Iraq, Per un alleato degli Stati Uniti le elezioni sono questione di vita o di morte
di Ned Parker - 12/03/2010
Raad Ali ha osservato le elezioni nazionali domenica scorsa rintanato in una zona fuori Baghdad, nell’anonimato. Qui nessuno gli dà fastidio: persone che non lo conoscono pensano che sia solo un altro degli sfollati iracheni dalla capitale. Le giornate sono lunghe, e sente la mancanza della moglie e dei figli – e crede che i risultati delle elezioni determineranno se potrà tornare a casa o se dovrà andare in esilio, lontano dai suoi cari. Con le sue camicie dal colletto abbottonato, i pantaloni casual, e il consueto sorriso, Ali sembra un umile impiegato statale, o un commesso zelante che si sta avviando verso una mezza età paffuta. A mostrare la sua preoccupazione è solo la barba di qualche giorno. Poco più di due anni fa, stringeva la mano al Generale dell’esercito statunitense Ray Odierno, a Ghazaliya, che una volta era il suo quartiere, dove comandava uno dei primi gruppi a Baghdad di un movimento paramilitare sunnita che ha contribuito a riportare la calma nella capitale. Adesso le forze di sicurezza irachene gli stanno dando la caccia, nonostante abbia combattuto l’Esercito del Mahdi e “al Qaeda in Iraq” nel suo quartiere, nella parte ovest di Baghdad. Ali prega che le elezioni nazionali risolvano il suo problema: se vince Iyad Allawi, pensa che per lui ci sarà un posto nel suo Paese; se vincono Nuri Maliki o altri sciiti fondamentalisti, crede che la persecuzione non finirà mai. Sarebbe solo questione di tempo prima di venire messo in carcere e separato per sempre dalla sua famiglia. "Se non vince Allawi, il futuro è cupo", dice. "Prenderanno di mira tutti". Secondo lui, il rancore risale a prima del 2003, quando era un ufficiale delle forze speciali irachene, e quelli che oggi governano combattevano lo Stato dall’esterno. Queste divisioni ancora non si sono rimarginate. Né Ali né le forze armate statunitensi sanno quali siano le accuse specifiche nei suoi confronti, solo che contro di lui è stato spiccato un mandato che lo accusa di terrorismo. Ali non è il solo a nascondersi: parla di amici che hanno lasciato la capitale prima delle elezioni. Secondo un alto funzionario dell’esercito Usa, più di 60 membri di gruppi sunniti tribali, paramilitari, e religiosi - a Baghdad e nella cintura rurale attorno alla città - sono stati incarcerati dall’estate scorsa: alcuni sono finiti nelle prigioni gestite dalle forze speciali irachene o dalla ”Brigata Baghdad”, un’unità dell’esercito controllata da Maliki. "Forse c’è un piano per creare scompiglio nelle zone sunnite", dice il funzionario militare. Gli arresti hanno aggiunto un’ulteriore sensazione di paura alle dinamiche della politica irachena, assieme alle più pubblicizzate purghe contro i ba’athisti durante la campagna elettorale. La vita di Ali in clandestinità è iniziata quando gli americani si preparavano a lasciare le città, la scorsa primavera, in base al nuovo accordo di sicurezza fra Iraq e Stati Uniti. Nel marzo scorso, forze di sicurezza irachena avevano fatto irruzione in casa sua, vicino a una base militare Usa, dove comandava le sue truppe paramilitari. Dopo otto giorni in carcere, un giudice aveva ordinato il suo rilascio e fatto cadere le accuse nei suoi confronti, comprese quelle che venivano da un informatore segreto, secondo cui lui era un capo locale del gruppo “al Qaeda in Iraq”. Il rilascio era avvenuto dopo un’azione di lobbying a favore della sua libertà da parte delle forze armate statunitensi. All’epoca, Ali era fiducioso di poter continuare a vivere normalmente: i suoi nemici lo avevano portato in tribunale, ed era stato prosciolto. Invece, poche settimane dopo essere stato liberato, aveva ricevuto altre soffiate da alcuni amici nelle forze di sicurezza irachene che lo informavano che alcuni ufficiali avevano intenzione di incarcerarlo. L’estate scorsa, una volta era stato fermato per due ore dall’esercito iracheno, ma lo avevano lasciato andare perché non avevano un mandato. A settembre, un forte presentimento lo aveva spinto a sistemare la sua famiglia da un’altra parte. Il giorno in cui stava traslocando, forze dell’esercito iracheno avevano fatto irruzione nel suo quartier generale, che prima era la sua casa. Per caso, Ali si trovava nella casa nuova a spacchettare, quando era venuto a sapere che le forze di sicurezza lo cercavano. Aveva troncato i contatti con gli amici, e cercato di sparire dentro Baghdad. Si era abituato alla sua vita in clandestinità, dicendosi che fintanto che si teneva lontano da Ghazaliya, il governo iracheno non gli avrebbe dato fastidio. Ma presto si era trovato a tener d’occhio lo specchietto retrovisore in cerca di macchine sospette, ed era diventato diffidente verso tutto. Pochi mesi dopo, lui e la moglie avevano deciso che sarebbe stato meglio che lasciasse la città. Dal posto in cui si nasconde, ogni tanto telefona al figlio adolescente e alle due figlie. E’ sempre stato quello che imponeva la disciplina, quindi dice ai figli di fare i compiti, e li rimprovera se disobbediscono alla mamma. "Voglio vederli e sentire il loro odore", dice. "Mi mancano troppo". Alcune volte si è arrischiato ad andare a Baghdad per vederli, e ha sorpreso la famiglia, telefonando quando era a pochi minuti da casa loro. La moglie gli dice di lasciare il Paese se sarà necessario: lei farà finta che sia in carcere. Se se ne andrà, andrà prima in un Paese arabo, e poi, forse, cercherà di andare negli Stati Uniti: spera che i suoi vecchi amici nelle forze armate Usa e all’ambasciata americana lo aiutino, ma con loro non ha più contatti veri e propri da quattro mesi. Spera che la situazione si definisca presto. L’ultima volta che è stato a Baghdad, la figlia più piccola lo ha implorato di portarla con lui. "Le ho detto che dopo le elezioni forse tutto cambierà", dice Ali, seduto su un divano nel suo nascondiglio, con la voce piena di affetto per la figlia. Ma poi il suo umore cambia. "Onestamente, non ho speranza", dice. "Davvero, non ho speranza". (Traduzione di Ornella Sangiovanni) |

