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Riflessioni d’un moderno su un idillio esotico del ‘700 realmente avvenuto: Narina e Le Vaillant

di Francesco Lamendola - 07/03/2010

 

È stato il mito roussoiano del “buon selvaggio” a influenzare la percezione che il pubblico europeo, con la mediazione di viaggiatori e naturalisti, ebbe dei popoli “primitivi” nel tardo XVIII secolo, oppure è stata quella percezione ad esercitare una marcata influenza su scrittori e filosofi e far nascere in loro proprio quel mito?
Posta così la questione, sembrerebbe impossibile uscire dal circolo vizioso che essa medesima tende a creare: è nato prima l’uovo della moderna antropologia occidentale, oppure la gallina delle seducenti fantasie che l’Occidente da sempre coltiva sulle culture che esulano dai suoi orizzonti, come rovescio del razzismo e dello sfruttamento ai loro danni?
Per tentare di rispondere a questa domanda, uscendo da quel circolo vizioso, proviamo a interpellare direttamente una delle fonti di quel mito, che, sebbene poco nota al grande pubblico, crediamo abbia esercitato una influenza più profonda del melodrammatico «Atala» di François Réné de Chateaubriand o di «Paul et Virginie» di Bernardin de Sain-Pierre,  nel produrre un certo orientamento culturale dell’uomo europeo verso le culture native.
Si tratta delle due relazioni scritte dall’esploratore francese François Le Vaillant (nato nella Guyana olandese nel 1753  e morto a Sézanne il 22 novembre 1824), che fu protagonista di due importanti viaggi naturalistici nell’interno dell’Africa meridionale:  l’uno, iniziato con lo sbarco a Città del Capo il 29 marzo 1781, ma ostacolato nella sua marcia da una serie di avversità; e il secondo, molto più importante, due anni dopo, allorché, assistito dalle circostanze favorevoli, egli riuscì a spingersi alquanto più in profondità.
Per ciascuno dei due viaggi scrisse una relazione: la prima fu pubblicata a Parigi, in due volumi, nel 1790; la seconda, in tre volumi assai più corposi, nel 1796; opere che si segnalano ancora per la vivacità, la freschezza e quasi l’ingenuità del piglio narrativo.
Le Vaillant era un viaggiatore diverso dalla maggior parte degli altri del suo tempo: non solo non aveva pregiudizi nei confronti dei popoli “primitivi” che incontrava sul suo cammino e che studiava con occhio attento e benevolo, ma era pure sgombro da quel tipico complesso di superiorità che accompagnava quasi tutti gli europei, laici o missionari, i quali entravano in contatto con quella remota umanità.
Era anche piuttosto umano nei suoi rapporti con gli indigeni e rispettoso delle loro  credenze e consuetudini; per lo meno, lo era quanto glielo permetteva la cultura illuministica e materialistica di cui pure era figlio (valga per tutti la sua convinzione circa l’ateismo degli Ottentotti), ma non senza intense suggestioni di tipo pre-romantico.
Le Vaillant, comunque, costituiva l’eccezione: di norma, i viaggiatori europei che, a partire dalla metà del Settecento, erano venuti a contatto con gli Ottentotti, spingendosi oltre i possedimenti olandesi del Capo di Buona Speranza, quasi unanimemente descrissero quel popolo come sporco, incivile, ripugnante; qualcuno non esitò a dire che quegli indigeni, di umano, non possedevano altro che il volto (N. de Graaf, in «Voyage aux Indes orientales», Amsterdam, 1719, p. 87). L’astronomo Lacaille, che studiò i cieli australi dalla montagna della Tavola (da lui eternata in una nuova costellazione, «Mensa»), con tutto il suo filantropismo illuminista e la sua incondizionata fiducia nel progresso, non fa eccezione alla regola.
