Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Vietato parlare! Il «politicamente corretto» come minaccia per la libertà

Vietato parlare! Il «politicamente corretto» come minaccia per la libertà

di Marco Massignan - 20/04/2006

 
 

Giorgio Bianco, giovane esponente del pensiero libertarian in Italia, è autore di questo pregevole libro: «Vietato parlare! Il ‘politicamente corretto’ come minaccia per la libertà», edito da Leonardo Facco).
Ma che cos’è il «politicamente corretto» e come si è imposta in Occidente l’egemonia culturale di tale nuova forma di «gulag civile»?
Fu sul finire degli anni Ottanta che il «politicamente corretto», fenomeno non privo di radici nell’ubriacatura «controculturale» sessantottina, trovò terreno fertile anche in Italia.
Scrive Stefano Di Michele nel suo «I magnifici anni del riflusso» (Marsilio, 2003): «essendo una rivoluzione fatta di chiacchiere, a sinistra incontrò un certo successo. Fu tutto un festoso ribattezzare, dallo spazzino (operatore ecologico) al cieco (non vedente), dal sordo (non udente) alla donna di servizio (collaboratrice domestica). Sembrò molto bello e molto giusto e molto democratico. Una parola nuova qui, una fresca là, e mano a mano il surreale prendeva posto del reale».
Il primo aspetto che balza subito agli occhi è come il «politicamente corretto». comporti autentici salti di paradigma lessicali: dall’eufemismo zuccheroso alla perifrasi che traveste la realtà sotto falso nome, la vivacità umana viene relegata in un limbo uniforme ed asettico. Il Grande Fratello di Orwell non è poi così distante: vi è il serio pericolo di una neolingua (o antilingua) totalitaria?


Senz’altro, sostiene Bianco: «il politicamente corretto, dunque, come Eden linguistico carezzato dalla pacificante brezza della litote. Peccato che gli officianti del culto del linguaggio (...), sempre così acribiosi nel coniare espressioni che non scalfiscano la sensibilità, la suscettibilità, la considerazione di sé delle categorie a cui si riferiscono, siano poi non meno attivi nell’utilizzo, anche a sproposito, di espressioni di disprezzoe di odio verso chi non è sufficientemente ligio agli interdetti e ai dettami da loro stessi sanciti».
Ci troviamo di fronte, quindi, ad un vero e proprio Stato terapeutico onnipervasivo che monitorizza i pensieri e le espressioni private e punisce duramente chi «offende», nel tentativo di ricostruire gli esseri umani così come il governo (o chi per esso)
esige che siano.
Ricorda acutamente Murray N. Rothbard: «gran parte dell’attuale ondata di ‘correttezza politica’ è un folle tentativo di continuare a giustificare comportamenti animaleschi, nel momento stesso in cui si cerca di sostituire con schiere di regole formali la decente educazione. Ma queste regole formali sono l’esatto contrario delle buone maniere, perché sono usate come clave per imporre la propria volontà su qualcun altro, il tutto in nome [di una pretesa] sensibilità».


Ecco che possiamo intravedere un secondo aspetto: come il «politically correct» contraddica se stesso: esso, infatti, esibisce generosità per dissimulare la volontà di controllo, millanta comprensione per conservare lo «status quo»; una sensibilità di facciata insomma, alternativamente retorica o censoria, che crea nuove categorie di reietti (pensiamo soprattutto ai fumatori, ai ciccioni, vittime del nuovo moralismo salutista).
Pertanto, una domanda sorge spontanea: in questi tempi di buonismo ecumenico, di tutine etiche e mimetiche, non vi è il rischio, a forza di reprimere, che un’aggressività inespressa causi un’esplosione violenta ed incontrollata (il solito discorso dell’eterogenesi dei fini: alle buone intenzioni di «chi pensa al nostro bene» seguono effetti indesiderati)? Osservava Natalia Ginzburg - demolendo con sarcasmo e vis polemica i codici del nuovo bigottismo linguistico: «ci si studia di adoperare quei cadaveri di parole quando si parla in pubblico o comunque a voce alta, e il nostro vero linguaggio lo conserviamo dentro di noi clandestinamente».
Siffatta «antilingua» - come ha notato Piergiorgio Liverani - usando «parole dette per non dire quello che si ha paura di dire», corrompe e falsifica la comunicazione mediatica e favorisce la progressiva caduta dei valori sui quali si fonda la civiltà dell’Occidente.


Un’ultima considerazione: i moderni Stati «democratici», senza valori, corrono il rischio di convertirsi in sofisticate forme di totalitarismo aperto oppure subdolo.
Il «politicamente corretto» sembra tra le mosche cocchiere di questa strisciante trasformazione: nel momento di un imperante relativismo culturale, per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, dove vi è il trionfo del «quid est veritas», dell’opinione,
del «secondo me», l’odierna malattia dell’uomo è di non aderire più alla verità oggettiva, ma alla soggettività dei sentimenti, a «ciò che si sente vero»: è per questo che, nel caos verso cui sembra tendere la società post-moderna, si rende necessario conoscere le insidie della nuova antropologia in cui l’uomo si situa come creatore e signore di se stesso.
La perversione del linguaggio è ben più pericolosa di quanto non si creda: sfidare la verità delle parole significa portare lo sconvolgimento sin nel profondo; «nomina sunt consequentia rerum»: se l’essenza del demoniaco è la menzogna, questa raggiunge il suo apice nell’antilingua «politically correct».