Il secco ''no'' di Israele agli Usa
di Antonio Marafioti - 23/04/2010
Il grande freddo sceso un mese fa tra Stati Uniti e Israele all'indomani della visita del premier Benjamin Netanyahu a Washington, nell'ultime ore si è trasformato in vero e proprio gelo diplomatico. Il governo di Gerusalemme ha infatti confermato la decisione di non fermare gli insediamenti illegali nella parte Est della città santa. "È semplicemente impossibile e inaccettabile che qualcuno cerchi di spingerci a limitare la costruzione a Gerusalemme" ha sostenuto subito dopo la notizia il ministro israeliano Benny Begin.
Malcontento Usa. Questa volta, a differenza delle precedenti amministrazioni, gli Stati Uniti, dopo l'insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca si sono dimostrati molto più inflessibili sulla questione rispetto al passato. Con i falchi repubblicani al governo, Israele era riuscita più di una volta a predicare pace e seminare terrore. Una tattica resa possibile dall'indifferenza del ticket Bush nei confronti del conflitto israelo-palestinese e dall'impegno del governo a stelle e strisce nella lotta al terrorismo internazionale prima in Iraq e poi in Afghanistan. Due anni fa, con l'insediamento di Obama, le cose sono cambiate per arrivare nel tempo a deteriorarsi profondamente. L'imprudenza di Netanyahu si era manifestata già lo scorso 8 marzo, durante la visita ufficiale del vicepresidente Usa John Biden in Israele. In quell'occasione il numero uno del Likud sfruttò l'onda mediatica dell'arrivo di Biden per annunciare la costruzione di 1600 nuovi insediamenti a Ramat Shlomo e prendere in contropiede oltre all'ignaro numero due dei democratici anche lo stesso Obama. Due settimane dopo quel proclama fu la volta del cambio di fronte e, insieme a un'esigua delegazione nazionale, Netanyahu atterrò nella capitale statunitense per incontrare l'uomo del "Change". Quest'ultimo fece capire fin dall'inizio l'aria che tirava fra le mura del Campidoglio con una serie di gesti che lasciarono pochi dubbi ai cronisti di tutto il mondo. Nessuna foto per la stampa, nessuna riunione a porte chiuse e, narrarono testimoni, una improvvisa interruzione dei colloqui da parte dello stesso Obama che lasciò la controparte israeliana insieme ai membri del suo staff nella sala Roosvelt.
Situazione da recuperare. Nonostante qualche frase di circostanza Netanyahu lasciò gli Stati Uniti con una spada di Damocle sulla testa: l'out out di Obama sullo sviluppo di abitazioni a Gerusalemme Est. Dopo il rinvio, imposto da Washington, del viaggio dell'inviato speciale in Medio Oriente, George Mitchell il silenzio politico è stato interrotto, una settimana fa, solo dalle urla della profughi che per le strade del campo di Shuafat, a Isawie, hanno dato vita a un'estemporanea intifada contro tremila uomini delle forze di sicurezza israeliana. Poi la calma, apparente, è scesa sulla capitale e sull'intera vicenda. Oggi Netanyahu si è dimostrato più cauto se non nella sostanza quanto meno nella forma annunciando il proprio "no" all'ultima richiesta Usa, prima della nuova visita di Mitchell in Israele, prevista per il prossimo week-end. Intanto mentre gli Stati Uniti si stanno lentamente defilando da una partita nella quale - ha detto Obama - "non si può forzare Israeliani e Palestinesi se non sono interessati al compromesso pacifico", dalla parte palestinese della barricata c'è ancora chi spera, come il negoziatore Saeb Erekat che gli Usa "siano capaci di convincere il governo d'Israele a dare un'occasione alla pace fermando la costruzione degli insediamenti a Gerusalemme Est e nel resto della regione".
Netanyahu, però, continua a fare orecchie da mercante non solo nei confronti di un alleato chiave ma anche, e soprattutto, del 60 percento dei propri cittadini che, secondo un'indagine dell'Università di Gerusalemme, vorrebbe la fine delle operazioni edilizie e il rispetto degli accordi di pace.

