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Iraq, La classe media scoraggiata di fronte alla crisi politica

di Borzou Daragahi - 21/05/2010



Molti iracheni che erano tornati a gustare una vita normale si preparano a rintanarsi di fronte all'incertezza. Alcuni hanno deciso di rinunciare al Paese.



Quando i carri armati americani avevano sventrato il suo quartiere, buttando all’aria le strade nello stesso modo in cui avevano distrutto completamente un Paese, non si era mossa, rifiutando di trasferirsi all'estero come molti dei suoi amici benestanti.

Quando gli uomini armati vestiti di nero dalla testa ai piedi si erano impadroniti del suo quartiere, misto quanto a composizione religiosa, nella parte ovest di Baghdad, trasformandolo in un mattatoio, non aveva permesso che la cacciassero dal Paese che amava.

E persino quando avevano ucciso suo marito, freddandolo mentre usciva dal lavoro, aveva combattuto contro il suo dolore, restando in Iraq e sperando che arrivassero tempi migliori.

Ma ora che una impasse politica postelettorale minaccia di trascinare di nuovo l'Iraq nella violenza e nell'incertezza, Ibtisam Hamudy ne ha abbastanza. Fra qualche mese, la 56enne ex ingegnere e attivista per i diritti delle donne ha intenzione di prendere i suoi risparmi, i cimeli di famiglia, e la più giovane delle sue tre figlie, e stabilirsi in Giordania o in Siria.

"So quello che sta succedendo. Non è possibile che vada a finire bene", dice. "Questa volta, so che sarà peggio di prima".

Nel corso degli ultimi due anni e mezzo di relativa sicurezza e progresso economico, la classe media e l'intellighenzia irachene erano emerse dalle ombre della guerra e dell'esilio, camminando a testa alta in giro per la città senza la testa coperta dal velo o andando in giro per nuovi distretti commerciali luccicanti.

Adesso però, mentre osservano il campo del Primo Ministro Nuri al Maliki, i cui alleati controllano l'apparato di sicurezza del Paese, competere con quello di Iyad Allawi, appoggiato da alcuni di quegli stessi arabi sunniti che sostengono la rivolta, si stanno preparando ad affrettarsi di nuovo a nascondersi.

La crisi ha già cambiato il carattere di un Paese che solo pochi mesi fa era pieno di speranza, non ultimo, dicono gli iracheni, perché l’imminente riduzione del numero delle truppe statunitensi potrebbe creare un vuoto che lascerà il dramma politico suppurare per anni.

Anni di immensa sofferenza hanno inoltre condizionato gli iracheni a prepararsi al peggio, non fosse che per proteggersi dalla delusione.

"Speriamo tutti che le cose non tornino a quello che dovevamo fronteggiare prima", dice Wahid Thani, 43 anni, ingegnere al ministero dell'Edilizia residenziale, mentre trascorre il pomeriggio nel negozio di snack di un amico. "Ma i segnali che stiamo vedendo fanno pensare che ci troveremo nuovamente di fronte una brutta situazione.

"Siamo pessimisti a causa delle cose che stiamo vedendo. Le dispute vanno avanti all’infinito, e non potranno mai essere risolte".

Prima della crisi, con le famiglie della classe media che affollavano parchi rinnovati da poco con i loro bambini, e alcune giovani donne che camminavano per strada da sole, molti avevano osato sognare un giorno nel quale l'Iraq sarebbe stato sicuro e prospero, come i suoi vicini più ricchi a sud e a nord. Ma ogni incidente relativo alla sicurezza si porta via un pezzo di quel progresso, rivelando la fragilità dei successi raggiunti da fine 2007, quando la violenza era iniziata a diminuire.

Adesso ha ricominciato ad aumentare: secondo statistiche governative, il numero di civili uccisi in Iraq ha fatto un balzo del 50% da marzo ad aprile. Il 10 maggio sono morte quasi 100 persone in una giornata di attentati e sparatorie che è stata la peggiore dallo scorso anno.

Una serie di omicidi di esponenti religiosi arabi sunniti che lascia perplessi ha portato i funzionari a chiedersi se possano esservi coinvolti insorti di "al Qaeda in Iraq" o combattenti sciiti. Uno dei religiosi è stato decapitato ieri l'altro nella sua moschea.

E mercoledì sera, una autobomba ha ucciso sei persone, ferendone almeno dieci, in un ristorante nella cittadina di Musayyib, a sud di Baghdad.

Che l'Iraq scivoli nuovamente nella disperazione o riesca ad andare avanti zoppicando, l’atmosfera deprimente rischia di erodere quella poca fiducia che gli iracheni avevano nel futuro del loro Paese, dicono alcuni – da nord a sud.

"Abbiamo fatto sacrifici", dice Hassan Rahim Rahun, 40 anni, un parrucchiere che era tornato in Iraq due anni fa dalla Libia, e sta pensando di andarsene di nuovo. "Quando siamo andati a votare abbiamo messo a rischio la nostra vita e abbiamo votato per la persona più adatta. Non ha funzionato.

