Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Commento al capo 44 del libro XV degli Annali di P. Cornelio Tacito

Commento al capo 44 del libro XV degli Annali di P. Cornelio Tacito

di Pier Paolo Vaccari - 03/02/2010

                                 
                                             

Propongo un commento al ben noto passo di Tacito, a ciò indotto dalla vitalità di quel testo, sia o non sia esso realmente originale; ipotesi quest’ultima principalmente sostenuta da uno studioso inglese del secolo scorso, dubbioso addirittura della paternità di Tacito sull’intera opera, da attribuirsi secondo lui alla penna furbesca dell’umanista Poggio Bracciolini; che ne avrebbe simulato la scoperta per motivi di denaro.
Tesi rigettata dalla maggioranza degli studiosi.
Si tratta in ogni caso di una testimonianza importante e stimolante, qualora non la si consideri con distacco e sufficienza, come in effetti accade a causa della sua drastica liquidazione del Cristianesimo.
La prima cosa curiosa, a proposito della quale peraltro non trovo riscontro in altri autori, il che mi fa un po’ dubitare della fondatezza del rilievo, mi sembra comunque l’osservazione che Tacito parla dei cristiani al passato, non al presente, come se ai suoi tempi di cristiani non ce ne fosse più, spariti dalla circolazione, una specie estinta: “quos …vulgus Christianos appellabat”.
Egli ricorda inoltre che quella “esiziale superstizione”, repressa a suo tempo in Giudea con l’esecuzione di Cristo, era appunto tornata ad affacciarsi a Roma ai tempi di Nerone, quando, accusata fra l’altro ingiustamente dell’incendio della città, fu perseguitata atrocemente .
E anche in questo passaggio la presenza dei Cristiani è datata, relegata a quell’episodio, come se ormai essi non costituissero più un problema attuale e sentito, all’epoca nella quale Tacito scriveva, cioè a cavallo fra il primo e il secondo secolo.
Ben diverso invece doveva essere stato l’impatto di quella presenza ai tempi del famigerato incendio, nell’anno 64 dell’era cristiana, cioè solo una trentina d’anni dopo la morte di Gesù. Al qual proposito sembra davvero stupefacente che a Roma i cristiani fossero già tanto visibili e ingombranti da attirarsi una persecuzione. Paolo doveva essere appena venuto.
Eppure Tacito parla di “multitudo ingens”.
Così stando le cose è lecito supporre che la diffusione del Cristianesimo agli inizi sia stato un fenomeno molto più incalzante (rursum erumpebat) di quanto di solito si immagini, e abbia avuto una dinamica tanto improvvisa quanto incontrollata, e inevitabilmente confusa.
Questa prima fase del movimento cristiano non si fa fatica a immaginarla francamente rivoluzionaria, cioè tale da provocare, con la scusa dell’incendio, una reazione immediata e drastica.
Oltre a tutto la problematica cristiana veniva in quel periodo a sovrapporsi, e in parte a confondersi, con la problematica ebraica, a sua volta gestita a fatica, tollerata fra alti e bassi, gravida di incognite, e pronta a sfociare in una guerra di distruzione.
Ma se il mondo giudaico rappresentava una dimensione a se stante, del tutto separata, perciò facilmente individuabile come obbiettivo, ecco che i Cristiani sembravano fuoriuscire da quel mondo, per invadere e contaminare in modo intollerabile la società civile.
Da qui la percezione dell’evento come rivoluzionario.
Non è tanto la sottigliezza delle idee o i distinguo filosofici, che contano in certi momenti, quanto il modo, col quale gli eventi si manifestano.
Quando Tacito parla di nefandezze (flagitia) a carico dei Cristiani, non ha senso scervellarsi per individuare i possibili reati cui pare riferirsi, ma piuttosto cogliere in quella parola tutto il disprezzo di fronte a qualcosa che si presentava anzitutto come eversivo e destabilizzante.
Abituati a immaginare nel Cristianesimo dei primi tempi una condotta riservata, nel silenzio e nella preghiera, fra mille difficoltà, dovremmo invece prender atto di un ben diverso andamento, discontinuo, che vide all’inizio un dilagare improvviso e tumultuoso, certamente intollerante, subito domato.
Le stesse modalità di quella persecuzione neroniana, o meglio sarebbe chiamarla repressione, paiono differenziarla dalle successive. Mentre nel seguito infatti certi aspetti formali verranno comunque tutelati quanto meno mediante l’offerta di opzioni individuali, in questo primo momento non si va affatto per il sottile, e la delazione (indicio) è lo strumento sommariamente adottato.
Tacito si diffonde sull’efferatezza del trattamento riservato ai Cristiani, e per quanto abituati da questa e da altre letture a sentirne di tutti i colori sulle punizioni inflitte ai nemici o presunti tali, in questo caso sembra proprio si sia passato il segno.
Il risultato lo abbiamo visto: di cristiani al tempo di Tacito non c’è più l’ombra: un movimento come tanti, velleitario, sfortunato, finito male, chiuso per sempre.
