Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Sangue e ipocrisia

Sangue e ipocrisia

di Alfredo Musto - 02/06/2010


  L’intervento militare delle forze speciali israeliane sparge altro sangue innocente.
E’ l’ennesimo atto barbaro di una entità che si libbra impunemente al di sopra delle norme internazionali e si consolida in spregio dei più elementari principi di civiltà e giustizia.
L’orrore che il sionismo sta consegnando alla storia e all’umanità scivola sempre più, da una sofisticata e subdola condotta criminale, verso una esacerbata impronta di odio e scelleratezza.
Le dinamiche dell’operazione compiuta nei confronti delle navi cariche di aiuti destinate alla martoriata Striscia di Gaza svelano un modus operandi oggettivamente forzato e ingiustificato. Probabilmente segnano un diverso approccio che gli israeliani hanno intenzione di consolidare nel controllo della loro proiezione regionale e soprattutto internazionale. Perché questa non è una gestione degli affari interni – nella sostanza hanno sempre considerato tale la questione palestinese, delegandone consapevolmente il nocciolo politico e umanitario all’impotenza e alla complicità delle classi dirigenti occidentali -, ma è una rude innalzamento del livello di scontro. Di più, è una sfida lanciata con quella forza bruta di chi ammonisce e richiama al rispetto dei propri desiderata, ma anche di chi non vuole specchiarsi nella propria debolezza.
Lo stato di eccezionalità che la cosiddetta comunità internazionale – ovvero la cricca di potere statuale e non che ne modella gli equilibri e le azioni – ha de facto riconosciuto ad Israele, è la premessa e la condicio perché un minuscolo Stato, debitamente supportato dalla nota super-potenza, possa sedersi alla ricca tavola dei grandi affari internazionali senza pagare mai il conto.
 
In merito all’accaduto, è molto probabile che il reale svolgimento dei fatti non verrà mai fuori per l’opinione pubblica in maniera completa ed esaustiva, come pure l’indignazione che ne consegue meriterebbe. Lasciando aperto il ventaglio delle possibilità, tra cui l’eventuale presenza a bordo della Freedom Flotilla di alcuni provocatori (se del caso chi e per volere di chi?) e di armi, rimangono i due punti fermi sostanzialmente indicativi sotto il profilo tattico-strategico e politico: da un lato, la vicenda in sé denota ben poco di casuale, dall’altro il sanguinario coup de theatre israeliano presenta tutti i caratteri di un esercizio della forza talmente sproporzionato da sfociare nella categoria del terrorismo di Stato, col relativo numero di vittime civili. Lo sbandieramento della legittima difesa è in questo caso un mero esercizio di ipocrisia giuridico-mediatica, possibile in questi termini solo da parte di chi sa bene che, specie nella politica internazionale, il diritto è un accessorio a margine delle logiche di potenza e delle espressioni di forza.
Ma il nocciolo della questione è ovviamente politico. Siamo in una fase di turbolenza geopolitica, di composizione e scomposizione degli assetti in virtù delle quali l’effetto concreto non potrà che essere misurato nel tempo e alla luce degli sviluppi effettivi.
Al di là del fatto che gli israeliani abbiano una volta di più ribadito – una volta di più col sangue – di non ammettere interventi e riflettori in questioni che reputa di propria esclusiva competenza – quantomeno nelle linee di fondo e decisionali- e cioè nello specifico abbiano ribadito che a Gaza comandano loro e ci entra ed esce solo chi e cosa stabiliscono loro, ebbene quello di queste ore vuole essere un segnale, una mossa di peso nella partita ormai aperta con Teheran, con Damasco, con Beirut, con Washington e con Ankara. Considerato che l’iniziativa umanitaria è maturata sostanzialmente sotto la regia del governo turco, è immaginabile che l’accaduto voglia essere un siluro lanciato a mo’ di monito o di palese frattura nei confronti del piglio politico-diplomatico che la compagine governativa di Erdogan ha assunto al tavolo delle trattative sia sul versante dei negoziati palestinesi, sia su quello delle relazioni con Teheran.
Come noto, queste sono dinamiche che non possono essere vagliate per mezzo di letture monolitiche né per mezzo di una logica di esclusione/inclusione tout court. Gli attori strategici che le determinano e che vi partecipano sono plurimi e agiscono sovente per compensazione e/o per spillover. In questo senso, un dato esemplificativo è la stessa vicenda interna agli assetti di potere della Turchia, dove le forze politiche si contendono spazi e manovre con un consolidato apparato militare storicamente influente. Assistiamo già da tempo a dei sommovimenti in seno agli equilibri turchi, come dimostrano gli opachi sviluppi dell’affaire Ergenekon. In questo senso, proprio alla luce dell’instabilità di potere turco, sarà interessante cogliere come Ankara riuscirà a muoversi nei consessi internazionali sulla scia delle frizioni interne. Altrettanto di instabilità o meglio di lotta nelle sfere di influenza sul versante interno può dirsi per Israele, dove anche qui gli ambienti militari – senza tralasciare il fattore religioso – vogliono metter mano in maniera più calcata alle leve decisionali. Rimanendo sulla linea ipotetica di interpretazione – i nostri strumenti di rilevazione non vanno oltre un convenzionale campionario-, potrebbe anche immaginarsi l’attacco alle navi, proprio per la sua palese e a questo punto forzata cruenta spettacolarità, come una mossa maturata più all’interno dei vertici militari israeliani che in quelli politici in senso stretto, ai fini di creare una frattura ed imprimere un certo orientamento per quello che in ogni caso – a prescindere dalle volontà particolari- rimane un fatto compiuto di fronte al quale si ritrovano messi i principali attori della politica internazionale.. Del resto, rimanendo assodato il grado di preparazione del sofisticato esercito con la stella di Davide,  gli aspetti dilettantistici alla luce dell’esito e dei risvolti dell’operazione non possono che essere semmai apparenti.
A quei livelli non può esservi sprovvedutezza e quindi in questa fosca vicenda non può esservi casualità.
 
