quanto la Marina è chiaramente una forza d’attacco. In vari casi, riviste specializzate, come Schiffart, hanno annunciato l’acquisto di portaerei dalla Russia o dall’Ucraina, o la costruzione in proprio, e ciò ha suscitato l’allarme mondiale, ma la dirigenza militare cinese ha sempre mantenuto al riguardo il massimo riserbo. He Zhanxiu (membro dell’Accademia cinese per le scienze, per lunghi anni assistente del “padre dell’atomica e dei missili cinesi” Qian Xuesen) ha spiegato negli anni novanta che l’obiettivo della Cina non è quello di diventare una superpotenza nucleare, ma quello di avere un potenziale di armi limitato ma adatto ad una credibile dissuasione. La Cina, come ci spiega Roberto Casella, [6] pratica la politica di potenza con una dottrina nucleare che riecheggia la concezione gollista della “Force de frappe”.

Il fortissimo regionalismo interno, che ha fatto parlare taluni della necessità di un federalismo cinese, lo sviluppo ineguale della Cina Blu (la Cina costiera) con la Cina Gialla (la Cina interna), non debbono però trarre in inganno. Siamo d’accordo con Casella che l’ascesa politica ed economica mondiale della Grande Cina faccia di questa già, di fatto, “una potenza imperialista mondiale”, ma non daremmo, di contro al Nostro, eccessivo peso alle spinte centrifughe periferiche, fino a ventilare la prospettiva della democraticizzazione e del puro liberismo economico.

Siamo invece con Gerard Segal, con il suo concetto di Grande Cina. Ossia, nell’Impero di Mezzo, il nazionalismo Han è il principio spirituale morale organizzatore, il centro strategico sia della fase politica interna sia di quella esterna. E’ un “nazionalismo della porta aperta”, certamente, come lo ha chiamato la Bergère nel suo studio su Sun Yat Sen, ma siamo certi che il conflitto planetario si stia già giocando sul piano della visione nazionale della globalizzazione. Su questo piano, falliscono e falliranno tutti coloro che parlano e parleranno di una corrispondenza ed omogeneità tra i funzionari del capitale cinesi ed americani, tra l’imperialismo americano e quello cinese, tra un “proletariato cinese” e le masse salariate americane. Il “nazionalismo della porta aperta” Han, per quanto abbia conquistato il mondo mediante la tattica della rivoluzione economica, ha una forza interna morale e spirituale che il nazionalismo imperialista americanista ha certamente perduto. Sun, padre di questo nazionalismo aperto, direbbe: “Noi ci appoggiamo sui valori morali e sul desiderio di pace che ci sono particolari per unificare il mondo e fondare il governo della Grande Armonia”.


Centralità della prassi politica come eticizzazione universale
 
“Tutto sotto il cielo”: la dirigenza strategica cinese vuole appunto modernizzare ed attualizzare questo principio antico di tremila anni, appartenente alla dinastia Zhou. “Ripartendo” da qui, affermandosi anzitutto portando armonia, pace, benessere, nelle zone economicamente conquistate, curando e conservando le differenze in base al principio di cooperazione nel segno del reciproco vantaggio, Pechino ha impostato così la sua sfida strategica all’imperialismo esclusivamente militarista unilateralista nordamericano. La visione geostrategica cinese non conosce – a differenza di quella angloamericana – il concetto di “lotta decisiva”, “scontro di civiltà”, “sfida finale” per il trionfo cosmico di Dio, ossia della democrazia mercatista. No, Pechino lavora sotto traccia - asimmetricamente - cercando in tutti i modi di rendere il nemico di oggi amico di domani, concretizzando il principio confuciano dell’armonia, universalizzando, come Deng insegnò, la missione dello “spirito di popolo” cinese. Se il mondo fino ad oggi sì è progressivamente americanizzato, in quanto si è imposto il dominio unipolare americanista, Pechino vuole impostare una sfida strategica mondo-centrica, non sino-centrica. E’ ben evidente, d’altra parte, che pur considerando il confronto militare diretto come ultima ed estrema istanza, la Cina sarà senz’altro pronta anche su quel piano.

La forza della cultura tradizionale della Cina, la sua impressionante capacità di assimilare e sviluppare le scienze fisiche e tecnologiche, sbigottiscono quell’America che già si credeva padrone del mondo, e che ora scopre di non sapere più cosa fare per mettere il bastone tra le ruote di un carro che marcia in modo inarrestabile. Non può pensare di aggredire direttamente Pechino, magari con il concorso del Giappone o di Taiwan, perché sa di non disporre di forze adeguate e di dover mettere in conto un intervento diretto di Mosca.