Ma la vita è piena di sorprese, qualcuno nell’ombra si dà daffare a raccattare i cocci, a rimettere insieme gli elementi di un contesto frantumato. Inizia un lavoro nascosto e intenso di riflessione, selezione, elaborazione, tale da dare vita a un movimento più consapevole, documentato, organico, nonché più compatibile con la società e la civiltà romana.
In attesa di cogliere, qualora si presentino, le occasioni favorevoli.
Tutti i testi cristiani vedono così la luce a partire dal secondo secolo; perfino le lettere di Paolo sembra siano cominciate a circolare non prima della metà abbondante del secolo.
Nel frattempo lo stato giudaico era stato definitivamente cancellato in un mare di sangue, e agli ebrei poteva tranquillamente e opportunamente essere addossata ogni colpa.
Aveva inizio un lungo periodo di sostanziale tolleranza, in un quadro che includeva tutte le confessioni religiose praticate nell’Impero.
Né deve sembrare contraddittorio con quest’affermazione l’accendersi sporadico di episodi persecutori, molto enfatizzati, ma sostanzialmente determinati dalla necessità di tenere sotto controllo la situazione generale; non certo dall’intenzione di eliminare quei movimenti, che in verità ebbero tutte le possibilità di svilupparsi e affermarsi.
A proposito di tolleranza, è bene precisare, per chi fosse indotto a ritenere tale nobile virtù connaturata all’indole romana, che non è affatto così. Durante tutta l’epoca repubblicana non vi fu alcuna disponibilità o tolleranza, nei confronti delle confessioni e dei riti stranieri.
Anzi una traccia del permanere di questi sentimenti repubblicani la ritroviamo proprio nel passo di Tacito, sicuramente nostalgico quando afferma che: “… per urbem… quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque.”
L’affermarsi e il generalizzarsi di comportamenti tolleranti è invece da riferire al consolidarsi dell’Impero, con la conseguente ovvia necessità di gestire una gran quantità di popoli tanto diversi. Confluisce in tale atteggiamento l’onda lunga della globalizzazione ellenistica, che finisce per divenire l’espressione culturale unitaria dell’Impero medesimo.
 Del resto ogni processo multietnico e policulturale, compreso quello oggi in corso, sembra aspirare a un concetto di tolleranza universale; anche se spesso solo a parole, non rimanendo affatto esclusa la possibilità, sempre incombente, di atteggiamenti e comportamenti discriminatori e persecutori.
Già, le persecuzioni.
Di quelle contro i Cristiani esistono solo memorie cristiane; certo da inquadrare e ridimensionare.
In più di duecento anni un numero assai limitato di episodi degni di questo nome; alcuni riguardanti province marginali dell’impero, altri sembra completamente inventati; l’ultimo no, sicuramente grave e tragico, però da collocarsi in un’ottica specifica, quella delle grandi oscillazioni che si producono nell’imminenza di cambiamenti di sistema. Una sorta di resa dei conti finale, il colpo di coda del vecchio mondo prima di cedere le armi; ciò che avvenne subito dopo, con la definitiva conquista cristiana del potere.
Dopodiché della tolleranza fu perso anche il seme: templi, religioni, tradizioni, culture… in pochi decenni tutto calpestato, abolito, sostituito.
E’ qui che si innesta il punto più delicato del commento al brano di Tacito.
Quel passaggio di fronte al quale anche il lettore più sereno e distaccato non può fare a meno di trasalire:
“… haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt.”
L’accusa ai Cristiani di odio verso il genere umano.
Niente male per una religione fondata sull’amore .
Dice Plinio che in base a quell’accusa troppe persone dovrebbero essere condannate. Ma qui l’accusa veniva rivolta a una confessione che si poneva in contraddizione con l’antica, gloriosa e consolidata tradizione greco italica.
L’odio verso il genere umano non può non riferirsi alla percezione di una incombente e totale intolleranza da parte di quel movimento; che avrebbe trovato puntuale e drammatica conferma nei secoli avvenire.
La stessa irrimediabilità del martirio, in molti casi cercato e voluto, costituiva una novità incomprensibile e inaccettabile, che, ponendo sul piatto della bilancia il bene più prezioso, la vita, ed esaltandone il sacrificio, veniva di fatto ad escludere ogni possibilità di intesa e di convivenza, ogni prospettiva di comprensione reciproca, in nome di una spaccatura verticale e definitiva: o con me o contro di me.
Certo non era minimamente immaginabile quel che avrebbe riservato il futuro.
Il giudizio di Tacito resta quindi un giudizio del tutto aprioristico; non per questo meno prezioso, in quanto scevro da ogni contaminazione, anche se influiva probabilmente sulla sua sbrigativa sicurezza la convinzione che l’argomento fosse ormai liquidato per sempre: una delle tante minacce (atrocia aut pudenda) che, insieme ai comportamenti viziosi e folli dei principi, stavano attentando alla civiltà romana.

