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Siamo tutti americani? Intervista a Marco Tarchi

di Terzano Giancarlo - 05/05/2006

 

 


Siamo tutti americani? Lo scenario da crociata, da epocale conflittotra civiltà, dipinto da molti commentatori e politici, sembrerebbe nonlasciare alternative: per sfuggire agli inferni fondamentalisti,l’unica è stringersi intorno ai grandi valori dell’Occidente e staredalla parte degli USA, che ne costituiscono il baluardo nel mondo.
Che i tempi ci costringano a questo drastico aut aut, tuttavia,dissentiamo. E non solo per un innato desiderio di percorrere “terzevie”; il fatto è che dietro il richiamo alla “bandiera” scorgiamo lemire egemoniche dell’unica superpotenza planetaria, la cura dei propriinteressi economici e strategici, lo stridente connubio tra strumentalirichiami ideali ed arroganti violazioni di ogni norma. E, in ultimaanalisi, la prospettiva di un pianeta uniforme, culturalmente allineatosul modello statunitense e che semmai ne scimmiotta lo stile di vitaiperconsumistico, non ci piace per niente.
Per un approfondimento sull’argomento abbiamo intervistato MarcoTarchi, professore di Scienza Politica, Comunicazione Politica e TeoriaPolitica presso l’Università di Firenze ed autore del recente “Control’americanismo” (Laterza Editore).

 
 
XFare+Verde - Il recente unilateralismo di Bush ha portato moltiosservatori a parlare di un nuovo impero, stavolta a stelle e strisce.Con quali caratteristiche si presenta? Ed è un prodotto del sologoverno repubblicano o una costante della politica estera della CasaBianca, manifestatasi anche con presidenti “democratici”?
 
Marco Tarchi - La tentazione egemonica è da lunga data una dellecaratteristiche della politica degli Stati Uniti d’America; si potrebbedire che è iscritta nei loro cromosomi, per le dimensioni del paese eper la tendenza all’espansione dei coloni e dei loro eredi, che non sisono mai tirati indietro quando si è trattato di pagare, e di farpagare, il prezzo dell’ampliamento delle frontiere. Anche quando alcunipresidenti degli Usa hanno innalzato il vessillo dell’isolazionismo,sottintendevano che nel “cortile di casa” (le intere Americhe…) siriservavano comunque mano libera. Il non intervento si limitava agliscenari d’oltre Atlantico. E’ ovvio che, in epoca di globalizzazione,il cortile si è alquanto ampliato, fino a non avere più confini, se nonquelli obbligati dalle circostanze. Stando ai precedenti storici,questa tendenza è stata assecondata sia dai democratici che dairepubblicani.
 
 
FV - Per Cacciari, tuttavia, gli USA non hanno una mentalità imperiale.Un impero deve essere accogliente, aperto alle culture che ingloba,onnivoro (gli imperatori romani parlavano il greco), mentre gliamericani sono monocentrici, monoglotti, ingenuamente convinti chetutti possano e debbano diventare come loro. Se condivide questaanalisi, a quali conseguenze porterà un impero così chiuso?
 
MT - Questo è un modo – corretto – di intendere il concetto di impero.Ma quando si è parlato in passato di “imperialismo”, la nozionesottintesa aveva poco a che fare con l’accoglienza delle culture deipaesi che ne erano oggetto. Oggi si dà comunque un’opportunità inedita:realizzare quella che Galli della Loggia ha definito una “koinèculturale transnazionale” sostanzialmente unitaria – basata su valoritipici della mentalità statunitense ma definiti dai loro sostenitori“occidentali” – in grado di sostituire, per assimilazione selettiva eomogeneizzazione, le culture particolari tipiche di ciascun popolo. E’su questa base che gli Usa potrebbero assestare la propria posizionedominante (con il sostegno tutt’altro che secondario di un solidoprimato militare).
 
 
FV - Ad unire USA ed Europa non sarebbe una semplice alleanzapolitico-militare, ma l’identità stessa di cultura. Ad unirli, è la“civiltà occidentale”. Esiste davvero questa comune identità denominataOccidente?
 
