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Un nuovo approccio alla questione palestinese

di Gian Carlo Caprino - 30/03/2010

 
 
   
La decisione attuale di costruire migliaia di abitazioni a Gerusalemme est da parte del governo Nethanyaou, così come la spaventosa offensiva, a lungo preparata, su Gaza nel dicembre 2008 e così come le sanguinose incursioni nel 2006 in Libano, da parte dell'esercito israeliano (tanto per restare agli episodi più recenti) dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, come sia illusoria la strategia che incoraggia, secondo le risoluzioni dell'ONU, la creazione di due Stati indipendenti, uno israeliano e l'altro palestinese, partendo dai confini che lo Stato ebraico aveva prima del giugno 1967 e da raggiungere mediante negoziati bilaterali. E questo non perché tale strategia sia priva di senso, essendo anzi l'unica teoricamente auspicabile e da perseguire, bensì a causa della estrema sproporzione di potere negoziale esistente tra le due parti in conflitto.
Da una parte abbiamo infatti uno Stato dotato di uno dei più potenti eserciti del mondo, foraggiato a fondo perduto da decine di miliardi di dollari l'anno dalle lobbies ebraiche mondiali (in testa quella statunitense) e dai governi USA, appoggiato da questi ultimi in maniera talmente sfacciata da vanificare in sede ONU qualsiasi risoluzione che lo obblighi a trattare in modo credibile con la controparte. Dall'altra parte abbiamo un popolo senza sponsor potenti, ristretto da quasi 43 anni in territori infiltrtati sempre più dai cosiddetti "coloni" ebrei, costretto a vivere di mendicità internazionale e soggetto a continue ed umilianti vessazioni che hanno come unico scopo quello di compiere una pulizia etnica (obbligando i palestinesi all'esodo) per la successiva creazione di un "Grande Israele".

Stando così le cose perché Israele dovrebbe concedere qualcosa su territori che esso ritiene biblicamente di sua proprietà? Nemmeno poi è lontanamente da pensare che lo Stato ebraico si comporti in futuro come i vincitori di solito fanno: avendo cioè conquistato con la guerra la Cisgiordania, Gaza (perché anche Gaza è alla mercè dell'esercito israeliano) e Gerusalemme est, possa offrire ai vinti che vogliano restare nella loro terra l'opportunità di diventare cittadini israeliani a tutti gli effetti. Israele è infatti uno Stato, anche se formalmente laico, assolutamente confessionale, dove (come ammette anche Amos Oz, mente critica e lucida degli scrittori israeliani) alla fine comandano i rabbini. Avere alcuni milioni di cittadini elettori non ebrei nei propri confini, sarebbe quindi assolutamente inaccettabile per Israele; ecco perché il vero scopo, ovviamente mai dichiarato ma chiarissimo, di tutte le umiliazioni e vessazioni che il popolo palestinese subisce non può che essere, come ho già detto, la pulizia etnica dei territori occupati.

Cosa fare allora? E' bene per tutti rendersi conto che la partita della creazione di uno Stato palestinese, basato sulle intese del 1993, è attualmente perduta, ma non la possibilità di poterci arrivare in una prospettiva di lungo periodo.
Per prima cosa è essenziale riportare la questione palestinese nel suo alveo naturale, cioè la Nazione araba, intesa come insieme di popoli che si sentono umiliati dall'arroganza israeliana ed americana, evitando ricorsi all'ONU, richieste di improbabili arbitrati alla UE o ad altre organizzazioni internazionali (Lega araba compresa), prive di qualsiasi potere coercitivo verso Israele e quindi del tutto inutili. Ma per far ciò occorre ricostruire prima con pazienza la "Nazione araba" che esisteva negli anni Cinquanta - Sessanta e che adesso non esiste più.
Provo ad elencare una serie di tappe in ordine temporale.

