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La vittoria di Tia Hellebaut su Blanka Vlasic è stata il trionfo della grazia discreta e dello stile

di Francesco Lamendola - 23/03/2010




Pechino, Olimpiadi 2008: il 23 agosto si disputa la finale del salto in alto femminile.
Due sono le atlete che si apprestano a contendersi la medaglia d’oro: la croata Blanka Vlasic e la belga Tia Hellebaut.
La Vlasic, ventiquattrenne, è amatissima dal pubblico del suo Paese e assai popolare non solo per la sua bravura sportiva, ma anche per ragioni che con lo sport hanno poco o nulla a che fare: vale a dire per la bellezza sensuale e spavalda che ella ostenta volentieri, dall’alto della sua statura imponente (193 centimetri), concedendosi volentieri all’obiettivo del fotografo e abbandonandosi a un vero e proprio balletto, sotto gli occhi tutti e davanti alle telecamere, ogni volta che riporta una vittoria o che mette a segno una prestazione atletica importante.
In tali occasioni, ancheggiando e alzando il braccio in maniera provocante - complici le magliette sempre più ridotte e i pantaloncini sempre più minuscoli, che ormai contraddistinguono lo sport femminile, quasi come si trattasse di prestazioni da calendario hard - ella non si perita di sfoggiare tutto il proprio narcisismo. I suoi tifosi la idolatrano e, a forza di sentirsi dire che è bella (anche se di una bellezza, diciamolo senza cattiveria, non particolarmente raffinata), senza dubbio ha finito per dimenticarsi che la sua presenza negli stadi dovrebbe avere un significato esclusivamente sportivo, come per qualsiasi altra, e si comporta come la reginetta di un concorso di bellezza. Ovviamente con l’immancabile perlina incastonata nell’ombelico.
Un tempo (intendiamo dire, fino a non molti anni or sono) la giuria avrebbe trovato sconvenienti queste passerelle sexy, insistite e prolungate, e avrebbe richiamato all’ordine la disinibita fanciulla, minacciandole sanzioni e finanche l’allontanamento. Ma ormai tutte le istituzioni sono diventate di bocca buona: e, così come i presidi nelle scuole o i preti nelle chiese tollerano, da parte degli studenti e dei fedeli, un abbigliamento non certo consono a dei luoghi di studio o, meno ancora, a dei luoghi di culto, allo stesso modo la severa etica sportiva ha ceduto il passo alla smania di stare al passo con i tempi in fatto di volgarità, e, con la scusante - del tutto demagogica - di non voler reprimere la “spontaneità” delle atlete, i giudici di gara e gli organizzatori delle competizioni sportive chiudono tutti e due gli occhi o, addirittura, si compiacciono di questi discutibili fuori programma, che, se non altro, fanno lievitare l’interesse del pubblico.
La Hellebuat, invece… be’, lei è tutta un’altra cosa. Trent’anni compiuti, quindi quasi “vecchia” per lo sport professionistico, sembra tutto tranne che una diva da passerella. Alta, ma non fuori misura (183 cm.), magra e col viso affilato, quasi senza seno, non solo non possiede le curve prorompenti della più giovane rivale, ma si ostina a portare - caso pressoché unico tra i suoi colleghi - gli occhiali da vista invece delle lenti a contatto e con quelli si cimenta anche nelle gare, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Insomma, con quell’aria ingenua e pulita da maestrina d’altri tempi, la si direbbe proprio, per parafrasare Louise May Alcott, “una ragazza fuori moda”, tanto più stonata in questo universo sportivo femminile del terzo millennio, dove sembra che sia quasi più importate dei risultati atletici il fatto di esibire la propria sensualità ed elettrizzare, non precisamente per motivi del tutto consoni alla situazione, il pubblico maschile.
Diciamo che la Hellebaut non è bella, se per bella si intende sinuosa e provocante. Guido Gozzano la avrebbe definita, come la Signorina Felicita, «quasi brutta», ma per farne poi emergere, attraverso alcuni particolari poco appariscenti e tuttavia significativi, un tipo di beltà (guarda caso) «quasi fiamminga», che non sfugge a quanti sanno vedere il fascino femminile non solo in termini di centimetri, di curve e di età, ma anche e soprattutto di grazia, compostezza e stile.
Ed ora due parole sulle rispettive carriere atletiche.
