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Negli Usa di George W. Bush sintomi di una crisi pesante

di Vittorio Parsi - 29/04/2006

 
  
 
Crisi di leadership: a livello interno e internazionale. È questo il dato che emerge, impietoso, non solo dalla lettura dei sondaggi sulla popolarità di George W. Bush presso i cittadini americani (a poco più di sei mesi dalle elezioni di mid-term), ma anche dalle difficoltà che gli Stati Uniti incontrano nel trovare partner alla propria azione di governance mondiale. La strategia riassumibile nella frase: «non c'è nulla che produce consenso come il successo», sta rivelando tutta la sua fragilità. Perché, quando il successo non arriva, persino gli alleati più fidati tendono a defilarsi.


Altro che «bandwagoning» (cioè saltar sul carro del vincitore): gli Usa oggi incontrano difficoltà perfino a mantenere nella propria scia amici di vecchia data. La loro incontrastata supremazia politica e militare non riesce a trasformarsi in una leadership in grado di produrre autentica egemonia, cioè quella capacità di persuadere gli altri che gli obiettivi della comunità internazionale, o per lo meno della sua componente democratica, coincidono con quelli americani. È un paradosso. Ma i quasi dieci anni di crisi dell'economia europea, caratterizzati anche dalla crescente difficoltà incontrata da Bruxelles nel proporsi come «focus» parallelo a Washington, hanno coinciso con la graduale perdita di leadership da parte degli Usa. La guerra irachena, le modalità con cui è stata intrapresa e condotta, le difficoltà che ha incontrato l'America nel rimpiazzare il regime tirannico di Saddam con qualcosa d'altro, hanno senz'altro avuto un ruolo rilevante nell'appannare la primazia americana. Ma, forse, altrettanto rilevante è stato il constatare che, anche nei confronti dell'Iran, Washington sembra incapace di elaborare strategie interm edie tra la minaccia di una pesantissima punizione (pur quando essa appaia difficilmente attuabile) e il puro e semplice appeasement.
Dall'unica superpotenza globale il mondo si attende qualcosa di più, di più fantasioso e di più efficace, che l'evocazione continua di una possibile apocalisse: poco importa se scatenata da un Iran nucleare, o da chi voglia impedire la possibilità di un Iran nucleare.


Sul piano interno, gli elettori americani, che pure si erano stretti intorno al loro presidente dopo l'11 settembre 2001, si domandano sempre più inquieti se il prezzo dell'assenza di nuovi attentati debba necessariamente consistere nella perdita del ruolo americano nel mondo, nei rischi di limitazione del «self rule» individuale (il vero cardine della libertà americana) e nell'idea che la «non trasparenza» possa essere una delle costanti del rapporto tra l'amministrazione e i cittadini. A noi, smaliziati europei, stanchi interpreti di un'idea di cittadinanza che nei secoli è stata troppe volte impiegata contro i suoi stessi detentori, tutto ciò potrà perfino apparire naïf. Ma dimentichiamo che l'idea della libertà politica degli americani ha una radice essenzialmente religiosa, e come tale è un valore intriso di verità.


Non per caso Bush, in vista delle prossime elezioni, ha scaricato i suoi collaboratori maggiormente compromessi con i sospetti che l'amministrazione abbia deliberatamente mentito al popolo su una serie di questioni: a partire dalla minaccia alla sicurezza nazionale americana rappresentata dal regime di Saddam Hussein. Basterà tutto ciò per riconquistare la fiducia di un popolo sempre più stanco e turbato quotidianamente dai «body bags» che arrivano dall'Iraq? Lo sapremo entro novembre. Ma lo scetticismo sembra forte.