L'attacco all'Iran come rottura dell'ordine delle genti
di Augusto Sinagra, Aldo Rocco Vitale, Antonio Vernacotola Gualtieri D'Ocre, Paolo Menarin, Don Roberto Caria, Daniele Trabucco - 13/06/2025
Fonte: Augusto Sinagra, Aldo Rocco Vitale, Antonio Vernacotola Gualtieri D'Ocre, Paolo Menarin, Don Roberto Caria, Daniele Trabucco
OLTRE IL DIRITTO, CONTRO LA GIUSTIZIA: L’ATTACCO A TEHERAN COME ROTTURA DELL’ORDINE DELLE GENTI
L’attacco portato dallo Stato d’Israele contro la Repubblica islamica dell’Iran in data 13 giugno 2025 costituisce una violazione manifesta, grave e reiterata dei principi supremi dell’ordinamento giuridico internazionale, così come essi risultano positivamente codificati nella Carta delle Nazioni Unite del 1945 e riconosciuti in via consuetudinaria dalla comunità internazionale degli Stati. In particolare, esso rappresenta una sfida frontale al divieto assoluto dell’uso della forza armata nelle relazioni internazionali, al principio di sovranità degli Stati e al diritto dei popoli alla pace e alla sicurezza collettiva. L’articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite stabilisce, con formula perentoria, che "gli Stati membri si astengono, nelle loro relazioni internazionali, dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato". Tale disposizione non è suscettibile di interpretazioni estensive o restrittive che ne tradiscano la ratio, poiché essa funge da clausola fondamentale dell’ordine internazionale postbellico, volta a scongiurare il ritorno all’anarchia giuridica della forza. L’unica eccezione contemplata, quella di cui all’articolo 51 della medesima Carta, prevede la possibilità del ricorso unilaterale alla forza solo in caso di aggressione armata già in atto e a condizione che l’azione difensiva sia immediatamente notificata al Consiglio di Sicurezza, nella prospettiva di una futura assunzione di competenza da parte dell’organo collegiale. Ora, nel caso di specie, nessuno degli elementi costitutivi della legittima difesa in senso stretto risultava integrato: non vi è stato alcun attacco armato da parte iraniana nei confronti dello Stato israeliano, né tantomeno una minaccia talmente concreta, certa e imminente da rendere inevitabile, proporzionata e necessaria la reazione armata. La dottrina della legittima difesa anticipatoria, che già nella giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia (v. Nicaragua c. USA, 1986; Oil Platforms, 2003) e nella prassi ONU non ha mai ricevuto legittimazione piena, viene qui evocata per giustificare un’azione eminentemente strategica, che mira a impedire il consolidarsi di un equilibrio nucleare regionale sfavorevole. Tuttavia, ciò configura non già un’azione difensiva, bensì un attacco preventivo privo di qualsiasi fondamento giuridico, espressivo di una logica unilaterale e imperialistica. Il concetto di "minaccia" di cui all’art. 39 della Carta, che consente al Consiglio di Sicurezza di adottare misure coercitive, non è trasferibile ad iniziative unilaterali: la valutazione della minaccia alla pace compete all’organo collegiale, non al singolo Stato, che non può arrogarsi il compito di stabilire quando un programma nucleare, per quanto inquietante, diventi di per sé un "casus belli". La distruzione dei siti nucleari iraniani, tra cui Khondab, Natanz e Isfahan, costituisce una chiara violazione non solo della sovranità territoriale dell’Iran, ma anche degli obblighi derivanti dal Trattato di non proliferazione nucleare e dai protocolli dell’AIEA, che vietano azioni unilaterali che ostacolino le ispezioni e la cooperazione tecnico-nucleare. Inoltre, l’assenza di una preventiva autorizzazione del Consiglio di Sicurezza rende l’atto privo di qualsiasi parvenza di legittimità procedurale. Sotto il profilo della filosofia del diritto, e in particolare della riflessione classica sullo "ius gentium", l’azione israeliana rappresenta un esempio di violazione dell’ordine razionale della comunità internazionale, fondato sul concetto di giustizia come proporzione ordinata alla natura razionale e sociale dell’uomo. Per Aristotele, il diritto (dikaion) è ciò che regola l’ordine della polis in vista del bene comune, e la giustizia (dikaiosynē) è la virtù che rende a ciascuno il suo secondo ragione, non secondo utilità o potenza. L’agire giusto è tale solo nella misura in cui rispetta la mesotes, la giusta misura tra eccesso e difetto. La guerra, per essere conforme alla legge naturale, deve essere ordinata non all’interesse, quanto alla riparazione di un torto manifesto: ciò che Tommaso d’Aquino, sulla scorta della tradizione aristotelico-agostiniana, chiamerà "bellum iustum", soggetto a precise condizioni di causa giusta ("iusta causa"), autorità legittima ("auctoritas principis") e intenzione retta ("intentio recta"). La filosofia islamica classica, in particolare in Avicenna e Averroè, riprende e sviluppa questi concetti. Per Avicenna, ogni legge che pretenda di essere giusta deve riflettere l’ordine razionale e metafisico del mondo, ordinando l’azione umana al fine ultimo della perfezione. La guerra che scaturisce dalla paura dell’altro, o dal desiderio di mantenere un’egemonia regionale, non può rientrare in tale ordine, perché spezza la simmetria tra mezzi e fini e corrompe la razionalità pratica con l’arbitrio della forza. Averroè, nel "Commentarium Magnum all’Etica Nicomachea", afferma che la "lex naturalis" è specchio dell’intelletto divino partecipato all’intelletto umano: ogni azione che distrugge l’unità tra ragione e ordine è non solo ingiusta, ma metafisicamente disordinata. Così, l’attacco israeliano all’Iran configura non solo una violazione del diritto positivo, ma una rottura dell’ordine assiologico e razionale che deve reggere la comunità internazionale come communitas ordinata. In assenza di una "autoritas" superiore che possa giudicare e sanzionare in modo cogente, l’unico argine all’anarchia della forza è il riconoscimento della legge naturale come fondamento prepolitico del diritto positivo. L’eclissi del "ius naturale" genera lo svuotamento dello "ius gentium", che si riduce a tecnicismo privo di fondamento, a procedura senza legittimità. La comunità internazionale, allora, se vuole sopravvivere come ordine giuridico e non degenerare in un mero sistema di potenze in conflitto, deve rimettere al centro la concezione del diritto come espressione dell’ordine razionale della realtà, riconoscendo che la pace non è l’assenza di guerra, bensì l’armonia ordinata alla giustizia. La forza, usata fuori dal diritto, non è mai neutra: essa genera un effetto emulativo, un momentum di destabilizzazione che, come una frattura profonda nella struttura dell’essere, non può che produrre nuove ingiustizie. In tal senso, l’attacco del 13 giugno 2025 è non solo un illecito, ma una negazione del "logos" che anima il diritto come arte regale del governo della pluralità umana secondo ragione.
Prof. Avv. Augusto Sinagra (Già Ordinario di Diritto dell'Unione Europea presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Direttore della Rivista della Cooperazione giuridica internazionale (fascia A). Avvocato del Foro di Roma)
Prof. Aldo Rocco Vitale (Università Europea di Roma)
Prof. Antonio Vernacotola Gualtieri D'Ocre (SSML/Istituto di grado universitario "san Domenico" di Roma)
Avv. Paolo Menarin (Avvocato del Foro di Vicenza)
Rev. Mons. Prof. Don Roberto Caria (Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna. Vicario generale nell'Arcidiocesi di Oristano)
Prof. Daniele Trabucco (SSML/Istituto di grado universitario "san Domenico" di Roma)