L’Europa, si sa, a quell’epoca era ammalata di esotismo, anche se alla sua maniera e alle sue condizioni: perché, ad esempio, nelle sue «Lettres persaines», Monsieur de Voltaire metteva in scena dei Persiani molto parigini, molto “philosphes” e squisitamente cartesiani; e si sa che il povero Luigi XVI, pochi istanti prima di salire sul patibolo, continuava a domandare: «Ancora nessuna notizia di La Pérouse?», ovvero del navigatore francese che era salpato da Brest con due navi, l’«Astrolabe» e la «Boussole», nel 1785, pieno di nobili sentimenti umanitari e di fiducia nella bontà dell’uomo vicino alla natura, e che si era perduto nell’immensità dell’Oceano Pacifico, per non più fare ritorno.
Solo trent’anni dopo Jules Dumont D’Urville avrebbe scoperto le prove del suo tragico naufragio presso l’isola di Vanikoro, nelle Salomone, dove gli indigeni avevano massacrato i marinai superstiti: sorte analoga, anzi perfino più benevola, di quella toccata a un altro navigatore francese, Marion Dufresne, nel 1772. Questi, sbarcato alla Nuova Zelanda per fondarvi una “Francia Australe”, vi aveva trovato la morte per mano dei Maori i quali, dopo aver simulato la più grande amicizia e ospitalità, avevano poi trucidato i bianchi a tradimento e avevano banchettato con i loro corpi; episodio che probabilmente ispirerà a Edgar Allan Poe una scena del suo romanzo «The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket», scritto fra il 1837 e il 1838.
Non sempre, pertanto, il “buon selvaggio” era veramente tale; ma così volle vederlo l’Europa, magari per lavarsi la coscienza da tante cattive azioni perpetrate ai suoi danni, nel segno del razzismo e dell’avidità di ricchezze: dallo sterminio dei nativi americani alla tratta degli schiavi negri, passando per la vera e propria caccia all’uomo esercitata dai coloni bianchi verso gli Aborigeni australiani e verso i miti, inermi Tasmaniani.
Scriveva, dunque, il viaggiatore francese nel suo libro «Primo viaggio di F. Le Vaillant nell’interno dell’Africa pel Capo di Buona Speranza» (titolo originale: «Premier Voyage de F. Le Vaillant dans l’entérieur de l’Afrique», 2 voll., Paris, 1790; traduzione italiana di F. Contarini, 3 voll., Milano, Aldo Martello Editore, 1958, vol. II, pp. 124129, 136-39):

«… In mezzo a tali reciproche offerte ed agli affettuosi sentimenti che reciprocamente ci ispiravamo,  mi colpì la vista d’una giovinetta di sedici anni. Confusa nella folla,  si mostrava più curiosa per la mia persona che premurosa di avere la sua parte de’ giocattoli che io distribuiva alle sue compagne.  Mi guardava con tanta attenzione, che me le avvicinai per darle tutto l’agio di considerarmi. Mi parve bella; aveva i denti più freschi e più belli che veder si potessero, e l’elegante e snella struttura, e le forme amorose del suo corpo, avrebbero fatto onore al pennello di Albano. Era la più giovane delle Grazie sotto forme ottentotte.
Le impressioni del bello sono universali, e la bellezza è una regina, il cui impero s’estende in ogni luogo, e m’accorsi  dalla prodigalità de’ miei doni che io pure cedeva  un poco alla sua possa. La mia giovane selvaggia presto fece a domesticarsi; io le avevo data una cintura, de’ smanigli, una collana di piccoli grani bianchi che le stava a meraviglia, indi mi levai dal collo un fazzoletto rosso con cui s’avvolse il capo, e così addobbata era, per dirla in ricercato linguaggio, deliziosa. Mi formava un piacere d’ornarla io medesimo. Quando ebbi terminato, mi chiese qualche cosa per sua sorella  che era rimasta all’orda; m’additò poscia sua madre, che non aveva più genitore, ed io l’opprimevo d’interrogazioni, tanto mi allettavano le sue risposte,. Il mio piacere in vederla ed udirla era indicibile, e la pregava di restare meco facendole promesse d’ogni sorta; ma quando le parlai di condurla al mio paese ove tutte le donne sono regine e comandano ad un gran numero di schiavi, ben lungi al lasciarsi tentare, rigettò apertamente le mie proposizioni, e si espresse schiettamente con movimenti d’impazienza e di collera. Un monarca non avrebbe vinta la sua resistenza ed il fastidio che le dava il sole pensiero d’abbandonare la sua famiglia e la sua tribù. Terminai per pregarla di condurmi almeno sua sorella, che non sarebbe rimasta scontenta; me lo promise, e ad un tratto suoi sguardi si fissarono su d’una sedia non lunge  da me. M’indicò col coltello che io ci aveva lasciato a caso; tosto glielo offersi e vidi con piacere che lo cedette a sua madre.