"Abbiamo scommesso in un gioco d’azzardo, e nessuno di noi vincerà, tranne quelli che stanno seduti nella Green Zone", il centro amministrativo di Baghdad, simile a una fortezza, che ospita gran parte della litigiosa classe politica irachena.

L'élite politica è ben consapevole della forte reazione negativa della classe media, e alcuni hanno iniziato ad agitarsi perché i politici vadano avanti per formare un governo.

"La loro responsabilità è finita il 7 marzo", il giorno delle elezioni, dice a proposito della classe media istruita del Paese, Leila Khafaji, ex deputata e membro del Consiglio Supremo islamico iracheno. "E' gente molto responsabile e molto intelligente quando si tratta di andare a fare quello che devono fare, ma non ne hanno visto i frutti".

Tutti i mercoledì, il leader del partito, Ammar Hakim, incontra la sua base elettorale della classe media, nel tentativo di sondarne le opinioni e placarne i timori, dice la Khafaji; ma la crisi ha iniziato a cambiare i calcoli economici delle persone per il futuro.

Bagher Sheikh, un pittore rispettato le cui opere arrivano a costare fino a 2.000 dollari in Iraq, e di più all'estero, era tornato in Iraq subito prima dell'invasione guidata dagli Stati Uniti ed è rimasto per tutto il periodo della rivolta, della guerra confessionale, e delle crisi politiche. Ora però ha deciso di andarsene, in buona parte perché non crede che il governo sarà in grado di migliorare le scuole così che le due figlie piccole possano ricevere una istruzione adeguata.

"Sentivo di appartenere a questo Paese", dice nella sua galleria e studio, che si chiama "Sogno", con i muri coperti di dipinti a olio che raffigurano nudi e paesaggi.

"Avevo speranza per questo Paese che potesse funzionare", aggiunge, premendosi le mani ai lati della testa. "Ora non ne ho. Abbiamo provato a cambiare il governo attraverso un'elezione, e tornano gli stessi di prima. E' segno che la Costituzione è un fallimento".

Abbondano i segnali che questi iracheni qualificati, istruiti, della classe media si stanno ritirando dalla vita pubblica. Hamudy, la vedova, che è presidente del “Forum Democratico per il dialogo civile e i diritti umani”, dice di essere arrivata alla conclusione che battersi per i diritti delle donne irachene e degli emarginati è inutile quando la situazione politica è così intrattabile.

"E' impossibile che la situazione volga al positivo", dice in inglese. "Ho incontrato quasi tutti i politici, e se vuole la mia opinione, li lascerei andare tutti via dal Paese. Penso che ci serva uno come Saddam Hussein. E' l'unico che potrebbe mettere a posto gli iracheni".

Oltre a far svanire le speranze nell'esperimento democratico iracheno, la situazione di stallo politico minaccia la debole economia del Paese. Gli investimenti esteri e locali, che stavano arrivando col contagocce, si sono bloccati mentre le compagnie irachene e straniere aspettano che finisca la tempesta politica prima di prendere decisioni strategiche.

"La situazione politica che c'è adesso in Iraq getta un'ombra sugli aspetti generali della vita irachena, e il traffico commerciale assiste a una stasi e a un congelamento come la situazione politica", dice Salem Mohammed Obeidi, 40 anni, funzionario del ministero dell'Istruzione nella città di Kirkuk, nel nord.

Gli iracheni che hanno soldi in tasca stanno spendendo meno, risparmiando per un futuro potenzialmente tetro. Molti di quelli che restano hanno smesso di viaggiare, di uscire, o di fare progetti a lungo termine.

"Sono passati più di due mesi, e la gente non vede alcun segno di speranza o cose positive da parte di coloro per i quali ha votato", dice Abdul-Razzaq Khalaf, 49 anni, proprietario di un cambiavalute nella città portuale di Bassora, nel sud, che il 10 maggio è stata colpita dalla peggiore violenza da anni.

A Baghdad, a Sanaa Street, il principale mercato di articoli elettronici della capitale, i commercianti si lamentano che i clienti di ministeri e aziende che compravano computer da tavolo, portatili, e telecamere da sorveglianza non fanno più ordini.

I distretti commerciali sono meno affollati di prima, dato che le famiglie scelgono di trascorrere le serate vicino a casa. I proprietari di negozi oberati da un surplus di scorte fumano una sigaretta dietro l'altra e si agitano mentre fanno capannelli con i colleghi lungo marciapiedi dove non passano clienti.

"Adesso l'opinione pubblica teme il ritorno del settarismo confessionale", dice Ahmad Mohammad, 36 anni, specialista di computer e telecomunicazioni che lavora presso un venditore di fotocopiatrici Canon, dove le vendite sono calate di due terzi a cominciare da qualche giorno prima delle elezioni.

"Posso descrivere la situazione come una bomba a orologeria. Non si sa quando esploderà".

Hanno collaborato a questo articolo alcuni corrispondenti speciali [termine con cui i media statunitensi definiscono i loro stringer iracheni NdT] da Bassora e da Kirkuk.

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)

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