Consapevole delle limitazioni politico-culturali dei governi americani, Pechino a sua volta gestisce i rapporti con Washington con l’accortezza e l’intelligenza con cui lo psichiatra si confronta con il pazzo. [7]

Come già è stato detto, sotto la spinta del grande-nazionalismo denghista, la Cina ha riportato all’ordine del giorno il nomos dello Stato politico che non è una mera macchina burocratica, ma una vera e propria entità spirituale forte di una tradizione ultrasecolare. La Grande Cina ha quindi restaurato, su un piano globale, la centralità spirituale della retta prassi politica.

Rivoluzione, controrivoluzione, ogni chiusura ideologica dogmatica sparisce e resta assorbita nello sforzo violento dello Spirito che raggiunge le vette dell’eticità universale, ove l’agire umano è realmente libero. La Politica dunque si fa autentica creazione morale. Sembra inconcepibile in quest’Europa….

Su tal piano, puramente spirituale, si ha la buona tirannia, nel senso hegeliano del termine, ove il processo autocosciente sembra giunto finalmente a compimento.

Deng non ha ceduto, infatti, sul piano fondamentale: la certezza americanista che l’unico destino imperialista potesse svilupparsi sotto il segno di una democrazia fortemente imbevuta di un astratto oggettivismo economicista annientatrice di una superiore Forza trattenitrice (katekhon). Deng non ha ceduto al fondamentalismo fanatico e astratto dirittoumanitarista. Deng non ha ceduto alla democrazia in salsa ideocratico-americanista. Sfidando asimmetricamente il nemico sul suo stesso privilegiato piano, quello economico, Egli ha esortato il popolo Han a “marciare verso il mondo”, ha messo in moto un nuovo pluralismo mandarino, ha dinamizzato su scala universale le esigenze dello Spirito di popolo, ma si è guardato dal cedere all’Occidente sul piano politico, quello fondamentale: proprio ciò che quest’ultimo avrebbe voluto. In realtà l’autentica rivoluzione denghista non è stata economica, ma si è svolta sul piano dello Stato. Deng ha grandiosamente abbattuto senza scrupolo alcuno i reazionari di destra, gli astratti utopisti dell’estrema sinistra, i democratici libertari in tutte le loro farneticanti varianti relativistiche e nichilistiche. Tutti considerati i “nemici principali” dello sviluppo cinese e delle modernizzazioni. Deng non ha perso il suo tempo con i riformismi “made in Washington”, ma ha chiamato il suo popolo a quello che è stato probabilmente lo sforzo più duro, la marcia sacrificale per antonomasia della sua pur grande storia.

La marcia verso il mondo esigeva l’unità assoluto del popolo con lo Stato, l’autentico centro totale della vita politica, occorreva dunque eliminare ogni pur minima opposizione ideologica. Egli ha riacceso infatti la grandiosa fiaccola della millenaria diplomazia mandarina, quando gli sconvolgimenti fanatici dell’anarchismo teppistico da Rivoluzione culturale avevano fatto regredire di decenni la vita civile e mostrato la fragilità dello Stato maoista. Diplomazia e modernizzazione economica da grande potenza: questo è stato il vero balzo in avanti, imperialista, della Grande Cina, come dirà anni dopo Jiang Zemin, il “presidente dell’high tech”, facendo l’apologia di Deng.

La “politica di apertura” di Deng, nel 1978, fu all’insegna della cosiddetta “liberazione del pensiero”: “siamo realisti e liberiamo la mente” significava che la eterna tradizione spirituale politica mandarina non doveva essere abbattuta o astrattamente sovvertita, ma doveva solamente prendere coscienza del piano empirico, sensibile, ossia della coscienza tecnologica occidentale e forte della sua millenaria spiritualità “giocare” con l’Occidente, che sembrava non conoscere altra spiritualità che quella dell’astratta materia, sul suo stesso terreno. Dal 1978 al 1999 vi furono poco più di venti anni, che furono sufficienti a realizzare la “prima liberazione del pensiero”. Fu uno sforzo magnifico del popolo HAN che rimanda alle costruzioni ciclopiche dell’antichità.