MT - A mio parere, no. Esiste un’ampia letteratura europea, daTocqueville in poi, che documenta le notevoli differenze psicologiche eculturali fra gli Usa e il Vecchio Continente. Chi le nega pensa,semplicemente, che esse debbano scomparire per via di assimilazione almodello nordamericano. E’ una possibilità da non scartare, perché glistrumenti di addomesticamento dell’immaginario collettivo, oggi moltopotenti, agiscono quasi all’unisono in questa direzione. Ma, a mioparere, un esito di questo tipo nuocerebbe gravemente al mondo nel suoinsieme, sradicandone la pluralità costitutiva.
 
 
FV - Nonostante Huntington, comunque la politica estera non siesaurisce nello “scontro di civiltà”. La storia insegna che confini incomune, economia, questioni strategiche, possono allontanare ancheculture tra loro affini e creare, al contrario, alleanze tra diversi.USA e Europa, oggi, hanno interessi comuni o divergenti?
 
MT - Qui non si tratta di mettere in campo ipotesi. Bastano i fatti.Molti autori di formazione e opinioni assai diverse, da Alain deBenoist a Charles Kupchian, hanno dimostrato che i contenziosi fra Usaed Europa sono rilevanti e in continua crescita. Tanto da autorizzare asupporre che l’attuale rapporto di alleanza transatlantica siadestinato a dissolversi in tempi non troppo lunghi.
 
 
FV - Lei ha più volte denunciato un clima pesante per i critici dellapolitica statunitense (come anche di un suo alleato particolare,Israele), fatto di scomuniche, censure, falsificazioni, denigrazioni.Il tutto in nome dell’intangibilità dei “paladini della democrazia”. Ciparla di questa paradossale censura liberale?
 
MT - Ne ho scritto e parlato così spesso che mi sembra ripetitivoentrare di nuovo nel tema. Chi volesse conoscere un mio argomentatoparere sull’argomento, non ha che da leggersi il libro “Control’americanismo” che ho di recente pubblicato per Laterza. Basterebbe,comunque, seguire attentamente i quotidiani, i periodici e i programmitelevisivi – compito duro, lo so, per chi non riesce a digerire più diuna certa dose di conformismo… – per verificare che questa censura èattivissima e agisce, ancor più che scomunicando i dissidenti, nondando loro la parola.
 
 
FV - Si parla sempre di antiamericanismo. Ma non esiste anche unantieuropeismo di marca USA, riaffiorato anche di recente con ladichiarazione sulla Vecchia Europa di Rumsfeld?
 
MT - Certamente. E non si limita alle parole. Opera nei fatti,quotidianamente. Emarginare l’Europa politicamente, militarmente eculturalmente è un obiettivo che gli Usa perseguono da sempre.
 
 
FV - Gore Vidal parla di corporate America, Michael Moore denuncia ilegami tra governo Bush e potentati economici … insomma, chi comandanella più potente democrazia del mondo?
 
MT - L’intreccio fra politica e affari è particolarmente stretto negliUsa, ma non condivido l’opinione di chi vede le amministrazioni diWashington, inclusa quella di Bush jr., come meri comitati di affari alservizio delle multinazionali. L’influenza neoconservatrice haobiettivi strettamente geopolitici. I politici nordamericani hannointeresse ad assicurarsi il sostegno dei grandi gruppi economici e astipulare accordi favorevoli ad entrambi, ma sanno anche operare inproprio per raggiungere gli scopi che si prefiggono. L’egemoniaplanetaria in primo luogo.
 
 
FV - “Gli Stati Uniti ci hanno colonizzato l’anima” denunciava WimWenders. E, in effetti, più che con i carri armati, l’America si èimposta (mi riferisco all’Europa) diventando padrona del nostroimmaginario. Secoli di cultura, le radici profonde, non ci hannosalvato. Eppure è tutto recente: ancora nella prima metà del ‘900, è inEuropa che nascevano le idee e le tendenze culturali, e potevamoguardare oltreoceano con distacco ed anche superiorità. Dov’è che cisiamo persi?
 
MT - Due guerre fratricide europee hanno fiaccato – con il loro caricodi frustrazioni, dolori, diffidenze, voglie di vendetta – lo spirito diun intero continente. Non c’è da stupirsene. E se l’Europa vuole usciredall’impasse, deve abbandonare ogni tipo di conflittualità interna.Naturalmente, gli Usa cercheranno di impedirlo: la cinica tattica didivisione messa in atto prima e durante la guerra contro l’Iraq lodimostra. A questo gioco non ci si deve prestare.
 