1) La leadership palestinese, a qualsiasi corrente appartenga, deve rendersi conto che una fase storica si è chiusa e che la battaglia per uno Stato autonomo, in queste condizioni, non ha nessuna possibilità di successo. Occorre quindi dichiarare Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza "zone militarmente occupate" ponendo la popolazione civile araba sotto la protezione delle organizzazioni umanitarie internazionali.
Occorre altresì che le dirigenze palestinesi si astengano da qualsiasi attività ostile verso l'occupante, per non scatenare la sua furia devastatrice onde costringere la popolazione civile palestinese (vero bersaglio dell'occupante) all'esodo forzato.
In questo quadro i lanci di razzi artigianali "Qassam" da parte di Hamas sono non solo militarmente inutili, ma criminali, poiché funzionali in tutto e per tutto la strategia israeliana

2) Si dovrebbe poi formare un governo in esilio (come negli anni Settanta) che rompa ogni rapporto diretto con l'occupante, tenendo ben distinti i ruoli di chi subisce l'occupazione e di chi la compie. Ad esempio, le indegne sceneggiate di uno Yasser Arafat costretto a vivere gli ultimi due anni della sua vita (e sulla cui morte si allunga l'ombra del Mossad) in un ufficio diroccato a Ramallah, continuamente preso di mira dai cecchini israeliani anche quando andava in bagno; di un Mahamoud Abbas, trattato come un burattino, continuamente umiliato ed offeso, a cui spesso non è permesso di incontrare i propri collaboratori perché bloccati in una città diversa dalla sua; del sequestro di attivisti e leaders di Hamas, catturati ed incarcerati per la sola colpa di appartenere a quel movimento e non a quello degli "utili idioti" della attuale OLP; ebbene queste indegne sceneggiate debbono finire! Il governo israeliano ha sempre trattato la dirigenza palestinese con il più assoluto disprezzo e la massima ostilità e bisogna prenderne finalmente atto.

3) Occorrerebbe quindi (questo è il còmpito più difficile) che la leadership palestinese in esilio si adoperi, negli anni, a far cadere i regimi, vili e corrotti, che sono complici della politica americana ed israeliana, cioè Egitto, Giordania e, soprattutto, Arabia Saudita, vero forziere della regione. I Mubarak, gli Hashemiti ed i Sauditi debbono essere costretti, dalle rivolte popolari, a scappare in America per godersi le immense fortune che hanno sicuramente accumulato a spese dei loro disgraziati popoli ed essere sostituiti da governi a base popolare, che si prendano cura sul serio dei loro fratelli palestinesi.

4) Occorrerebbe infine (questa sarà la fase più lunga, che occuperà decenni) creare delle sinergie tra questi Paesi e la Siria, l'Iran ed altri Paesi islamici che pongano le condizioni per la nascita di un'economia integrata e moderna in questa regione non basata soltanto sul petrolio, per la creazione di scuole (non solo coraniche) e università, per la creazione di un'industria moderna degna di questo nome per ottenere l'affrancamento dall'inferiorità tecnologica che costituisce la vera causa della loro subalternità ad Israele e all'Occidente e, soprattutto, si pongano le condizioni per la creazione di un esercito comune potentemente e modernamente armato, che possa realmente competere con Israele in tutti i campi.
Tutto ciò dovrebbe però accadere senza clamori, senza proclami di distruzione, tenendo una posizione di basso profilo verso il nemico, onde evitare che gli sforzi falliscano prematuramente per la reazione USA-Israele.

Solo dopo il compimento di queste quattro fasi la leadership palestinese e la nuova Nazione araba potranno affacciarsi ai confini dei territori occupati e guardare Israele in faccia, dicendogli che, per il bene di tutti, è ora di cominciare a trattare sul serio per uno Stato palestinese indipendente.
Gli israeliani sono gente pratica. Quando si renderanno conto che non è più possibile violare lo spazio aereo di Damasco, come del Cairo o di Amman, senza subire gravi perdite (mentre oggi spadroneggiano inpuniti), quando si renderanno conto che non è più posibile radere al suolo le infrastutture di un Paese ed uccidere migliaia di innocenti (come hanno fatto a Gaza ed in Libano) senza subire la stessa sorte, allora tratteranno, oh se tratteranno! Anzi, quasi certamente non sarà necessario spargere nemmeno una goccia di altro sangue, perché nulla induce alla prudenza e alla moderazione più della consapevolezza di rischiare gravi conseguenze. E questo vale sia per gli arabi che per gli israeliani.

So bene che ai molti lettori pacifisti duri e puri il solo sentir parlare di armamenti per risolvere le crisi internazionali farà venire l'orticaria, ma guardiamo in faccia la realtà: occorre finalmente rendersi conto che i popoli arabi sono soli a combattere la loro lotta con l'invasore della Palestina e che nessuno potrà fermare Israele se non loro stessi. Gli antichi Romani usavano dire: "si vis pacem, para bellum!". Mai nessun proverbio fu così tristemente vero.