La “seconda liberazione del pensiero” vi è stata nel 1999 quando la Cina entrava nel WTO. Il nazionalismo morale della Grande Cina si proiettava ormai su scala globale mediante il tatticismo della rivoluzione economica. Il gatto aveva acciuffato il topo, con tempi ben più rapidi di quelli prospettati da Deng. La via denghista avrebbe risvegliato e portato all’autocoscienza spiriti assopiti da centinaia e centinaia di anni. Nuova Delhi, che non è mai riuscita a praticare una coerente linea Deng, una verace rivoluzione culturale dall’alto, che unificasse tutte le frazioni dell’avanguardia politica e economica, ci riprova oggi con Sonia Gandhi. E questa volta, quasi sicuramente, ci riuscirà. In Asia, torna a soffiare il vento dello spirito di Bandung, solo che questa volta non ha nessuna utopia ideologica da proporre, ma traccia la linea della potenza politica imperiale, del nazionalcapitalismo, della modernizzazione per il primato mondiale. L’Unione Asiatica, sul modello formale dell’Unione Europea, ma dotata, a differenza di quest’ultima, di una strategia politica dove Cina, Giappone, India arrivino ad una unificazione economica tattica, fu già teorizzata dalla linea di Aiyar (Ministro dell’energia del governo indiano Singh) ed  oggi sta tornando al centro del dibattito politico asiatico. Senza parlare del blocco Teheran-Pechino, che sembra ormai una vera e propria alleanza strategica.     

La gioventù asiatica, inoltre, è radicalmente nazionalista. Milioni e milioni di giovani cinesi vengono sin dalla più tenera infanzia educati al culto patriottico di Sun e di Mao quale “eroi della liberazione nazionale”. Lo stesso avviene in India ed in Vietnam.

E’ stato - in conclusione - Deng Xiaoping, il Politico, il sovrano, naturalmente, a fare scacco matto. L’uomo, su cui si rispecchiava l’anima del mondo, trionfava ancora sulla necessità che appariva ineluttabile.

Ancora, il mondo che crede di essere libero, non ha minimamente preso coscienza della rivoluzionaria attualità strategico-politica denghista. Ma a breve dovrà farlo: suo malgrado. In quanta la marcia cinese è ben lungi dall’arrestarsi.

D’altronde, proprio Deng, quando era Capo della commissione militare centrale, teorizzò una “strategia dei 24 caratteri” nella quale si diceva, tra l’altro, di “celare le nostre capacità”…

Il “sentiero” che Egli decenni fa tracciò, nell’estrema solitudine dell’infamia ingiustamente subita, nella persecuzione politica ovunque diffusa e nella delegittimazione morale, entra ora nel pieno della sua folgorante illuminazione strategica. L’asse spirituale della storia, che si credeva arrestato alla pura sovversione mercatista, al puro democraticismo astratto, è rimesso violentemente in moto. 

Il mondo realmente libero, Gliene sarà grato in eterno.


Note

[1] Noi, chiaramente, non andiamo particolarmente dietro le varie “linee nere” o “linee rosse” (peraltro Deng Xiaoping, nel 1980, ricordava che il partito comunista cinese era stato travagliato da almeno 10 lotte per la linea!), né ci lasciamo irretire dai “diavoli-buoi” o dai “demoni serpenti” che si sarebbero fatti la guerra dalla Grande Muraglia alle rive dello Yangtze, ma nonostante ciò usiamo tali categorie per meglio delineare al lettore lo scontro in atto all’interno della dirigenza cinese. Il termine esatto, a nostro avviso, è “nuova destra cinese” in quanto, durante e ancor più dopo la Grande rivoluzione culturale proletaria, la tradizionale linea nera o linea destra, facente capo a Liu Shao Chi, tradizionalmente filosovietica, venne del tutto seppellita nel corso di quelle lotte intestine.

[2] QIAO LANG – WANG XIANGSUI, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Gorizia 2001, pag. 47.

[3] A. Spaventa – S. Monni, Al largo di Okinawa. Petrolio, armi, spie e affari nella sfida tra Cina e Usa, Roma-Bari 2009.

[4] R. Casella, I giganti dell’Asia, Edizioni LOTTA COMUNISTA, Milano 2005, pp. 14-17.

[5] Ivi, pag. 16.

[6] Ivi, pag. 21.

[7] L. Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele, Bari 2007, pag. 123.