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La Turchia vuole rafforzare la propria influenza in Medio Oriente

di Janine Zacharia - 30/04/2010






Gaziantep (Turchia) – Da quando, qualche mese fa, la Turchia e la Siria hanno reciprocamente abolito il requisito del visto, il numero di siriani che affolla lo sfavillante Sanko Park Mall in questa cittadina della Turchia sud-orientale è decuplicato. Le esportazioni da Gaziantep verso la Siria crescono rapidamente e ricchi uomini d’affari turchi stanno incrementando gli investimenti oltrefrontiera.

“Non c’è differenza fra turchi e siriani”, dice Olfat Ibrahim, trentacinquenne ingegnere civile, carica di sacchetti. Dice che lei, da quando il visto non è più necessario, ha aumentato le visite oltrefrontiera. “Siria e Turchia sono uguali.”

Il fiorire dei commerci è un segno della crescente influenza turca sulla Siria, ed è parte degli sforzi che la Turchia sta facendo per coinvolgere gli stati vicini nella costruzione di rapporti commerciali che spera possano contribuire a stabilizzare le relazioni politiche e ad estendere la sua influenza sulla regione. Questi sforzi, che non escludono operazioni commerciali con l’Iran, mostrano in qualche modo quanto siano vani i tentativi degli Stati Uniti di isolare certi paesi applicando delle sanzioni. E a Washington come in Israele si comincia a temere che questo importante membro musulmano della Nato stia subendo un radicale riallineamento.

Gli sforzi della Turchia, tuttavia, sembrano riguardare in egual misura la politica estera e l’espansione economica, almeno a giudicare dall’aggressiva strategia di ricerca di nuovi mercati degli imprenditori turchi, molti dei quali sono sostenitori del Partito per la giustizia e lo sviluppo, il partito del primo ministro Recep Tayyip Erdogan.

“Vogliamo creare un’interdipendenza economica fra la Turchia e i paesi confinanti, e fra vari paesi della regione. L’interdipendenza economica è il mezzo migliore per prevenire qualunque crisi” dice il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu.

I turchi si sono anche impegnati per favorire la ripresa dei negoziati di pace fra Siria e Israele, per allentare le tensioni fra Siria e Arabia Saudita al fine di evitare una crisi politica in Libano, paese sul quale i due contendenti hanno una forte influenza, e per cercare di porre fine alle controversie fra l’Occidente e l’Iran sul programma nucleare iraniano.

Forte della ricchezza proveniente dai nuovi mercati e di una maggiore fiducia in se stessa, derivante dall’essere entrata a far parte del G20, la Turchia si sta rivolgendo anche ai suoi ex nemici europei, come la Grecia, oltre che ai vicini musulmani. Nell’ultimo anno e mezzo, Davutoglu e il suo predecessore hanno fatto in Europa più o meno il doppio dei viaggi che hanno fatto in Medio Oriente. Oggi un turco presiede l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e un’altro l’Organizzazione della Conferenza Islamica.

Alcuni analisti pensano che Erdogan non sia tanto un ideologo, quanto un pragmatico capitalista che cerca di fare soldi e creare nuovi mercati. Quando in ottobre ha visitato Teheran, ha definito “pacifico” il programma nucleare iraniano, facendo drizzare i capelli in testa ai funzionari americani. Le sue pressioni in direzione di un accordo di libero scambio hanno suscitato meno clamore. 

Ad accompagnare il primo ministro turco c’era Rizanur Meral, amministratore delegato del gruppo automobilistico Sanko Holding e presidente di Tuskon, un’associazione che rappresenta 50mila piccole e medie imprese turche.

I grandi uomini d’affari stanno giocando un ruolo importante nella politica estera della Turchia, e talvolta fanno persino da ambasciatori o consiglieri non ufficiali. Gli uomini d’affari di Gaziantep hanno fatto pressioni per ottenere l’abolizione del visto.
Quando il presidente Abdullah Gul si è recato in Camerun, il mese scorso, per firmare un accordo di libero scambio e aprire una nuova ambasciata, era accompagnato da tre ministri del suo governo, quattro membri del parlamento e 147 uomini d’affari. Le delegazioni che Erdogan ha portato in India, Iran e Libia non erano da meno.

