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Elezioni all’irachena

di Michele Paris - 22/02/2010



 
 

A pochi mesi dal ritiro delle proprie truppe, i preparativi per le elezioni parlamentari del prossimo 7 marzo in Iraq continuano ad essere motivo di seria preoccupazione per gli occupanti americani. Dopo le profonde divisioni emerse sul finire dello scorso anno tra le varie forze politiche locali, intorno all’approvazione di una nuova legge elettorale, nuovi e più gravi conflitti stanno caratterizzando la campagna elettorale scattata da pochi giorni. Oggetto dello scontro è la controversa decisione di una commissione parlamentare irachena di escludere dalle liste svariate centinaia di candidati - in gran parte sunniti in corsa contro la coalizione di governo - a causa di presunti legami con il Partito Ba’ath del deposto Saddam Hussein, dichiarato illegale nel 2003.

A inizio gennaio, una sorprendente delibera della Commissione Responsabilità e Giustizia del Parlamento di Baghdad - incaricata di epurare i fedeli del dittatore giustiziato nel dicembre del 2006 e chiunque promuova il movimento baathista - aveva decretato l’estromissione di 515 candidati dalle prossime votazioni per il rinnovo del Parlamento. Nonostante la ratifica della decisione da parte dell’Alta Commissione Elettorale Indipendente, i numerosi ricorsi e le polemiche innescate avevano determinato una sentenza di una Corte d’Appello che il 3 febbraio stabiliva il reintegro di tutti i candidati nelle liste elettorali, rimandano la decisione definitiva sulla legittimità della loro eventuale elezione a dopo il voto.

Quest’ultimo verdetto è stato tuttavia duramente contestato dal Primo Ministro, Nouri Kamal al-Maliki, il quale pare abbia fatto immediatamente pressioni sulle alte sfere dell’apparato giudiziario iracheno, ottenendo pochi giorni fa la conferma dell’esclusione di quasi tutti i candidati in questione. Secondo fonti interne alla Commissione Elettorale, sarebbero stati accolti gli appelli di appena 26 candidati. Una soluzione che, se definitiva, non solo mette in mostra la promiscuità delle istituzioni irachene, ma rischia di delegittimare in anticipo una tornata elettorale considerata in Occidente come un momento cruciale per la riconciliazione interna e il trasferimento della piena sovranità alla politica locale.

Come già anticipato, quasi tutti i candidati colpiti dal bando appartengono alla minoranza sunnita e fanno parte di partiti e aggregazioni che minacciano la coalizione che sostiene l’attuale Primo Ministro sciita (Alleanza Nazionale Irachena). Una situazione che sta impensierendo non poco gli Stati Uniti e i diplomatici occidentali. Il malumore diffuso tra la popolazione sunnita e i loro rappresentanti politici, potrebbe infatti portare ad un boicottaggio delle elezioni simile a quello del 2005, da molti ritenuto la causa principale dell’esplosione della violenza settaria che ha insanguinato l’Iraq nei due anni successivi.

Il provvedimento della Commissione Elettorale irachena colpisce anche esponenti politici di primo piano, come il Ministro della Difesa Abdul-Kader Jassem al-Obeidi e soprattutto Saleh al-Mutlaq, leader del Fronte Iracheno per il Dialogo Nazionale. Coalizione formata da partiti sunniti e secolari, il Fronte sembrava avere ottime possibilità di raccogliere un vasto consenso tra l’elettorato sunnita, spazientito dal Partito Islamico Iracheno che sostiene il governo in carica.

Mutlaq, 61enne uscito dal Partito Ba’ath di Saddam Hussein nel 1977, vanta un ampio seguito nelle province sunnite del paese ed è una figura di un certo rilievo nel panorama politico iracheno, come dimostra la sua partecipazione alla riscrittura della Costituzione dopo l’invasione anglo-americana del 2003. Proprio la sua assenza nelle prossime elezioni - così come quella di un altro leader del Fronte, Dhafir al-Ani - potrebbe materializzare lo spettro che le forze alleate hanno cercato in tutti i modi di allontanare per prevenire nuove tensioni settarie: il senso di espropriazione da parte degli iracheni sunniti del loro diritto ad una piena rappresentanza politica.

Se anche alcuni dei partiti maggiormente colpiti dall’esclusione dei rispettivi candidati al Parlamento hanno annunciato una sospensione temporanea delle loro operazioni di campagna elettorale, a molti osservatori appare improbabile un nuovo boicottaggio sunnita nelle elezioni di marzo. Dopo il voto del gennaio 2005, infatti, la minoranza sunnita venne pressoché totalmente esclusa dal governo del paese, una prospettiva desiderata oggi da pochi all’interno dei partiti di opposizione. Anche senza un vero e proprio boicottaggio, però, l’intera vicenda sta già causando un terremoto politico in Iraq, minando seriamente le speranze americane di stabilizzare il paese in vista del ritiro delle proprie truppe da combattimento entro il settembre di quest’anno e di tutto il personale militare entro la fine del 2011.

A segnalare un inasprimento della situazione interna negli ultimi mesi, oltre a centinaia di arresti di sostenitori dei partiti espressione dell’elettorato sunnita, c’è il ritorno di gravi attentati e sporadici episodi di violenza riconducibili alla competizione politica in corso. Secondo molti in Iraq e in Occidente, d’altra parte, i due principali blocchi sciiti in corsa nelle elezioni starebbero da tempo sfruttando le paure di un possibile ritorno sulla scena dei baathisti a fini propagandistici.

Gli stessi attentati terroristici che recentemente hanno colpito la capitale sono stati attribuiti dal governo ai fedelissimi baathisti di Saddam, la cui attività rappresenterebbe, appunto, una seria minaccia da scongiurare con il voto di marzo. Questo nonostante ci sia quasi totale accordo tra i diplomatici e i vertici militari occidentali circa l’estraneità degli ex baathisti alle operazioni condotte presumibilmente dai gruppi islamici estremisti.

Gli appelli anti-baathisti, che si sono concretizzati nella messa al bando di centinaia di candidati sunniti, oltretutto in seguito a riscontri alquanto discutibili, trovano terreno fertile soprattutto nelle province meridionali a maggioranza sciita del paese. Qui, d'altronde, la brutalità del regime di Saddam Hussein si era fatta sentire in modo particolare, tanto che tra l’elettorato i timori per una rinascita del partito dell’ex dittatore sovrastano di gran lunga qualsiasi sconforto nei confronti del governo per le mancate promesse di sviluppo economico e di lotta ad una corruzione dilagante.

L’ingigantimento del pericolo baathista da parte dei partiti sciiti sembra rispondere insomma alla necessità di fermare il pur incerto superamento della politica settaria responsabile delle violenze che hanno causato migliaia di morti fino a poco più di due anni fa. Una tendenza che si era percepita durante le elezioni provinciali dello scorso anno e che prometteva di punire le coalizioni islamiche sciite, che pure dovrebbero rappresentare la maggioranza della popolazione dell’Iraq.

Il duro colpo assestato alle speranze di pacificazione dalla Commissione Elettorale irachena, con la complicità del governo, mette in luce anche il fallimento della politica di riconciliazione voluta dagli Stati Uniti a quasi sette anni dall’inizio di una guerra ingiustificata. Una politica che ha condotto un Primo Ministro sempre più impopolare a trasformarsi - per cercare di rimanere al potere - da docile esecutore del volere di Washington ad accanito nazionalista anti-americano e che rischia ora di rimettere indietro le lancette dell’orologio ad un recentissimo passato fatto di stragi settarie e bagni di sangue.