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Iraq, Dai canneti al fiume, un villaggio che viene dal passato dell’Iraq

di Anthony Shadid - 05/02/2010


HALAICHIYA, Iraq — La frase ha una poesia che la terra non conosce: “dietro al sole”, dicono in arabo i residenti, riferendosi al fatto che questo scenario desolato, alle sorgenti del canale che unisce il Tigri e l’Eufrate, si trova in un luogo recondito, più lontano di qualsiasi altra città in Iraq.

“E’ la fine del mondo”, dice bruscamente il capitano Abdullah Naim, con quel modo di parlare a mezza bocca tipico di un ufficiale dell’esercito iracheno, mentre il suo pickup passa davanti a tanti simboli di devozione religiosa, capanne di fango dai toni marroni della povertà, e terra seccata dal sale delle acque che si stanno ritirando, con i granelli sparsi sul terreno come neve esitante. “Questo è l’entroterra”.

Halaichiya è lontana per prospettiva e ubicazione geografica. In un Paese invaso, occupato, distrutto e non ancora ricostruito, ha la particolarità di non aver mai visto un americano, men che meno un soldato.  Nessuno dei 110.000 soldati statunitensi e delle centinaia di diplomatici che sono in Iraq l’ha mai visitata. Non ne hanno motivo.

Bassora, situata a sud, è lontana; Baghdad ancor di più. É solo il confine con l’Iran, circa 16 km a est, a suscitare interesse. Questo offre ad Halaichiya una visuale insolita, da cui osserva gli eventi che accadono nel Paese che la circonda svolgersi come fossero scene di un film.

“La vita è come la vedi”, dice Obeid Jabbar Hlayil, lo sceicco del villaggio di 200 abitanti. “Questo è come eravamo e come siamo, dai canneti al fango del fiume”.

È difficile trovare un luogo inviolato dalla guerra in Iraq, dove una volta la carneficina era tanto sconcertante quanto causa di indifferenza.  “Gli eventi”, è il modo in cui spesso le persone definiscono la sua intensità, un’ anonimità che suggerisce così tante storie che non saranno mai raccontate. Ad Halaichiya, dove si arriva in barca attraversando acque che fluiscono e rifluiscono come una marea prima di gettarsi nello Shatt al Arab, regna ancora un’accattivante sensazione di normalità. Halaichiya, in un certo qual modo, è innocente.

“Questa era la nostra terra all’inizio”, dice Hashem Shabib Hassan, padre di 18 figli, che ipotizza di avere un’età compresa “tra i 38 e i 40 anni”. “Questo è il luogo in cui si trovavano i nostri antenati”.

Lungo le rive del fiume cotte dal sole, gli abitanti del villaggio tagliano le tamerici, il cui legno profumato, che brucia lentamente, è perfetto per cucinare una specialità di pesce conosciuta con il nome di masguf. I pescatori stanno nelle paludi con l’acqua alle cosce, gettando le reti nelle acque solcate da un’imbarcazione tradizionale chiamata chakhtura. Fuori dalle case, il letame, disposto in pile, dei bufali indiani del villaggio secca al sole, e presto servirà come combustibile per cuocere il pane e tenere lontane le zanzare.

I visitatori vengono accolti su una dozzina di tappeti persiani stesi per terra, e poi vengono serviti loro latte di bufala bollente zuccherato e pane di riso appena sfornato.

“L’unica cosa che è cambiata sono i cellulari”, dice Karim Mohaysin Hassan, farfugliando le parole in un borbottio che deriva dal fatto che ha solo due denti.

In realtà ci sono altri simboli evidenti di modernità. Karim Hassan – che di getto risponde: ‘Sono vecchio!’ quando gli chiedo la sua età - ricarica il suo telefono ogni sera, attaccandolo a un generatore che gli abitanti del villaggio accendono per alcune ore, o per quanto possa durare una bottiglia di benzina da un litro. Quando finisce il carburante, le poche antenne paraboliche si spengono. Una confezione di antibiotici fatti in Svizzera e delle lattine di Al Dira Cola sono sparse sul terreno vicino alle capanne fatte di canne, fango, e un pezzo di stoffa occasionale o una striscia arrugginita di lamiera ondulata. Un abitante del villaggio ha un pickup Toyota bianco. 

“Ma non meritiamo una scuola?”, chiede Shabib Hassan, analfabeta come i suoi figli.

Chi risiede a Baghdad, fortificata com’è dietro i muri anti-esplosione e paralizzata dai blackout, potrebbe sorridere sentendo dire che l’Iraq è una terra dove c’è prosperità. Questa, tuttavia, è la sensazione che si ha qui - una lente rotta di voci, storie improbabili, e le immagini fugaci di televisioni occasionali.

“Ho sentito solo cose positive sul resto del Paese”, dice Ahmed Khalaf. Gli amici riuniti sui tappeti persiani annuiscono. “ Najaf è così bella”, dice istintivamente Saddam Mshiji, elencando altre città irachene. “Anche Bassora è bella, così come Amara.”

“Tutte hanno strade asfaltate, e noi?”, chiede il suo amico.

Un altro abitante del villaggio, Leabi Ishghayeth, indica la strada sterrata, che circonda quelli che, in passato, erano stati campi di battaglia durante la guerra con l’Iran. “Quando cade anche solo una goccia di pioggia, la strada diventa un mare di fango”.

Molto più dell’invasione guidata dagli americani, qui è la guerra con l’Iran, finita nel 1988, a rappresentare tuttora un periodo della vita. Alcune schegge di granata hanno tagliato un dito a Karim Hassan. Venti e pioggia devono ancora cancellare le fortificazioni militari fatte di terra. Le mine esplodono ancora quando i bufali indiani pascolano. D’altra parte, gli americani sono visti come un mito, confinati all’immaginazione.

Quando i crociati arrivarono nel Levante, nell’ XI secolo, gli storici arabi rimasero colpiti da quello che uno di loro descrisse come “ardore combattivo”. Erano visti come giganti dai capelli chiari, protetti dall’armatura, carichi di armi e, all’ apparenza, invincibili.

Questa è una descrizione familiare per Karim Hassan: immaginava che i soldati americani fossero biondi con le guance rosse. “Più alti e più forti degli altri”, aggiunge. “Il loro è sangue buono”, continua. 

“Mi paragoneresti a un americano?”, dice Karim, stiracchiando in avanti le braccia fragili. “Se mi vedessero in America, mi getterebbero nell’immondizia e mi brucerebbero. Penso a loro e muoio di invidia”, aggiunge ridendo.

Lo stesso distacco viene utilizzato quando si parla dello Stato iracheno, che è percepibile solo nel caso di un raid contro contrabbandieri vicini e in un checkpoint dell’esercito isolato, che consiste in una pila di sacchi di sabbia in cima ai quali è posta una mitragliatrice, e dista un chilometro o giù di lì. Non tutti riuscirebbero a riconoscere il Primo Ministro Nuri Kamal al Maliki, il politico sciita più potente in Iraq. Ma la maggior parte delle persone qui conosce il suo nome, che per loro è un emblema di fedeltà verso lo Stato e la loro confessione.

“Abbiamo un detto qui: ‘Chiunque sposi mia madre, lo chiamerò padre’”, dice Hlayil, lo sceicco del villaggio.  Nella maggior parte delle versioni, il proverbio termina con ‘lo chiamerò zio’ – non padre, ma il significato resta lo stesso: si deve accettare quello che vuole il destino.

“Lui è l’unico che conosciamo”, dice lo sceicco.

(Traduzione di Arianna Palleschi per Osservatorio Iraq)
The New York Times

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