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Tel Aviv caccia altri palestinesi dalle proprie case

di Matteo Bernabei - 24/02/2010

     
 
Purtroppo le autorità israeliane sembrano essere le uniche ad aver capito che la soluzione a due Stati promossa dagli Usa può essere facilmente aggirata, sottraendo ogni giorno una porzione di territorio alla controparte, con lo scopo di creare un unico grande Paese. Non si tratta nemmeno di una cosa che l’esecutivo di Tel Aviv tenta di far passare sotto traccia. I decreti di espulsione e demolizione delle abitazioni palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania vengono infatti emessi con una certa costanza dalle autorità israeliane, con la scusa che essi riguardano soltanto edifici costruiti abusivamente. Sembrerebbe, però, che questi provvedimenti colpiscano esclusivamente le costruzioni illegali nelle quali risiedono cittadini arabi ai margini e all’interno della Città Santa o lungo le vie che collegano fra loro i grandi insediamenti ebraici illegali.
L’ultimo di questi eventi, che si ripete ormai sempre più spesso, si è verificato soltanto ieri con l’approvazione da parte della municipalità di Gerusalemme del piano 5834B, nel quale si stabilisce la costruzione di cinque edifici di sei piani ciascuno sui terreni sottratti ai palestinesi nel sobborgo di Beit Safafa, situato sulla strada che collega la Città Santa a Hebron. Solo alcuni giorni fa all’interno della stessa Gerusalemme, nel quartiere arabo di Silwan, il presidente del Consiglio municipale Nir Barkat ha dato il via insieme con la polizia allo sgombro e all’abbattimento di circa 50 edifici dove risiedevano famiglie palestinesi. Nello stesso giorno a ben 36 abitanti di Beit Hanina, un altro quartiere arabo della Città Santa, è stato notificato lo sfratto esecutivo. Secondo il centro di cultura italo-palestinese Al Quds in quest’ultimo caso si tratterebbe più che altro di una vendetta nei confronti dei congiunti di Mari Radayda, l’uomo che guidò un bulldozer contro un autobus e un’auto della polizia israeliana che poi lo uccise a colpi di arma da fuoco.
Proprio come accaduto l’11 febbraio scorso per il caso di Mohammad Khatib, il militare palestinese che uccise un soldato israeliano mentre questo era fermo ad un semaforo nei pressi di un check point. La famiglia del funzionario delle forze armate dell’Anp si è vista, dopo ore di inutili interrogatori, portare via la casa dai commilitoni della vittima. La stessa sorte poi toccata ad altri cinque nuclei familiari residenti nei pressi dell’insediamento di Barta’a in Cisgiordania. Sarebbe ora che l’Autorità nazionale palestinese facesse qualcosa di concreto per arginare questo fenomeno, anche perché non si tratta di un’azione fine a se stessa, ma di un piano ben preciso già esposto dal vicepremier israeliano Danny Ayalon. Il numero due dell’esecutivo di Netanyahu ha ammesso senza problemi che l’obiettivo di Tel Aviv è proprio quello di costringere in questo modo l’Anp a trasferire gli arabi senza più casa all’interno di quello che dovrebbe un giorno diventare il territorio del futuro Stato di Palestina. Difficilmente però l’Anp si muoverà per far fronte a tutto questo finché i suoi vertici saranno occupati da politicanti piegati alla volontà degli Stati Uniti e di Israele. A cominciare dal presidente Mahmud Abbas.