 
FV - I fautori dell’ineluttabilità del dominio culturale americanoaffermano che il primato culturale USA nasce dal fatto che tale societàmeglio rappresenta lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. E’ un processocosì scontato, o accade invece il contrario: la modernità è questaperché è l’americanizzazione del mondo che avanza?
 
MT - Direi più precisamente: se la modernità evolve in questadirezione, è anche per effetto dell’americanizzazione. Molto contaanche il timore di chi potrebbe opporvisi con argomenti, suggestioni eintenti diversi.
 
 
FV - Un ruolo fondamentale nell’americanizzazione dei popoli è datodalla prospettiva di ricchezza. L’american dream promette a tuttisviluppo, benessere materiale, beni di consumo in quantità. Ma èeconomicamente e soprattutto ambientalmente sostenibile tale promessa?
 
MT - No. Ed è evidente che gli stessi livelli raggiunti in questiambiti da gran parte degli abitanti del “primo mondo” possono essereconservati solo mantenendo l’attuale divisione del lavorointernazionale, con le connesse enormi sperequazioni tra un’areageografica e l’altra. Già le delocalizzazioni produttive dettate dalle“leggi di mercato” in epoca di globalizzazione stanno comportandoconseguenze economiche e sociali negative nei paesi industrializzati,incremento i tassi di disoccupazione.
 
 
FV - Uno sguardo alla società USA. Consumistica all’estremo, violenta,competitiva, fortemente sperequativa. Non sorprende che un quarto deisuoi cittadini faccia uso di psicofarmaci. Ma non è la società checonsidera la felicità un diritto dei suoi cittadini?
 
MT - Sì, ma oggi la felicità è intesa dai più in senso prevalentemente,se non esclusivamente, materiale; o, per dire meglio, economico. Lavecchia regola del “chi più ha più è” trova negli Stati Uniti d’Americaun’applicazione rigorosa. Il resto è derubricato alla voce “costiinevitabili” del successo individuale. Starà alla società di quel paesestabilire, nei fatti, quanti di quei costi sono tollerabili nel lungoperiodo e quali no.
 
 
FV - Insomma, non è il “migliore dei mondi possibili”?
 
MT - La risposta è scontata quanto la domanda: no.
 
 
FV - Nonostante la cappa di conformismo pro-USA, sussistono in Italiaed in Europa ampie sacche di “dissidenza” antiamericana, dall’estremadestra all’estrema sinistra, passando per frange cattoliche eambientalisti radicali. C’è del buono nelle loro critiche?
 
MT - C’è del buono e del meno buono. La parte costruttiva è quella chesi esprime nelle analisi corrette dei dati di fatto – che sono più chesufficienti ad alimentare una netta critica dei fondamenti psicologici,culturali e politici dell’americanismo – e nelle iniziative disensibilizzazione dell’opinione pubblica che ne derivano. La partecontroproducente è quella che si esprime in atteggiamenti pregiudizialiche in più di un caso confinano con un acritico fanatismo: è unvecchio, irrisolto e irresolubile problema di tutti gli ambientiaffascinati dall’estremismo (che poco ha a che vedere con la coerenzadelle proprie convinzioni. Anzi, è in questi contesti che spesso siverificano le più repentine “conversioni”). Fortunatamente, la primacomponente mi pare nettamente prevalente sulla seconda nella purdispersa galassia dei critici del ruolo che gli Usa esercitano oggi nelmondo.
 
 
FV - E Lei, che modello contrapporrebbe a quello americano?
 
MT - Nessuno, perché non apprezzo i confronti di idee fondati sumodelli astratti. Ciò che conta è reagire alle storture che si hanno difronte suggerendo i modi puntuali per correggerle. Ovviamente, questidipendono dalla concezione più generale che si ha dell’ordine dellecose, da una “visione del mondo”. Ma la mia non aderisce ad alcuno deiprodotti in vendita nel catalogo delle ideologie contemporanee. Credonella necessità di sintesi originali fra gli aspetti migliori dei varifiloni di pensiero che si sono contesi la scena del Novecento, e nellafecondità di aggiornamenti che li rendano capaci di interagire con lemutevoli condizioni imposte dalle circostanze.