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Il mio amico Shadi kamikaze in Iraq

di Prof.sa Alessandra Persichetti* - 30/04/2006



CARO direttore, ho conosciuto Shadi e la sua famiglia nel 2001 nella
cittadina di Dara'a in Siria, dove mi trovavo per una ricerca sul
campo. Fin dalla prima volta in cui incontrai la madre di Shadi, si
stabilì tra noi un intenso scambio intellettuale: donna intelligente
e colta, membro del Partito dei socialisti arabi, direttrice d'una
scuola superiore. Si parlava per ore dell'occupazione israeliana,
delle differenze tra baathismo e socialismo, di fondamentalismo
islamico, di femminismo, dei danni del nazionalismo. Ci siamo
riviste anche l'estate successiva e siamo rimaste in contatto
telefonico. Poi, è scoppiata la guerra all'Iraq.
Un dato su tutti s'impone prepotentemente in questa guerra: il
nostro etnocentrismo, l'incapacità di comprendere l'Altro. È a causa
di questa incapacità strutturale, caratteristica della cultura
occidentale di quest'inizio secolo, che i cosiddetti esperti non
sono stati in grado di prevedere la resistenza irachena
all'invasione angloamericana. Sarebbe ingenuo pensare che il neo-
panarabismo sia sorto all'improvviso, negli ultimi quindici giorni:
un'opinione pubblica araba s'è andata formando negli ultimi quindici
anni grazie a raffinati dibattiti svoltisi nelle tv, sui giornali,
nelle strade, nelle case, sulle questioni tradizione/modernità,
Islam/Occidente. Si scopre ora, con i soldati sul campo, che l'Altro
è rimasto tale. E la rivendicazione di questa irrinunciabile
alterità è la cifra della resistenza lanciata dalle brigate
internazionali. I volontari che accorrono in difesa dei
loro "fratelli iracheni" si comportano secondo codici ormai
indecifrabili per molti opinionisti occidentali. Con l'affermazione
degli Stati nazionali nel mondo arabo, s'era decretata la scomparsa
delle strutture e dei valori tribali. Ma ecco riemergere il codice
dell'onore, il valore della solidarietà, la logica del sacrificio di
sé: valori eminentemente sociali, incomprensibili in una società
individualistica.
Anche Shadi, il maggiore dei figli maschi della mia cara amica, e'
partito da Damasco per Bagdad, a quattro giorni dallo scoppio del
conflitto. Lasciando una lettera d'addio: "Meglio un martire
(shahid) morto che un vivo impotente". È la sorella di Shadi a
informarmi tramite e-mail; ci scriviamo quotidianamente da quando è
iniziata la guerra. Per loro, che si sentono in pericolo e indifesi,
è anche un modo d'esorcizzare la paura: il rapporto con
un'occidentale amico è rassicurante e può rappresentare,
nell'eventualità d'un attacco diretto contro la Siria, un canale di
pressione sull'opinione pubblica internazionale o una via di fuga.
L'intera tribù di Shadi è in lutto: dalle missioni suicide i ragazzi
non tornano. Il padre s'è recato fino ai confini con l'Iraq per
convincere il ragazzo a tornare, o semplicemente per rivederlo
un'ultima volta, ma alla frontiera gli hanno negato l'accesso. La
madre - mi riferiscono - pazza di dolore, chiama per nome il figlio,
cercandolo in ogni stanza della casa. Era in procinto di partire
anche lei per Bagdad alla ricerca del figlio, diceva: "O torno con
lui o muoio con lui accanto ai fratelli iracheni". Per fermarla,
amici di famiglia le hanno raccontato d'avere notizie di Shadi:
qualcuno lo avrebbe visto vivo in un campo militare a Bagdad. Parlo
con lei due giorni dopo: ha scoperto l'inganno, è nuovamente
abbattuta. Quando le dico che molti qui in Italia non capiscono il
loro sostegno a Saddam, mi corregge: "Noi non siamo con Saddam, noi
siamo con l'Iraq!".
Shadi: 20 anni, studente brillante, secondo anno di fisica
all'università di Damasco. Il padre aveva acquistato una casa nella
capitale per permettere ai figli di studiare fuori sede in
condizioni agiate. Shadi non era uno che non aveva nulla da perdere.
Shadi era un ragazzo "normale". Tra i più bravi del corso, come i
compagni di studi che sono partiti con lui. Shadi era ateo. Shadi
non aveva squilibri psicologici. Shadi non era povero, frustrato,
disperato. È questo ciò che non si vuole capire. Che in altre