“Il fattore commerciale è molto importante per questo governo”, dice Ismail Hakki Kisacik – coordinatore generale del gruppo turco Taha, che controlla la più vasta catena di abbigliamento del paese – che ha accompagnato i funzionari del governo nel recente viaggio in Africa. “Se stai facendo affari con un paese, vuol dire che le relazioni reciproche migliorano.”

Gli Stati Uniti potrebbero essere l’eccezione a questa regola. Le relazioni fra Washington e la Turchia si sono inasprite lo scorso febbraio, quando la Commissione affari esteri della Camera ha approvato una risoluzione che ha definito “genocidio” l’uccisione di un milione e mezzo di armeni da parte della Turchia nel 1915. La Turchia ha richiamato in patria il suo ambasciatore, Namik Tan. L’amministrazione Obama ha poi ripetutamente negato il suo sostegno alla posizione assunta dalla commissione.

Negli anni passati, i funzionari americani hanno mostrato una tiepida tolleranza nei confronti dell’avvicinamento della Turchia alla Siria e una palese disapprovazione della retorica turca nei confronti dell’Iran. Gli Stati Uniti hanno apertamente criticato la Turchia – che è fortemente dipendente dalle forniture energetiche iraniane – per aver compromesso il tentativo statunitense di isolare l’Iran a livello internazionale a causa del suo programma nucleare. 

“Sembra, almeno a me, che la Turchia stia valutando un riallineamento radicale”, dice il deputato democratico dello stato di New York Steve Israel, membro della sottocommissione per gli stanziamenti della Camera, che finanzia le iniziative di politica estera degli Stati Uniti.

Phil Gordon, sottosegretario di Stato per l’Europa, ha detto di recente che gli Stati Uniti non credono necessariamente che la Turchia si stia allontanando dai suoi alleati occidentali. Ha aggiunto che il tentativo della Turchia di migliorare le relazioni con i suoi vicini è comprensibile, ma ha messo in guardia dal rischio che tale proposito “venga messo in atto in maniera acritica o a qualunque costo”, e specialmente a spese della relazione con Israele.

Le relazioni fra la Turchia e Israele sono state buone fino al dicembre del 2008, quando Israele ha lanciato l’offensiva militare sulla striscia di Gaza. La popolarità di Erdogan è aumentata vertiginosamente quando, nel gennaio dello scorso anno, ha fatto una ramanzina sugli attacchi al presidente israeliano Shimon Peres.

Il suo atteggiamento, tuttora critico, contribuisce “negativamente alla percezione che i turchi hanno di Israele”, ha detto un diplomatico israeliano che ha preferito restare anonimo per via della delicatezza delle relazioni fra le due nazioni. “Non è chiaro in che direzione Erdogan abbia intenzione di guidare la Turchia.”

Per i funzionari turchi invece la direzione è ovvia. La nazione è cresciuta dal punto di vista economico, ed è quindi naturale che aspiri a un ruolo di maggior rilievo in campo internazionale.

E nel frattempo la Turchia sta anche cercando di esportare un po’ della sua influenza culturale. Negli ultimi anni una trentina di programmi televisivi di produzione turca sono stati diffusi nel mondo arabo.

Kivanc Tatlitug, un attore di soap opera molto famoso, è stato così efficace nel promuovere all’estero il turismo e le attrattive della Turchia che durante una recente visita in Bulgaria, al ministro degli esteri Davutoglu è stato chiesto, è lui stesso a riferirlo, “se il governo turco intendesse utilizzare queste serie televisive come forma di propaganda”. E lui ha risposto di no.


Washington Post, (Traduzione di Alessandra Neve per Osservatorio Iraq)

L’articolo in lingua originale