Prima e dopo il sangue versato sta un’ipocrisia mortificante. E’ quella dei Paesi occidentali.
E’ un’ipocrisia sistemica così come estemporanea e d’accatto.
Sorvoliamo sulle digressioni storiche e rimaniamo all’attualità, a partire da un breve accenno al variegato mondo delle c.d. ONG. Queste sono uno dei ritrovati di quello che nel linguaggio tecnico definisco soft power, cioè appartengono all’altro arsenale dei mezzi occidentali a disposizione, quello dell’assistenza umanitaria ma anche dell’intelligence e delle pressioni. Alcune hanno una regia pubblica nazionale o di dati organismi internazionali, altre sono la proiezione di centrali per così dire privatistiche di influenza e controllo (in stile Freedom House). Non si vuol screditare o mettere in dubbio la mirevole partecipazione di quanti con dedizione operano al loro interno e nello specifico del caso della Freedom Flottila non si vogliono avanzare sospetti o critiche.
Il discorso è generale e rimane un punto fondamentale: ci sono Ong che costituiscono delle pedine strategiche che in particolare gli Stati Uniti dislocano nel globo in ossequio a precisi fini pratici ed ideologici (si veda il loro ruolo destabilizzante nella ex Jugoslavia o nella ex Unione Sovietica), e ci sono Ong sostanzialmente trasparenti e votate diciamo disinteressatamente all’impegno assistenziale o come suol dirsi umanitario.
Di fatto, tutte misurano la cifra dell’azione politica degli occidentali in modo particolare nelle zone critiche del pianeta. Sono la maschera dietro cui si cela la loro ipocrisia oltre che il perseguimento di specifici interessi. Fanno parte di quell’illusorio consolidarsi come una porzione di quella tanto decantata “società civile globale” che crede (e vorrebbe) il mondo “piatto”, come il Pensiero Unico mondialista propugna attraverso la sua casta di intellettuali sparsi sul pianeta.
Sono in molti presuntuosamente a credere di voler edificare una democrazia dal basso pavoneggiandosi di sublimi conoscenze informatiche e studi sociologici illuminanti.
Precisando: un conto è interagire, informare e analizzare la dimensione del politico e del sociale attraverso l’utilizzo di internet, un altro conto è credere che i network, l’associazionismo facile, il protagonismo personalistico o di gruppo dei forum et similia abbiano inevitabilmente risvolti di concretezza o che soprattutto feriscano il potere. Il Sistema di potere globalista si perpetua nell’illusorietà generale di sentirsi partecipi di ciò che in realtà è un chiacchiericcio sterile spalmato su tutto e niente con le sue mirabolanti capacità di arrivare dappertutto nella “rete globale”.
La costituzione di una società civile globale, ricca di velleità post-moderne, di cui si pensa di diventare protagonisti è una riproduzione del potere già dominante. E’ il perpetuarsi dello statu quo.

Ecco, l’ipocrisia delle classi dirigenti e degli apparati di potere dominanti e sub-dominanti occidentali, con il loro carico di responsabilità, manchevolezze e complicità in guerre, crisi e disastri, trova una lampante espressione nel ricorso ormai strutturato alle Ong, prescindendo dalla buona o dalla cattiva fede di quest’ultime.
A fronte del genocidio e della carcerazione a cielo aperto dei palestinesi, a fronte dell’edificazione dello strapotere sionista, la complice debolezza nonché la complice azione degli europei e degli americani e quindi il loro debole o complice interventismo politico configura – non conta se ufficialmente ma nella sostanza - nell’impegno umanitario e nell’assistenzialismo dei volenterosi e purtroppo anche degli illusi, un ruolo che apparentemente è un protagonismo attivo. In realtà è una pillola indorata, è una farsesca corresponsabilità nel mantenimento dello statu quo. E’ come il ruolo ricoperto dall’associazionismo catto-laico delle società capitalistiche.
In pratica, alla cruda realtà dei fatti, quello dell’umanitarismo assistenziale è il massimo dell’interventismo in cui si prodigano gli occidentali. Nessun diritto per i palestinesi, ma almeno un po’di assistenza. Può temere questo Israele? Può temere la reazione dell’opinione pubblica mondiale? Può temere la reazione di quelli che fanno la gara ad indossare la kippah in visita a Tel Aviv in cerca del beneplacito per poter governare? Può temere un’inchiesta internazionale o un’iniziativa delle Nazioni Unite? C’è ancora qualcuno che non ha capito chi comanda all’Onu e nelle organizzazioni internazionali?
Ma vogliamo veramente prestarci al gioco ipocrita delle condanne, delle prese di posizione nette, delle indignazioni per le vittime delle navi quando nessuna condanna, nessuna effettiva scelta e nessuna azione politica e sovrana si è mai sbattuta in faccia agli israeliani?
L’innalzamento dei toni mediatico e politico di queste ore stride vergognosamente e ripeto ipocritamente col complice silenzio-assenso nei confronti dello scientifico e continuato crimine di Gaza.
Liberiamocidi quanti portano ancora in giro la panzana antistorica e buonista dell’assunto “due popoli due Stati”, panzana non da oggi ma dalle origini. E liberiamoci di chi ancora non vuol vedere come il pacifismo sia praticamente strumentale e funzionale al perpetuarsi delle guerre di dominazione, degli eccidi e delle logiche dominanti.