Non poteva levarsi gli occhi d’indosso pei suoi nuovi ornamenti; si toccava le braccia, i piedi, la collana, la cintura; poneva venti volte le mani sul capo affine di toccarvi e sentirvi il fazzoletto che assai le piaceva. Apersi quindi la mia cassettina e ne trassi lo specchio ponendoglielo dinanzi. Ella vi si guardò con attenzione ed anche con compiacenza, e traspariva da’ suoi gesti, e da’ vari atteggiamenti quanto fosse contenta non dirò già di se stessa, ma de’ suoi nuovi ornamenti, che le facevano un’impressione ognora più forte. Quando era partita dal’orda per venire a trovarmi, si era stropicciata le guance con grascia e fuliggine; io gliela feci lavare e bene asciugare, ma non mi riuscì mai di persuaderla che i soccorsi dell’arte sua facevano torto alla Natura che l’aveva creata sì bella. Per quanto cercassi di rendere accetti i miei ragionamenti, e qualunque fosse l’effetto della sua compiacenza in lasciarsi ristabilire  sulle fresche sue guance quella dolce morbidezza della gioventù che sì presto scompare, rimaneva però sempre ostinatamente affezionata a quella sua brutta grascia nera, come si fa da noi al belletto, ed a tutti quegli altri empiastri, non meno schifosi se non più funesti.
La mia bela allieva mi pregò di lasciarle il mio specchietto, ed io vi consentii. Profittava a meraviglia del favore che si era dolcemente procacciato meco, per chiedermi tutto ciò che le inspirava desiderio, ed io non sapea dirle no; ma  alla fine dovetti ricusarle parecchie cose, sì per l’indispensabile bisogno che io ne aveva, sì pel timore che le convertisse in cattivo uso per se medesima.  Le fibbiette de’ miei legacci l’avevano pure tentata; il brillare di quelle pietruzze aveva parlato a’ suoi occhi, ed io sarei stato contentissimo di poterglieli donare; e desiderai molto in quel punto de’ miserabili ucchielli di ferro per sostituirli a quell’inutilmente splendido arredo. Sgraziatamente era il solo paio che possedessi; le feci comprendere che quelle fibbiette mi erano assolutamente necessarie, e non se ne parlò più. Aveva bastante discernimento per non disgustarsi de’ miei rifiuti, ed appena le aveva negata io qualche cosa, cangiava d’oggetto.
Il suo nome era per me difficile da pronunziare, e nulla poi mi diceva al cuore. La sbattezzai dunque e la chiamai Narina, ciocché significa “fiore” in lingua ottentotta, la pregai  a conservare il suo bel soprannome che tanto le conveniva, e mi promise di portarlo sinché vivesse, qual memoria del mio passaggio pel suo paese, e qual dimostrazione d’amore. Un tale sentimento non le era già più sconosciuto, e nel suo ingenuo e commovente linguaggio mi faceva comprendere  abbastanza quanto ha d’imperioso la prima impressione della Natura, e che in fondo a’ deserti d’Africa bastava osare per essere felice. […]
Deposta la caccia nella mia tenda, tornai al campo de’ miei ospiti., e seppi che erano andare a bagnarsi. Curioso di vedere la cerimonia, , corsi al fiume n dovetti strabiliare a cercarle ; le voci loro e le risate mi fecero tosto trovarne la traccia; mi spinsi tacitamente fra gli alberi e le frasche, e giunsi presso alla riva senza dare indizio; stavano esse tutte scherzando in mezzo all’acqua e andandovi sotto con mirabile abilità.
