 | 
L’embargo imposto quasi tre anni fa da Israele sulla Striscia di Gaza rappresenta “un pilastro centrale del conflitto militare contro Hamas”. I criteri adottati per bloccare le importazioni non sono fissi, ma mutano di volta in volta a seconda delle valutazioni effettuate sul momento dalle autorità israeliane.
A rivelare alcuni dettagli sul blocco israeliano e sul suo “funzionamento” sono le stesse autorità israeliane, che nei giorni scorsi hanno presentato un documento ufficiale sull’argomento davanti a una corte di Tel Aviv, nell’ambito di un ricorso presentato dall’associazione per i diritti umani Gisha.
Nelle 13 pagine in questione – visionate dalla Bbc – lo Stato ebraico fa sapere che non esiste una lista di beni “proibiti”, ma che di volta in volta viene valutato cosa è possibile importare nella Striscia.
Le autorità di Tel Aviv non hanno voluto fornire ulteriori dettagli, affermando che ciò potrebbe “danneggiare la sicurezza nazionale”.
Secondo la testata britannica, tuttavia, esisterebbe un documento intitolato "Food Consumption in the Gaza Strip - Red Lines", che stabilisce la quantità minima di calorie di cui necessiterebbe la popolazione palestinese (circa un milione e mezzo di persone), in base al sesso e all’età.
L’esistenza del testo è stata ammessa da Israele, che però ha parlato di una “bozza interna” utilizzata per “pianificare il lavoro” e che “non per definire le politiche” relative al blocco.
“Una politica senza senso”
Oltre alla oramai cronica penuria di tanti beni (dal cibo ai medicinali, fino ai materiali per l’edilizia), a suscitare le critiche di diverse ong e della comunità internazionale è proprio l’impossibilità di stabilire i criteri con cui vengono impedite le importazioni a Gaza. A tal proposito, le Nazioni Unite sono arrivate a parlare di una “punizione collettiva” attuata da Israele nei confronti della popolazione palestinese.
La reticenza israeliana sull’argomento è stato anche il presupposto del ricorso giudiziario avanzato dall’associazione Gisha.
“Impedire ai bambini di ricevere giocattoli, impedire ai produttori di ricevere le materie prime… Non vedo come ciò possa rispondere alle esigenze israeliane in termini di sicurezza”, ha dichiarato Sari Bashi, direttrice dell’associazione.
Alcuni divieti, anzi, risultano del tutto arbitrari. “Di sicuro non capisco perché la cannella sia ammessa, ma il coriandolo no. Il coriandolo è in qualche modo più pericoloso? Il coriandolo è più importante per l’economia di Gaza, rispetto alla cannella? Questa è una politica che non sembra avere senso”.
Israele difende le proprie decisioni, affermando che si tratta di un modo per fare pressione su Hamas, che nel giugno 2007 ha preso il potere nell’enclave palestinese (a danno dei rivali di Fatah) e che continua a non riconoscere lo Stato ebraico.
Il blocco e le sue modalità di attuazione, però, hanno ricevuto dure critiche anche da parte di tanti commentatori israeliani, secondo cui questa strategia non sta raggiungendo l’obiettivo dichiarato di indebolire il movimento islamico palestinese e, in aggiunta, sta contribuendo a danneggiare l’immagine internazionale di Israele.
Al momento, afferma la Bbc, i beni ammessi a Gaza sono 81, tra cui i fagioli, la carne in scatola e – a partire da marzo – le scarpe. Tuttora, invece, non è possibile importare marmellata, cioccolato, legno per mobili, succhi di frutta, tessuti e giocattoli di plastica. |