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Cina, tanto bastone e tanta carota. L’arte prospera a patto che stia zitta

di Stenio Solinas - 17/02/2010

Alla libreria francese di Gonti Xilu, così come a quella inglese di Fangcaodi Xijie, nel quartiere di Chaoyang, è il romanzo più venduto. Nelle due lingue, il titolo suona identico, Beijing Coma (Pechino è in coma è la traduzione italiana uscita per Feltrinelli), ma l’autore è cinese, si chiama Ma Jian, è esule, è all’indice. Secondo il premio Nobel Gao Xingjian, «è una delle voci più importanti e più coraggiose della letteratura cinese contemporanea»; secondo il sinologo Simon Leys, ha scritto la più penetrante diagnosi della vita in Cina oggi: una vita artificiale.

Chaoyang è il centro nervoso dello shopping e delle notti della capitale. A Sanlitun Lu c’è la sfilata dei bar e dei locali, andando verso il parco Ritan c’è il Mercato della Seta e il World Trade Center. Lo frequentano i capitalisti pechinesi e i pechinesi intellettuali. Nel nome dell’Occidente, i primi svuotano il portafogli, i secondi si riempiono la testa. In teoria il fine è identico, nella realtà no: se arricchirsi, infatti, «è glorioso», pensare, e quindi criticare, resta pericoloso. Di qui frustrazione, rabbia, disincanto. Il «coma» di cui parla Ma Jian è anche questa cosa qui: un cervello prigioniero del proprio corpo e da cui non si può evadere, esternamente piatto, quanto a encefalogramma, e tuttavia internamente presente, attento e quindi disperato.

Nell’estrema periferia di Chaoyang, a Dasnhanzi, c’è il 798. In origine era un insieme di officine denominate Fabbrica 798: producevano componenti elettroniche per radio e sistemi di trasmissione, munizioni, materiali per l’armamento leggero. A metà degli anni ’90, l’economia pianificata su cui si reggevano, non resse più: bisognava riqualificare, diversificare, andare in attivo. Risultato: oggi il 798 è il centro della vita artistica di Pechino, una gigantesca Breda in stile operaio, ma di un operaismo postmoderno, ovvero in stile Biennale di Venezia…. Risultato: l’arte d’avanguardia sta ora alla Cina come il libretto rosso della massime di Mao stava alla Cina che nella Rivoluzione culturale classificava gli artisti/intellettuali come «categoria puzzolente».

Il tutto è un po’ paradossale e una passeggiata per il 798 è sotto questo profilo istruttiva. C’è il giallo-grigio sporco dei mattoni da fabbrica e l’ipercolore dei locali alla moda e dei loft superlusso; incroci anoressiche e lattee lettrici di riviste di design che sorseggiano vino bianco ai tavoli di caffè dal décor minimalista, e operai autentici, alle prese con le loro tagliatelle di riso nella pausa-pranzo di un cantiere che li alloggia in baracche rudimentali di dieci letti a castello per stanza… Il tutto fra quadri dove il rosso del maoismo diventa il sangue della nazione, il giallo della Cina il volto di un alieno, video che mischiano inondazioni e manifestazioni di massa, epidemie e parate militari, sculture che trasformano guardie rosse del tempo che fu in calvi nani ghignanti, collage fotografici in cui piazza Tienanmen e McDonald’s assumono la stessa funzione.

La libertà di espressione di cui godono le arti plastiche è reale eppure ingannevole. Il potere sa benissimo che gli artisti giocano sull’ambiguità di un’interpretazione che, come tale, è opinabile, contraddittoria, rovesciabile. Non è il bianco e nero della scrittura, il mettere su carta il proprio pensiero e quindi il proprio sentimento, ciò che è costato l’esilio a Gao Xingjian come a Ma Jian… Se la contestazione non è rivendicata, se l’intenzione non è esplicita, perché reprimerla? È, se si vuole, anche una valvola di sfogo, oppure una foglia di fico atta a coprire una realtà censoria che, se necessario, sa dove colpire. E del resto, anche gli artisti sanno benissimo che il potere è ambiguo, li lusinga e se ne serve, è intimidente proprio perché imperscrutabile.
Il fatto è che l’unica volta in cui si è cercato di giocare a carte scoperte, è stato un massacro, quel giugno del 1989 in piazza Tienanmen, che il governo cinese finge non essere mai esistito e che in patria si cerca comunque di dimenticare. Perché fu uno choc, il Partito che passava sopra i propri figli con i cingolati dei carri armati… Sotto questo profilo, Pechino è in coma è esemplare. Perché racconta come nacque e si sviluppò una protesta studentesca, ritrovatasi antiregime senza saperlo e senza volerlo. Generazione priva di padri, perché il maoismo aveva disfatto ogni legame familiare classico, quei ragazzi credevano nel Partito, così come credevano nel Comunismo. Sognavano di poter dire la loro perché il Partito e il Comunismo glielo avrebbero permesso: mai come in quel caso il sogno si rivelò un incubo.

Il «coma» vuol dire anche questo. Accettare l’idea che non potendo parlare (ne sanno qualcosa intellettuali come Liu Xiaobao, già firmatario di Carta 08, che nei giorni scorsi si è visto condannare a 11 anni di carcere per «incitamento alla sovversione ai danni dello Stato», Tan Zuoren che ne ha presi cinque per aver denunciato la corruzione legata al terremoto nel Sichuan, e Huang-Qi che ne ha beccati tre per aver chiesto giustizia per i fatti di piazza Tienanmen) non resti altro, per chi non se ne vuole andare, che fare soldi, l’unica forma di libertà concessa, l'unico modo di godere di una qualche libertà. Nel decennio in cui Da Wei, il protagonista del romanzo, vive paralizzato in casa, per una pallottola che in quell’anno tragico lo colpì al cervello, i «compagni» di un tempo si «paralizzano» a loro volta: chi fa il manager, chi specula, chi traffica.. Sono tutti prigionieri del proprio «corpo» e apparentemente il loro cervello ha smesso di pensare. E anche Pechino è in coma, nella frenesia con cui distrugge e riedifica se stessa, eterno, incompiuto cantiere.

Da quel 1989, come per un tacito accordo, ciascuno ha insomma più o meno fatto la sua parte: libertà economica in cambio dello status quo politico. Suona un po' come il Commma 22 dell'omonimo romanzo di Heller, quello che sosteneva: «L'unico motivo valido per chiedere l'esonero dal fronte è la pazzia. Ma chiunque la chiede non è pazzo». Detto in cinese, l'unico motivo valido pere chiedere la democrazia è il voler essere liberi. Ma chi la chiede va rinchiuso. Così, la legittimità di chi è al potere rimane legata a un successo economico senza tregua su cui spalmare un orgoglio nazionale sempre più forte. Una gara che il governo non può perdere, ma che è costretto a vincere in eterno. Un coma come un altro.