Un breve capitolo, poco più di un cenno di cronaca, nascosto nel più ampio contesto dei mille eventi che Tacito fa rivivere nello scenario conturbante ed emblematico del grande Impero; ben lontano dall’immaginare il peso che quelle sue parole e quelle sue intuizioni avrebbero potuto assumere in una proiezione storica infinitamente più ampia e duratura.

Testo latino: Sed non ope humana, non largitionibus principis aut deum placamentis decedebat infamia quin iussum incendium crederetur. Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis adfecit, quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque. Igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio umani generis convicti sunt. Et pereuntibus addita ludibria, ut ferarum tergis contecti laniatu canum interirent, aut crucibus adfixi aut flammandi, atque ubi defecisset dies in usum nocturni luminis urerentur. Hortos suos ei spectaculo Nero obtulerat et circense ludicrum edebat, habitu aurigae permixtus plebi vel curricolo insistens. Unde quamquam adversus sontis et novissima exempla meritos miseratio oribatur, tamquam non utilitate publica sed in saevitiam unius absumerentur.

Traduzione:  Ma nessuna iniziativa, nessuna elargizione del principe, nessuna cerimonia espiatoria valeva a far cadere l’infamia che suo fosse l’ordine dell’ incendio. Cosicché per far cessare il rumore Nero additò come rei, e sottopose a raffinatissime pene, quella gente già invisa per le sue nefandezze, che il volgo chiamava Cristiani. Nome che si riferiva a Cristo, giustiziato sotto Tiberio dal procuratore Ponzio Pilato; e, repressa allora, quell’esiziale superstizione erompeva di nuovo, non più in Giudea, dove quel male era nato, ma addirittura nell’urbe, dove tutte le atrocità e vergogne del mondo confluiscono e vengono celebrate.
Furono dunque catturati dapprima quelli che si dichiaravano, quindi su loro indicazione una gran moltitudine, accusati non tanto del crimine dell’incendio quanto di odio per il genere umano.
E alla morte era aggiunto il ludibrio, coprendoli di pelli ferine e facendoli dilaniare dai cani, o attaccandoli alle croci e dandogli fuoco, in guisa di illuminazione notturna. Per tale spettacolo Nero aveva aperto i giardini e dato il via a una gara di cavalli nella quale lui stesso si esibiva fra la folla vestito da auriga ed eretto sul cocchio. Di modo ché, per quanto colpevoli e degni di pene esemplari, venivano commiserati per essere sacrificati non tanto alla pubblica utilità, quanto alla crudele volontà di uno.