La Vlasic, nata a Spalato l’8 novembre 1983 (uno Scorpione, dunque), ha già gareggiato sia alle Olimpiadi di Sydney del 2000, sia a quelle di Atene del 2004, ma senza mettersi in mostra con risultati di rilievo. Invece ha vinto il titolo mondiale del salto in alto a Osaka, il 2 settembre 2007, con un salto di 2,05 metri e lo vincerà di nuovo a Berlino, il 20 agosto 2009, con uno di 2,04; il suo record personale sarà tuttavia di m. 2,08, registrato il 31 agosto 2009 a Zagabria, che sarà anche il record nazionale croato e il secondo risultato assoluto di tutti i tempi.
È giunta a Pechino in grandissima forma, avendo riportato, nella prima metà dell’anno, la bellezza di trentaquattro vittorie consecutive: è la favorita assoluta, la beniamina del pubblico: insomma, tutti danno per scontato che sarà lei a salire sul gradino più alto del podio e a fregiarsi della medaglia d’oro, in un delirio di folla.
La forma smagliante di cui gode pare confermata dal fatto che, per tutta la durata della gara, è l’unica a non commettere mai un errore, saltando l’asta senza mai farla cadere, fino all’altezza di 2,05 metri; però, lì giunta, anche lei fa uno sbaglio e butta giù l’asticella. È a questo punto che si fa avanti la Hellebaut e, dopo essersi concentrata, si avvicina con passi precisi al millimetro e salta l’ostacolo al primo tentativo.
Ma chi è questa belga secca secca, occhialuta e per niente “fatale”, che sta ora contendendo la vittoria alla croata, che già credeva di stringerla in pugno? Nata ad Anversa il 16 febbraio 1978 (perciò in Acquario), si è specializzata nell’eptathlon e nel pentathlon, di cui detiene i record nazionali del Belgio; e solo in un secondo momento è passata al salto in alto.
Si è classificata prima nei Campionati europei di atletica leggera del 2006, saltando la misura di m. 2,03; arrivando poi a quella di m. 2,05 nei Campionati europei di atletica leggera indoor del 2007. L’anno dopo, infine, ha anche conquistato il suo primo ed unico titolo mondiale nel pentathlon indoor a Valencia.
Ora, a Pechino, in questo caldo giorno di fine agosto, tutto dipende da lei: e lei salta l’asticella a m. 2,05 al primo tentativo. La Vlasic riprova e questa volta riesce, ma ormai al secondo tentativo. Decisa a non lasciarsi sfuggire l’oro, non le resta che cercare di eguagliare il suo primato personale di m. 2,07; ma è sempre più nervosa, visibilmente nervosa. Come una bambina un po’ viziata e capricciosa, si innervosisce perfino quando le mandano a dire che ha ancora del tempo a sua disposizione prima di eseguire un nuovo salto.
E così, uno dopo l’altro, finisce per sbagliare in tutti e tre i tentativi, mandando a terra ogni volta quell’asticella che, ormai, sembra stregata, come se rappresentasse, per lei, la barriera invalicabile dei sogni.
È fatta: la Hellebaut ha vinto l’oro e, drappeggiandosi nella bandiera belga, raggiante di gioia e quasi incredula ella stessa di quanto è successo, si appresta a salire sul podio più alto; alla Vlasic non resta che accontentarsi dell’argento, che pure le dà la (scarsa) soddisfazione di essere la prima atleta croata a vincere una medaglia olimpica nell’atletica leggera.
Si rifarà l’anno dopo, ai Campionati del mondo di atletica leggera di Berlino, dove vincerà la medaglia d’oro, saltando però “solo” 2,04 metri.
Ma intanto la Hellebaut, il 5 dicembre 2008, ha annunciato il proprio ritiro dall’attività agonistica, perché sta aspettando una bambina: per lei, è arrivato il tempo di godersi le gioie della maternità e la soddisfazione di aver lasciato lo sport professionistico con il titolo di campionessa mondiale in carica, alla non più giovane età di trentun anni (recentemente è tornata alle gare, per la gioia dei suoi vecchi e nuovi tifosi, belgi e non solo).
C’è una morale da ricavare dallo storico “duello” fra le due atlete alle Olimpiadi di Pechino, una morale che vada magari al di là del dato puramente tecnico e agonistico? Forse sì; e lo diciamo in tono sommesso, senza alcuna petulanza o facile moralismo.
La sobrietà, la professionalità, lo stile, pagano; non sempre pagano l’eccessiva sicurezza in se stessi, l’acclamazione incondizionata degli altri egli esibizionismi di dubbio gusto.
Almeno in questo caso, i facili pronostici della vigilia sono stati completamente sovvertiti e lo sport puro si è preso una bella rivincita sullo sport spettacolo un po’ sguaiato, un po’ sopra le righe, impartendo una quanto mai opportuna lezione di modestia a chi ne aveva, forse, un certo bisogno e riconoscendo invece i meriti di chi, nell’ombra, ma con tenacia, ha saputo coltivare al massimo il proprio talento naturale.