culture il corpo sia sociale, che della vita si faccia un uso
collettivo. Che alla morte e alla vita si diano altri valori: questo
non è ammesso dalla nostra cultura, che la morte paventa, sul corpo
terapeuticamente s'accanisce e la vita ottimizza in qualità e
lunghezza. Che la morte sia un bene sociale, un investimento sul
futuro del gruppo risulta incomprensibile, deplorabile. La bella
morte degli eroi d'Euripide è applaudita finché confinata
nell'ambito della rappresentazione teatrale, ma gli eroi viventi di
questi giorni, che s'immolano per opporsi a un potere iniquo e a una
cultura materialistica percepita come aggressiva, sono bollati come
fanatici, megalomani, squilibrati.
La teoria delle "frange estremistiche" e delle "schegge impazzite"
vacilla di fronte al numero crescente di giovani arabi che
s'iscrivono nelle liste di volontari suicidi per la liberazione
dell'Iraq. Manipolazione, lavaggio del cervello? Appare sempre più
semplicistico ritenere che le tecniche l'indottrinamento applicate
dai gruppi islamici radicali siano sufficienti a sollevare e
motivare intere masse alla solidarietà con il popolo iracheno e alla
resistenza. Piuttosto, non sarebbe più utile recuperare, per capire,
la forza delle idee, il potere della dimensione comunitaria, la
sacralità dei valori di gruppo capace di mobilitare i corpi dei suoi
membri?
Shadi ama la vita e ha paura di morire. Ma è nato in una cultura
tribale in cui il sangue è condiviso e l'individuo non esiste: qui
la vita del singolo è al servizio della comunità. Nelle culture
tribali di Siria, Libano, Marocco, ecc., morire per gli altri
significa continuare a vivere in loro, attraverso di loro. Qui il
pubblico sconfina nel privato: il superiore fine politico della
giustizia mette in gioco il corpo dei singoli.
Non metteremo fine a questo "scontro di civiltà" se ci
accontenteremo di spiegazioni riduttive: psicologiche
(la "martiriomania"), economiche (la povertà), neo-orientalistiche
(aspiranti martiri affascinati dalla prospettiva d'"entrare
automaticamente in paradiso", "giacere con le vergini"). Lo "scontro
di civiltà" in atto non è dato, ma costruito: anche dal libro di
Huntington e dalle sue vulgate. Anche dallo stuolo d'opinionisti che
irresponsabilmente (per ignoranza, o pigrizia, o servilismo, o
conformismo) rinforzano stereotipi: accentuando differenze minime e
negando quelle che agli stereotipi non si conformano. Vi sono parole
e immagini, che non descrivono la realtà, ma la creano.
Finora i miei amici arabi distinguono tra governanti e governati dei
Paesi occidentali. Samir, il cugino di Shadi, anche lui adolescente
sul piede di guerra, al telefono mi chiama ancora khalati
Alessandra, zia Alessandra. Ma domani, dopo lo scontro?
È definito terroristico il suicidio d'un martire che si fa saltare
in aria tra i marines in quanto atto di "privatizzazione della
violenza" da parte di un civile o di un gruppo estremista. Non è
terroristico, invece, un attacco missilistico aereo su un mercato
brulicante di civili, solo perché condotto da uno Stato che ha il
monopolio legittimo della violenza? Le condanne dell'immoralità
degli attentati suicidi contro i reparti militari alleati non
celano, piuttosto, ipocritamente, la questione dell'asimmetria dei
mezzi e dei poteri? Shadi, mingherlino com'è, avrebbe preferito
affrontare il nemico con un aereo altrettanto potente, piuttosto che
con le sue quattro ossa e la lacerazione dolorosa delle sue
carni, "armi non convenzionali". Anche i kamikaze giapponesi
avrebbero preferito bombardare il nemico piuttosto che immolarsi
schiantandocisi contro. Ma i mezzi erano, e sono, impari.
Dopo questa guerra tutto sarà diverso nella mia vita, nelle mie
relazioni con gli amici arabi e nel mondo. Stiamo attaccando e
trasformando una civiltà dell'ospitalità. Stiamo imponendo loro di
rinunciare a questo supremo valore la cui perdita, già consumata
presso di noi, ci rende tanto infelici. Stiamo insegnando loro come
difendersi da noi. Forse, invece, di "esportare libertà e
democrazia", dovremmo re-imparare ospitalità, sacralità, passione
politica.

*L'autrice insegna Etnografla all'Università degli studi di Firenze