Un colpo di archibuso che io tirai nello scoprirmi fece cessare il giuoco. Tutte ad un tempo affondarono, non mostrando più che la punta del naso; io m’era seduto sui loro vestiti posti a mucchio, e mi divertivo a burlarle, mostrando loro l’un dopo l’altro i piccioli grembialetti, ed invitandole a venirli a prendere. La madre di Narina rideva di cuore per l’imbarazzo delle sue compagne prese così alla sprovvista. Era dessa sortita dall’acqua prima dell’altre, e riposava sotto un albero aspettandole. A lungo mi supplicarono d’allontanarmi, ma invano. Non rimaneva loro che un partito e l’afferrarono con una prontezza che mi sorprese. Conoscevano tutto l’ascendente della bella Narina sopra di me. Sua madre le gettò il grembiale ed il “kros”; ella si vestì in acqua, e venne tosto a me col tuono della maggior tenerezza ed ingenuità a scongiurarmi che m’allontanassi per qualche istante onde dar tempo  a quelle donne di riprendere i loro vestiti; io finsi  di resistere per poco, ma Narina, presomi per mano,  riuscì a trarmi seco sinché giunti ad una certa distanza  gridò alle sue compagne che potevano liberamente sortire.
Frattanto ci eravamo incamminati alla mia tenda con familiarità sempre maggiore, e Narina scherzava con me, quanto avrebbe potuto farlo con un suo fratello, co’ suoi genitori, colle sue compagne.  Ella celiava alla sua foggia, e mi provocava in piccanti maniere ora lottando di forza con me per isciorsi dalle mie braccia, ora passando per iscapparmi i cespugli, i burroni, i più larghi fossi.  Giovine e vigoroso allora, avvezzo di lungo a’ più duri travagli, e traendo una vita mille volte più aspra che que’ selvaggi medesimi, avrei sfidato i nostri Ercoli d’Europa; ma sia che l’abitudine ad un restio di galanteria mi facessero un dovere di non impiegare colla giovine Narina che la metà delle mie forse, sia che infatti ella fosse più destra e snella, mi avrebbe costretto a chiedere grazia, ed io le cedeva il campo.  Specialmente poi, quando fuggendo da’ miei scherzi, poneva fra me e lei un piccolo intervallo, mi sfidava alla corsa e vi si lanciava, con quale celerità e con quante giravolte, non giungeva ella mai a celarsi presso al bosco per sorprendermi al passar mio!»

Dicevamo che l’Europa, alla fine del XVIII secolo, era malata di esotismo a tutti i costi e sognava una felicità dell’uomo allo stato naturale che, di lì a breve, il medico Itard, studiando il caso del “ragazzo selvaggio” del’Aveyron, avrebbe impietosamente relegato fra i sogni di evasione di una modernità che già cominciava a spaventarsi di se stessa; un po’ come i primi due viaggi “scientifici” di James Cook, proprio in quegli anni – nel 1768-71 e nel 1772-75 - stavano infrangendo implacabilmente il mito tenace della Terra Australis Incognita, che da secoli alimentava la fantasia (e la cupidigia) degli Europei.
Eppure era un mito tenace, quello della originaria bontà e felicità dell’uomo “naturale”, che non può dirsi del tutto scomparso nemmeno ai nostri dì, dato che ovunque, nelle pieghe rimaste in ombra della dominane filosofia del progresso e della macchina, se ne può cogliere un sia pur fugace bagliore. Quale amante del cinema francese non ricorda che, all’inizio del bellissimo film di Eric Rohmer «L’amour l’après-midi» (1972), il protagonista viaggia sulla metropolitana che lo porta verso il centro di Parigi, immergendosi nella lettura del «Voyage autour du monde» di Louis Antoine de Bougainville, altro importante navigatore francese contemporaneo dello sfortunato La Pérouse?