C’è una foto emblematica di questa vicenda: ed è quella che ritrae le due atlete subito dopo che si sono sportivamente abbracciate. La Vlasic si allontana tristemente, con l’aria affranta e quasi incredula, forse trattenendo a stento le lacrime; mentre la Hellebaut si drappeggia nella propria bandiera nazionale e sfodera un sorriso acqua e sapone quasi commovente, che la fa rassomigliare davvero a una maestrina dalla penna rossa. I loro volti, i loro atteggiamenti sono più eloquenti di qualsiasi discorso: potenza del linguaggio non verbale. China e mortificata è la prima, con le spalle curve e il viso contratto, mentre esce di scena; raggiante di felicità, ma non sguaiata e, anzi, singolarmente misurata e composta appare la seconda, che sembra sfiorare il terreno con passo di danza.
Non lo si può negare: fa piacere che le cose siano andate così.
Si ha la sensazione che sia stata rispettata un’intima giustizia inerente alla verità profonda delle cose, anche se apparentemente in contrasto con i pronostici razionali e, magari, anche con ciò che gli spiriti superficiali avrebbero desiderato: di vedere premiata, cioè, ancora una volta, una mentalità egocentrica che si serve dei valori - e lo sport è uno di essi - per mettere la propria vanità sotto i riflettori, solo perché nell’era delle veline e delle bellone a un tanto il chilo sembra che a questo tipo di donne sia concesso tutto e, come cantavano gli Abba in una loro bella canzone, «the winners takes it all», ossia «i vincitori pigliano tutto», e agli altri non restano che le briciole del loro banchetto.
Dicevamo che lo sport è un valore: e lo è certamente, se praticato nella maniera giusta, vale a dire per servirlo e non per servirsene. Ed è anche una palestra di vita, dal momento che, nella vita, la prima cosa che bisogna imparare è che non si viene al mondo per essere serviti, ma per servire e per cercare, attraverso il servizio, la propria armonia e la propria felicità. Ma l’armonia e la felicità non risiedono nell’approvazione degli altri: tanto meno nell’approvazione impropria, cioè in quella che ci viene tributata non per i nostri meriti reali, ma per la nostra capacità di apparire in un certo modo, indipendentemente dal nostro vero essere.
Certo, nello sport professionistico vi sono molte, troppe cose che contrastano con questa etica rigorosa, che presuppone il perseguimento puro e disinteressato della propria vocazione: dall’enfasi spettacolare voluta dagli sponsor, vale a dire dai potenti interessi economici in gioco, fono all’uso e all’abuso di sostanze anabolizzanti, motivati dalla cattiva filosofia secondo cui ciò che conta è solo e unicamente il risultato, senza badare ai mezzi impiegati per conseguirlo.
Culto dell’esteriorità e pragmatismo efficientistico, spinto fino al cinismo: ecco i due grandi mali di una pratica sportiva che, troppo spesso, finisce per cedere e per piegarsi a delle esigenze di pubblicità e di mercato, le quali non hanno nulla a che fare con lo sport.
C’è bisogno di ricordare che gli atleti greci gareggiavano alle Olimpiadi in vista soltanto della gloria e di una corona d’alloro, poiché non vincevano nemmeno un quattrino? In compenso, essi venivano considerati come dei veri e propri eroi e la soddisfazione morale era così grande, da costituire un incentivo più che adeguato ad affrontare tutti i sacrifici richiesti dalla lunga e faticosa preparazione atletica.
A quello spirito dovremmo tornare, nello sport e in tutti gli altri ambiti ove siano in gioco non dei nudi interessi, ma degli autentici valori. E, più in generale, dovremmo recuperare la convinzione che è la tensione spirituale verso il mondo dei valori a rendere unita la società e a conferirle armonia e speranza nel futuro, non la tecnica o il possesso dei beni materiali.
Alla luce di queste considerazioni, fa piacere che la Hellebaut abbia vinto sulla Vlasic: perché è stato un segno, un segno di cui forse avevano bisogno tanti giovani che si accostano alla pratica sportiva nelle più diverse specialità.
E, forse, un segno di cui avevano bisogno anche tante donne non più giovanissime e mai state bellissime, in un mondo che sembra inchinarsi solo a un modello di femminilità ostentato e gridato: mentre ci sarebbero tante cose che esse avrebbero da dire, sussurrandole, a quanti sono capaci di fare silenzio per ascoltarle.