Ma il brano qui sopra riportato è doppiamente interessante e, in un certo senso, commovente, perché non solo conserva l’ingenua visione idealizzata del mondo “primitivo”, ma perché vi sovrappone un altro mito caratteristico: quello di una originaria armonia e naturalezza nei rapporti fra i sessi, non senza qualche implicazione di tipo pre-cristiano se non, addirittura, implicitamente anticristiano (e Le Vaillant sembra proprio considerare, materialisticamente, la Natura come la vera ed unica divinità degna di adorazione).
L’amicizia che fiorisce spontanea e senza secondi fini (lo stesso Le Vaillant ci assicura della propria ammirevole continenza in proposito) fra il giovane europeo che conosce tante cose e la giovanissima africana che, al suo cospetto, appare come una libera figlia della Natura, felice nella propria inconsapevolezza della “civiltà” coi suoi ritrovati e con i suoi riti artificiali, sembra conservare un riflesso di quella franca e innocente amicizia che le “vahiné” polinesiane, secondo i racconti dei marinai, mostravano  senza falsi pudori nei confronti degli Europei, meravigliandosi anzi della loro buffa mancanza di disinvoltura.
Ed è lo stesso mito che, tenace, svolgerà un ruolo importante, forse fondamentale, nel fatale ammutinamento dell’equipaggio del «Bounty» al comandante William Bligh, il 28 aprile 1789 (quasi contemporaneamente allo scoppio della Rivoluzione francese), durante il viaggio di ritorno da Tahiti verso l’Europa. È forse un caso che il primo ufficiale, Fletcher Christian e il guardiamarina Peter Heywood, si fossero legati a delle fanciulle indigene e non sopportassero l’idea di non più rivederle?
La dura disciplina a bordo del brigantino inglese non fu, forse, che il pretesto per quegli uomini infatuati dal mito del “buon selvaggio”; in questo caso, della “buona selvaggia”. Ma che il mito non potesse reggere alla prova dei fatti, lo avrebbero dimostrato le successive, tragiche vicende degli ammutinati, una volta rifugiatisi sulla sperduta isola Pitcairn. Le feroci rivalità di razza, unite a quelle per il possesso delle donne, spinsero infatti Inglesi e Polinesiani a trucidarsi a vicenda, in una cupa atmosfera di sospetti, odio e disperazione.
Un mito seducente e quasi insopprimibile, dunque, quello della bella indigena di lontane terre, che incanta l’uomo europeo con la sua spontaneità e naturalezza; da «She» di Rider-Haggard, alla Antinea di «L’Atlantide» di Pierre Benoit, alla bella etiope senza nome di «Tempo di uccidere» di Ennio Flaiano: sono tutte maschere, fra loro anche assai diverse, di quel mito originario, che alcuni fotografi occidentali, di tanto in tanto, continuano a rispolverare, inondando il mercato editoriale con i loro libri fotografici ispirati al tema della Venere africana.
Ma codeste, recentissime “Black Ladies” - così come, del resto, la bellissima Antinea di Benoit - sono sofisticate regine dell’immaginario occidentale; mentre la Narina di François Le Vaillant è un piccolo miracolo di semplice grazia e di seduttività quasi inconsapevole.
Anche quest’ultimo, del resto, è un tipico mito occidentale, per di più coniugato squisitamente al maschile.
Un mito che continua a rivivere, ad esempio, nel sorriso della ragazza bantu, sorpresa dalla macchina da presa dell’etologo tedesco Irenäus Eibl-Eibensfeldt, sorpresa in tutti i suoi passaggi psicologici: dalla curiosità, al pudore, alla ingenua maliziosità timidamente provocante.